Pochi giorni fa
mi sono ritrovato in mezzo a uno scambio di tweet con quattro o cinque
interlocutori, tra i quali un certo Matteo Renzi – proprio lui, quello vero
(notoriamente, un accanito tweetterista).
Renzi menava
vanto di aver ridotto le tasse con una serie di interventi, tra cui gli ormai
celeberrimi ottanta euro. Al che qualcuno gli ha contestato che “come
giustamente sancito dalla UE” non si tratta di una riduzione di tasse, ma di un
sussidio, quindi di un incremento di spesa pubblica.
Renzi ha
risposto che nel momento in cui diventano strutturali (cioè permanenti) gli
ottanta euro vanno considerati – nella sostanza, a prescindere dalla forma –
minori tasse.
A questo punto
sono intervenuto io facendo notare che il problema è un altro. Gli ottanta euro
sono stati dati con una mano e ripresi con l’altra, sotto forma di incremento
di altre tasse – TASI, accise, acconti IRPEF e altro ancora. Le tasse totali
non sono scese per nulla.
Questo mio
intervento ha riscosso parecchio successo, collezionando vari retweet e
stellinamenti. Quello che però è sfuggito, credo, all’attenzione di molti è
l’incongruenza della posizione del primo interlocutore (chiamiamolo Inty).
Implicitamente (anzi neanche tanto) la sua affermazione equivale a dire che gli
ottanta euro non andavano bene perché erano maggiore spesa pubblica, mentre
sarebbero stati ottimi se si fosse effettivamente trattato di minori tasse.
Ora, gli ottanta
euro sono soldi trasferiti ai privati (cioè lo sarebbero se non se li fossero
mangiati altre tasse, come dicevo: ma lasciamo da parte, per ora, questo
punto). Se riteniamo positivo sostenere la spesa privata, che importanza ha che
l’azione di sostegno venga classificata come riduzione di imposta o come
trasferimento ?
Inty è
probabilmente un sostenitore della tesi che più spesa statale è sempre brutto,
e meno tasse è sempre bello. Gli sfugge però che i dati di contabilità
nazionale espongono due concetti di spesa pubblica, molto diversi tra loro.
Il settore
pubblico italiano ha, attualmente, un deficit di circa 50 miliardi annui,
risultante grosso modo da 800 miliardi di uscite e da 750 miliardi di entrate.
Gli 800 di
uscite sono quelli che, colloquialmente, vengono definiti di solito “spesa
pubblica”. In realtà, circa 250 sono trasferimenti a privati – in buona parte pensioni.
La spesa
pubblica che costituisce una componente del PIL non include i trasferimenti, ma
solo la cosiddetta spesa diretta: stipendi dei dipendenti pubblici, investimenti
pubblici eccetera. Se lo stato costruisce un ponte, o se assume un insegnante,
o se apre un nuovo ospedale, la relativa spesa entra nel PIL. Se aumenta le
pensioni no: naturalmente la disponibilità di maggiori risorse finanziarie può
indurre il pensionato a incrementare i suoi consumi, con riflessi positivi su
domanda e occupazione. Ma è un effetto indiretto, non diretto.
Il PIL prodotto
direttamente dall’attività del settore pubblico è quindi circa di 550 miliardi
(800 meno 250) su un totale di poco più di 1.600. L’incidenza della spesa
pubblica sul PIL non è vicina al 50% come generalmente si sostiene: è, in
effetti, poco più di un terzo.
Il nostro amico
Inty ha probabilmente in testa che il problema principale dell’economia
italiana sia l’eccesso di spesa pubblica, e questo come risultato di due
convinzioni, entrambe infondate o, quantomeno, tutte da dimostrare.
La prima è che
la spesa pubblica sia sempre e comunque inefficiente. Bene: dei circa 550
miliardi di PIL sopra citati, oltre 100 sono rappresentati dal servizio
sanitario nazionale. Il sistema sanitario italiano si piazza regolarmente –
nelle classifiche elaborate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità – ai
primi cinque posti al mondo per efficienza. E’ costantemente in lotta per le
prime piazze con Singapore, Hong Kong e Giappone. Un gradino sotto si
collocano, in genere, Svizzera e Spagna. Parecchio più in basso, Germania,
Francia, Regno Unito e Stati Uniti.
Se la principale
voce di spesa pubblica ha un livello di efficienza molto superiore alla media
mondiale, possibile che tutto il resto sia un tale buco nero da rendere il
settore pubblico italiano, nel suo complesso, la palla al piede dell’intera
economia nazionale ? Andrebbe quantomeno argomentato e provato, dati alla mano.
Ma c’è un altro
punto. Se partiamo dal presupposto che la spesa privata è efficiente, dovremmo
guardare con favore a un incremento dei trasferimenti tanto quanto a una
riduzione delle tasse: entrambe sono categorie di risorse che vanno, o restano
in mano, al settore privato, che decide poi come impiegarle.
Naturalmente ci
può essere un problema di equità nel decidere chi beneficia dei trasferimenti,
ma questo vale anche per le riduzioni di tasse e di imposte.
Ora, ripeto una
volta di più quanto ho affermato in varie altre occasioni: io mi considero un
liberale e non uno statalista, nel senso che ritengo che lo stato debba
intervenire nell’attività economica se, e dove, è in grado di farlo, in modo
evidente e comprovato, con maggiore efficienza ed equità del settore privato.
Ma:
UNO, essere
liberale significa avere una preferenza, a parità di condizioni, per la
gestione privata delle risorse economiche rispetto alla gestione pubblica: non
favorire la gestione privata a prescindere, cioè quando esistono chiare
indicazioni che la gestione pubblica e più efficiente e più equa.
DUE, essere
liberale non significa nemmeno, a maggior ragione, favorire necessariamente la
riduzione della parte delle uscite statali – i trasferimenti appunto – che
alimentano spesa privata.
TRE, nel momento
in cui c’è disoccupazione massiccia, quindi pesante sottoutilizzo delle risorse
produttive, ridurre le uscite statali per abbassare il deficit pubblico ottiene
il risultato di ridurre il potere d’acquisto che circola nell’economia, quindi
la domanda e la produzione. Con riflessi negativi anche sulla spesa privata,
quella supposta essere più efficiente, e, soprattutto, sull’occupazione.
Diversa è la
situazione in cui il sistema economico funziona a regime, quella cioè in cui,
sostanzialmente, le risorse produttive sono tutte impiegate. In questo caso la
riduzione delle uscite statali è il presupposto per riallocare le risorse verso
altre forme di spesa. La cui maggiore efficienza ed equità, comunque, va
argomentata, non presa come un assunto aprioristico perché “il privato è meglio
del pubblico”.