giovedì 28 gennaio 2016

Ancora sui CCF a utilizzabilità immediata



Un addendum rispetto a quanto spiegavo qui, in merito alla possibilità che una parte delle emissioni di CCF possa essere utilizzabile anche immediatamente (senza, cioè, il differimento di due anni previsto nella schema base) per conseguire sgravi fiscali.

Può sembrare contraddittorio che da una parte si dia la possibilità di usare subito i CCF; dall’altra, si offra una maggiorazione del valore di utilizzo (in pratica, un tasso d’interesse) nel caso l’utilizzo stesso non sia immediato.

In realtà si tratta invece di un’ottimizzazione che potrebbe rendere la proposta ancora più efficace. Nel momento in cui mi vengono attribuiti dei titoli a valenza fiscale, di cui posso beneficiare anche immediatamente, si riduce a zero qualsiasi possibile dubbio sul fatto che abbiano valore e che l’assegnatario consegua un arricchimento patrimoniale.

Nello stesso tempo, l’attribuzione di un tasso d’interesse in caso di posticipo del loro utilizzo rende evidente (al titolare dei CCF) che si tratta di una possibile forma di investimento finanziario del proprio risparmio: forma particolarmente appetibile perché non presenta rischi d’insolvenza (in quanto non è un titolo di debito) e viene proposta in un contesto (quello odierno) in cui gli investimenti a basso rischio offrono rendimenti prossimi a zero (quando non addirittura negativi).

Naturalmente va preservato il principio dell’equilibrio dei flussi netti (uscite meno entrate) in euro delle amministrazioni pubbliche. Se il progetto CCF partisse con assegnazioni annue, ad esempio, di 30 miliardi, si potrebbe pensare a 10 sotto forma di CCF a utilizzabilità immediata, e a 20 di titoli fiscali utilizzabili dopo due anni (quelli già presenti nello schema originario).

Si eviterebbe qualsiasi peggioramento di flussi netti in euro in quanto il maggior gettito prodotto dalla ripresa di domanda, occupazione e PIL sarebbe significativamente più alto dei 10 miliardi di sgravi (conseguenti all’utilizzo integrale, nell’anno, dei CCF a utilizzabilità immediata). Peraltro offrendo un tasso d’interesse (nel contesto odierno) per esempio del 2-3%, con ogni probabilità si verificherebbe una posticipazione (su base volontaria) dell’utilizzo effettivo per buona parte delle assegnazioni.

L’assegnazione (in parte) di CCF a utilizzabilità immediata permette quindi di conseguire varie finalità:

PRIMO, rende ancora più evidente che i CCF, pur non essendo moneta legale, sono un suo sostituto molto efficiente.
SECONDO, dà al pubblico ancora più fiducia nel CCF a due anni, che ha un valore ancorato a uno strumento che sta già circolando e la cui utilizzabilità viene quotidianamente constatata da chiunque.
TERZO, dà alla pubblica amministrazione una leva di “politica simil-monetaria” (l’aumento o la diminuzione del tasso d’interesse offerto sui CCF in caso di differimento volontario del loro utilizzo) per gestire al meglio l’equilibrio dei saldi di cassa (uscite meno entrate in euro).

Per chiarire un ulteriore possibile equivoco: se l’utilizzo dei CCF per conseguire sgravi fiscali viene posticipato, questo non significa che non c’è beneficio in termini di espansione di domanda aggregata.

L’assegnatario dei CCF conseguirà un incremento di reddito effettivo e di patrimonio, e sarà quindi incentivato ad accrescere i suoi consumi. Avrà semplicemente l’opzione di utilizzare euro che già possiede e di mantenere i CCF in portafoglio (invece di convertire e spendere questi ultimi), in funzione del fatto che il tasso d’interesse riconosciuto sui CCF li rende attrattivi come forma di detenzione del risparmio.

Inoltre, si diffonderanno operazioni di compravendita regolate in CCF a utilizzabilità immediata: chi ha CCF li utilizza per pagare un bene o un servizio, la controparte che li riceve può convertirli in euro o anche no (se preferisce detenerli per beneficiare dell'interesse). Ma nel frattempo l'espansione di domanda, spesa e PIL ha avuto luogo.


sabato 23 gennaio 2016

Stiglitz

E’ annunciata per il maggio prossimo l’uscita di un nuovo libro di Joseph Stiglitz sull’euro.



In attesa di leggerlo, è interessante riflettere sul fatto che, nel presentarlo, l’editore ha sintetizzato così le tre vie che, nell’opinione del premio Nobel, costituiscono le possibilità di uscita dall’Eurocrisi e dall’”interminabile stagnazione a cui le politiche di austerità hanno condannato l’Europa”.

La prima possibilità sono “fondamentali riforme nella struttura dell’Eurozona e nelle politiche imposte ai paesi membri che hanno sofferto maggiormente”.

La seconda è “un ben gestito processo di scioglimento”.

La terza è “un audace nuovo sistema denominato ‘euro flessibile’”.

Mi incuriosisce particolarmente la terza strada, perché sono pronto a scommettere dieci a uno (dieci caffè contro uno, o quattro cappuccini se preferite…) che si tratta di sistema di Certificati di Credito Fiscale.


Ancora più curioso sarei di saperne di più, se, nel caso, è una soluzione completamente diversa. Non credo, ma vediamo.

martedì 19 gennaio 2016

domenica 17 gennaio 2016

Euro e turbolenza dei mercati azionari

Non è che si voglia dare all’euro la colpa di tutto, compreso se il Milan va male o se non nevica in montagna…

Ma le disfunzionalità dell’Eurosistema influenzano negativamente l’economia di tutto il mondo, e i mercati finanziari finiscono per risentirne.

Le ragioni sono meno evidenti a chi non risiede in uno dei paesi depressi dell’Eurozona. Questo articolo ad esempio elenca una serie di giustificazioni, (grosso modo quelle che si leggono dappertutto sui media internazionali) per la caduta degli indici di borsa USA da inizio anno ad oggi (-8% per l’SP500, alla faccia del "January Effect"...)

Vengono debitamente elencati il calo del prezzo del petrolio, le incertezze sull’economia e sulla borsa cinese, il rafforzamento del dollaro che penalizza i risultati delle multinazionali USA, i dubbi sul mercato del credito statunitense, gli interrogativi sulle prossime mosse della Federal Reserve.

L’euro non viene menzionato, ma è (che gli autori dell’articolo se ne rendano conto o meno – probabilmente no) il convitato di pietra.

In corrispondenza con il varo dell’euro-QE, il dollaro si è fortemente rafforzato rispetto all’euro. Come s'era detto allora, la svalutazione competitiva dell’euro era l’unico canale tramite il quale il QE poteva dare un qualche apprezzabile sostegno alla crescita dell’Eurozona.

Ma: la valuta cinese si è rafforzata di pari passo con il dollaro, essendogli agganciata. A partire dall’estate, si è cominciato a sospettare che la Cina facesse fatica a reggere questa rivalutazione.

Ma: se la Cina svalutasse repentinamente rispetto al dollaro, gli USA ne risentirebbero in modo per loro difficilmente accettabile, e con ogni probabilità stanno facendo pressioni sui cinesi per evitarlo.

Ma: la Cina intanto rallenta, importa meno petrolio e commodities, il calo dei prezzi si accentua e aumentano le difficoltà per i paesi che le producono.

Ma: gli utili delle aziende USA non sono tonici come si pensava, e anche il mercato del credito (high-yields in particolare) mostra alcune crepe.

Ma: la Federal Reserve tra molti tentennamenti a dicembre aveva attuato, finalmente, un incremento di un quarto di punto nei tassi di riferimento, che doveva attestare l’uscita dalla “trappola della liquidità” ed essere l’inizio di un graduale processo di normalizzazione rispetto ad anni di tassi ultra bassi. Ed ora si è in dubbio sui tempi di questa normalizzazione. Anzi, diventa più credibile chi già prima dubitava che lo stesso quarto di punto dicembrino fosse una mossa opportuna…


Che questi malesseri diffusi debbano portare a grossi sconvolgimenti, continuo a ritenerlo improbabile. Il rischio però non è nullo, come le borse hanno debitamente registrato. E il nesso con le disfunzionalità dell’Eurosistema mi appare indubbio.

venerdì 15 gennaio 2016

Il deficit pubblico è risparmio privato

Immaginiamo un paese il cui interscambio estero è in equilibrio: esporta tanto quanto importa, e non accumula quindi una posizione finanziaria netta verso l’estero, né attiva né passiva.

Supponiamo anche che l’amministrazione pubblica di questa nazione spenda più soldi di quanto ne incassa: esiste quindi, sistematicamente, una posizione di deficit nei conti pubblici.

Al deficit del settore pubblico non può che corrispondere (se la posizione con l’estero è in pareggio) un surplus del settore privato. Famiglie e aziende accumulano risparmio.

L’eccesso di spesa pubblica rispetto alle entrate può essere finanziato mediante emissione di moneta o mediante emissione di debito pubblico (un’ulteriore variante, nota a chi legge questo blog, è l'emissione di titoli ibridi quali i Certificati di Credito Fiscale, o CCF).

Anche nell’ipotesi in cui l’intero deficit sia finanziato con emissione di debito pubblico, comunque, a questo debito corrisponde la formazione di risparmio privato.

L’argomentazione che i deficit pubblici sono negativi perché comportano di “lasciare ai propri figli debiti da ripagare” è priva di senso, perché a fronte del debito pubblico, i propri figli si ritroveranno con maggiore risparmio privato (o sotto forma di moneta, o di attività finanziarie quali, appunto, i titoli del debito pubblico).

Questo non significa che l’utilizzo dei deficit pubblici per incrementare la domanda e la produzione del sistema economico possa o debba essere espanso all'infinito. Ci sono limiti, che non corrispondono però a livelli predeterminati di deficit o di debito pubblico.

I limiti nascono da due altri ordini di considerazioni:

UNO, la formazione di deficit commerciali esteri, che danno luogo a debito verso l’estero. Questo può essere un elemento di preoccupazione soprattutto se le importazioni nette, e quindi la relativa formazione di debito verso l’estero, vengono pagate in valuta straniera (diverso è il discorso per paesi come gli USA, che pagano le importazioni nella loro moneta nazionale).


DUE, la capacità produttiva del sistema economico: l’azione espansiva attuata mediante deficit pubblici non deve essere spinta a livelli che portano la domanda a superare la capacità produttiva del sistema stesso. In questo caso si produrranno alti livelli di inflazione. L’accumulo dei deficit porterà comunque alla formazione (in termini nominali) di risparmio privato, ma il valore reale di questo risparmio verrà eroso dall’inflazione.

mercoledì 13 gennaio 2016

Titoli fiscali per risolvere il problema euro



I problemi del sistema bancario, il decreto “Salvabanche”, i rischi di bail-in introdotti dalla normativa UE in vigore dal 2016 aumentano le inquietudini in merito all’economia italiana, depressa e stagnante ormai da oltre sette anni.

Il PIL è cresciuto dello 0,8% circa nel 2015. Il Ministero dell’Economia prevede (aggiornamento Documento di Economia e Finanza, settembre scorso) un’accelerazione all’1,3%-1,5% nel periodo 2016-2019.

Zero virgola o uno virgola non è ripresa. Ripresa è se l’Italia crea lavoro e recupera il milione di posti persi tra 2008 e 2014. A questi ritmi, al massimo l’occupazione non peggiora.

Renzi ne è consapevole: spesso ripete che le regole dell’Eurosistema – soprattutto i limiti al rapporto deficit pubblico / PIL – insistono troppo sul consolidamento fiscale a scapito dello sviluppo. Regolarmente però aggiunge “sono sbagliate ma le rispetteremo”.

Ma senza una vera ripresa produttiva e occupazionale, il consolidamento fiscale è controproducente e peraltro destinato a fallire.

Una situazione irrisolvibile ? non sulla base della proposta elaborata da un gruppo di ricercatori, tra cui Biagio Bossone, Massimo Costa, Enrico Grazzini, Stefano Sylos Labini, Giovanni Zibordi, il compianto Luciano Gallino e l’autore del presente articolo. Il responsabile ufficio studi di Mediobanca Securities, Antonio Guglielmi, l’ha analizzata in un recente rapporto.

Si tratta di introdurre un nuovo strumento finanziario, i Certificati di Credito Fiscale (CCF): titoli da assegnare gratuitamente a una pluralità di soggetti – lavoratori, aziende, pensionati, disoccupati, fornitori del settore pubblico.

Un CCF permette di ridurre pagamenti futuri dovuti alla pubblica amministrazione, per qualsiasi causale (tasse, imposte, contributi, tariffe, ticket sanitari). In pratica sono diritti a sconti fiscali futuri.

Il titolare può monetizzarli in anticipo: un CCF emesso oggi, e utilizzabile come sconto fiscale a partire (ad esempio) dal 2018, ha valore fin da subito. E’ infatti negoziabile e trasferibile, e avrà un prezzo di mercato pari al valore facciale (lo sconto fiscale usufruibile alla scadenza) al netto di un fattore di attualizzazione finanziaria (prevedibilmente modesto) che incorpora l’effetto del differimento.

Molto probabilmente, si diffonderà anche l’utilizzo diretto dei CCF come corrispettivo di operazioni di compravendita.

Mediobanca ha esaminato gli effetti di un’emissione di 20 miliardi di CCF nel 2016, incrementati a 40 dal 2017 in poi. Benché più contenuto rispetto ad altre ipotesi elaborate dal nostro gruppo di ricerca, il conseguente accrescimento di potere d’acquisto in circolazione e domanda aggregata porta lo sviluppo del PIL al 3% annuo circa.

La crescita inoltre aumenta il gettito, compensando gli sconti fiscali ottenuti, a scadenza, dai titolari dei CCF. Il maggior denominatore riduce il rapporto debito pubblico / PIL, e la differenza tra spese e incassi pubblici annui (in euro) cala a zero.

Le assegnazioni di CCF andranno, inoltre, in parte alle aziende, in funzione dei costi di lavoro sostenuti. Questo riduce il costo del lavoro effettivo, migliora la competitività ed evita che la ripresa squilibri i saldi commerciali esteri: la maggiore competitività consentirà alle aziende di esportare di più e di guadagnare quote di mercato interno nei confronti della concorrenza estera, compensando le maggiori importazioni dovute alla ripresa.

Inoltre, i CCF consentono un sistema di “clausole di salvaguardia non-procicliche”. Se in un dato anno la congiuntura mette a rischio l’equilibrio entrate-uscite in euro, il governo può sostenere in CCF (e non in euro) alcune spese, o introdurre imposte a fronte delle quali il contribuente riceve una compensazione in CCF.

Se Monti avesse utilizzato questi strumenti, il consolidamento fiscale non avrebbe causato la pesante caduta di PIL (5%) e occupazione (500.000 posti persi) prodottasi nel 2012-2013.

Si raggiungono così anche le finalità del Fiscal Compact. L’Eurosistema prevede che la BCE garantisca i debiti pubblici purché ogni paese s’impegni al pareggio di bilancio e a ridurre il rapporto debito / PIL. In pratica la BCE garantisce gli attuali livelli di debito, purché non si incrementino.

Ma i CCF non sono debito da rimborsare. Lo stato emittente si impegna solo ad accettarli a riduzione di pagamenti futuri. Nessuna garanzia è richiesta alla BCE: il valore dei CCF è assicurato dall’impegno di accettazione dello Stato.

Tutto ciò risolve le attuali disfunzionalità dell’Eurosistema senza rompere la moneta unica, e senza che l’Italia debba chiedere maggiori garanzie o sostegni finanziari a nessuno.