mercoledì 21 dicembre 2016

Keynesismo in un solo paese: perché è possibile


Ogni tanto mi imbatto in commentatori che negano la possibilità di rilanciare l’economia di un paese mediante politiche di sostegno della domanda, a meno che questa azione non sia coordinata con qualcosa di analogo effettuato dai suoi principali partner commerciali.

Se il coordinamento non ci fosse, si dice - se, cioè, un paese espandesse la propria domanda interna mentre gli altri non lo fanno - non otterrebbe ripresa economica ma inflazione, e in aggiunta squilibri nei saldi commerciali esteri e nella bilancia dei pagamenti. Come esempio di una situazione del genere, si cita spesso il primo periodo della presidenza Mitterrand in Francia, tra il 1981 e il 1983.

Qui, in realtà, siamo in presenza di un fraintendimento del pensiero keynesiano. Le politiche attive di sostegno della domanda non sono la soluzione per produrre sempre e comunque accelerazione della crescita economica. Sono il modo per conseguire, con grande efficacia e in tempi anche rapidi, il recupero dell’economia da una situazione in cui la domanda è caduta nettamente al di sotto della capacità produttiva del sistema.

Era la situazione di molte economie avanzate in conseguenza della Grande Depressione negli anni Trenta, ed è la situazione di molti paesi oggi, per effetto della crisi Lehman del 2008 e della crisi dell’Eurosistema esplosa (e tuttora non risolta) principalmente a partire dal 2011.

Il contesto dei primi anni Ottanta era profondamente diverso. Il mondo economicamente sviluppato si trovava in una situazione di malessere a causa degli shock petroliferi del 1973 e del 1979, che avevano fortemente incrementato il costo di una materia prima essenziale (allora ancora più di oggi) e quindi ridotto il valore aggiunto (equivalente al PIL) potenziale dei paesi industrializzati.

Il problema poteva essere affrontato in due modi.

Ridurre la domanda aggregata mediante politiche deflattive (tagli di spesa pubblica o incrementi di tasse) riportandola al livello del diminuito PIL potenziale. In tal modo non si sarebbe avuta inflazione ma depressione economica: i tagli avrebbero contratto il reddito nominale di famiglie e imprese, innescando una catena di insolvenze e mandando in crisi il sistema creditizio.

Oppure, in alternativa, mantenere invariati i livelli di domanda aggregata e accettare alti livelli di inflazione, in quanto il potenziale di offerta si era ridotto (e la domanda nominale era quindi superiore all’offerta, innescando crescita dei prezzi).

La via più sensata e socialmente meno deleteria era quest’ultima, e per fortuna fu quella adottata. Produsse alcuni anni di inflazione a due cifre, ma si evitarono pesanti contrazioni dell’attività economica e dei livelli di occupazione.

Venendo all’episodio francese del 1981-1983, Mitterrand affrontò la situazione di una crescita più lenta che nel passato pensando di trovarsi di fronte a un problema di domanda. Era invece un tema di offerta. Il valore aggiunto potenziale, equivalente al PIL potenziale, del sistema economico era stato frenato dall’impennata dei costi produttivi. Ma non esistevano grossi livelli di sottoutilizzo del potenziale economico del paese (ancorché ridotto dai maggiori costi per materie prime).

Le politiche francesi di quegli anni non funzionarono non perché fossero “keynesismo in un solo paese” ma perché si trattò di “keynesismo applicato nel momento sbagliato”. Non era keynesismo, in effetti, ma un suo fraintendimento.

Nel momento in cui, invece, si è effettivamente in presenza di un pesante sottoutilizzo di capacità produttiva, le azioni di sostegno della domanda funzionano senza problemi. La maggior domanda riattiva produzione e occupazione. Non si creano tensioni indesiderate sui prezzi perché domanda e offerta recuperano di pari passo.

Se un paese rilancia la domanda e i suoi partner no, c’è effettivamente la possibilità di creare scompensi nei saldi commerciali esteri. Ma questo può essere evitato senza grandi difficoltà riallineando il cambio, oppure - nel contesto dell'Eurozona, dove il riallineamento di un singolo paese è impossibile senza attuare una rottura della moneta unica - dedicando una parte dell’azione espansiva alla riduzione del cuneo fiscale (un punto essenziale, non a caso, del progetto Moneta Fiscale).

In presenza di un potenziale produttivo inespresso, non esistono vincoli tecnici che impediscano di riportarlo a regime, riassorbendo il sottoutilizzo di capacità delle aziende e, soprattutto, la disoccupazione prodotta dalla crisi. A prescindere che l’azione espansiva della domanda, effettuata da un paese, sia o meno imitata dai suoi vicini e dai suoi partner d’affari.


5 commenti:

  1. Cosa ne pensa di questo articolo?..e se facciamo bancarotta cosa secondo lei succederà ?

    http://vocidallestero.it/2016/12/22/zh-fatevi-forza-preparatevi-alla-bancarotta-dellitalia-a-causa-delleuro/

    Shardan

    ps: ho nostalgia di "anonimo neoliberista" e dei suoi commenti ;-)si è volatilizzato....

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    1. Sì in effetti... era un interlocutore tenace e un ottimo sparring partner ! se passa di qui e gli torna voglia di riaccendere il dibattito, è più che gradito.
      Se facciamo bancarotta ? che si esce dall'euro per breakup e si converte tutto in lire. E in lire si pagano i debiti. Non è la mia soluzione ideale, ma molto meglio che andare avanti con questa situazione delirante.

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  2. Credo che la visione del Keynesismo in un solo paese sia superata.
    A mio avviso, valgono le considerazione conclusive di A. Bagnai (non certo un anti Keynesiano e anzi un sostenitore del cambio flessibile e della sovranità nazionale sia in campo monetario e fiscale) che chiosa:
    "si potrebbe realizzare il «keynesismo in un solo paese?» In altri termini: uscire dall’euro è una condizione necessaria (o, se si vuole, la disgregazione dell’euro è un evento inevitabile), ma non sufficiente a ricondurre un’economia pur non trascurabile come quella dell’Italia su un percorso di crescita equa e quindi stabile. Per farlo, bisogna anche ripensare al ruolo dello stato nel sistema economico, sia come soggetto attore (in particolare nel settore del credito e più in generale nella gestione del circuito del risparmio) sia come soggetto regolatore. In un sistema economico sempre più interconnesso, i grandi arbitraggi tra il mercato, vale a dire la dimensione transnazionale, e lo stato, vale a dire la dimensione nazionale, richiedono necessariamente uno sforzo di cooperazione internazionale. Non si può che esprimere ancora una volta, a guisa di conclusione, la speranza che questa cooperazione possa incominciare senza attendere una esplosione di violenza."

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    1. Cooperazione internazionale ben indirizzata (non certo quella che abbiamo attualmente nella UE) sì, ma non c'è motivo per cui gli stati non possano tornare, oggi, già sulla base di politiche concepite e attuate individualmente, ad essere soggetti "attori e regolatori" quantomeno con lo stesso livello di efficacia del periodo 1945-1975: il migliore, economicamente parlando, della storia europea.

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