venerdì 27 marzo 2020

Brevi spunti sullo scenario macroeconomico


UNO: Impatto della crisi sanitaria sul PIL 2020 e 2021

Iniziano a circolare previsioni, ma il grado di alea è molto elevato.

Si parla di cadute di PIL vicine o superiori al 10% per tutti i principali paesi europei e per gli USA.

La caduta dovrebbe essere grosso modo recuperata nel 2021.

L’ipotesi sottostante è che la situazione attuale duri un paio di mesi, e in un altro paio si torni gradualmente alla normalità.

Ma ovviamente c’è molta incertezza sulla durata della crisi sanitaria, dei lockdown e dei blocchi produttivi.



DUE: Reazioni di governi e banche centrali

Sono state annunciate e cominciano già a essere attuate forti azioni espansive, soprattutto in forma di erogazioni ad aziende e cittadini, sospensione di pagamenti d’imposte, e sostegni al credito.

L’ordine di grandezza corrisponde alla caduta di PIL prevista per il 2020 – approssimativamente 10%, come detto.

Si spenderà anche per il potenziamento delle strutture sanitarie di contrasto alla crisi, ma al confronto sono cifre modeste. Sarebbe poi sensato, anzi doveroso, un rilancio degli investimenti pubblici soprattutto (ma non solo) nel settore sanitario. Questo però è un tema del “dopo”.

La banche centrali stanno sostanzialmente monetizzando tutto, garantendo l’acquisto dei titoli di Stato a tassi d’interesse pressoché azzerati e senza limiti temporali prefissati.

L’eurozona come di consueto fa parzialmente eccezione per la sua natura di non-Stato, per le asimmetrie tra paesi e per i vincoli imposti dai trattati all’azione della BCE (vedi nel seguito).



TRE: Esiste un rischio di stagflazione ?

La crisi ha contemporaneamente un impatto restrittivo sia sulla domanda che sull’offerta di beni e servizi.

Tuttavia l’effetto maggiore è sulla domanda. Chiusi in casa si spende ben poco. La domanda di beni di consumo durevoli è praticamente azzerata.

Non si spende per auto, elettrodomestici, abbigliamento, arredamento, turismo, ristoranti. Solo alimentari, farmaceutici e poco altro.

Gli investimenti aziendali sono per lo più “congelati”.

Ci sono tensioni per l’approvvigionamento di componenti e materiali intermedi da altri paesi, ma le supply chains verranno riattivate (probabilmente con maggiore diversificazione e utilizzo di fornitori locali) via via che si torna alla normalità e la domanda riparte.

L’enorme liquidità immessa nell’economia rimarrà in circolo anche successivamente, ma compenserà in effetti la caduta di reddito dovuta alle chiusure produttive e al periodo di crisi.

Quando si tornerà alla normalità, non ci sarà quindi una “botta” paurosa di domanda tale da innescare inflazione incontrollata o comunque eccessiva.

C’è qualche voce dissonante, ma questa è l’opinione della maggioranza degli economisti, e in particolare di quelli che operano per conto di banche e istituzioni finanziarie: non si vede rischio di stagflazione.

E’ un’opinione confermata dai mercati finanziari: il delta di rendimento tra bond a tasso fisso e bond indicizzati implica un’inflazione media dell’1% per i prossimi dieci anni.



QUATTRO: Rischi di tenuta del sistema euro

L’eurozona è un’anomalia perché la sua banca centrale non è garante incondizionata del debito degli stati membri.

I paesi del Nord hanno già predisposto interventi enormi; il Sud è in difficoltà perché il mercato finanziario teme la rottura e quindi impone tassi più alti.

La mutualizzazione dei debiti pubblici continua a incontrare fortissime resistenze da parte di Germania, Paesi Bassi ecc.

La rottura dell’euro rimane quindi un evento possibile.

D’altra parte la mutualizzazione potrebbe non essere mai dichiarata ma eseguita de facto: in pratica, in un modo o nell’altro, la BCE continua a “lasciar intendere” che manterrà bassi i tassi e gli spread (il “whatever it takes” di Draghi, anche se Draghi non è più alla BCE).



CINQUE: Posizione dell’Italia

La domanda interna era, già prima della crisi sanitaria, fiaccata da anni di austerità.

Se si accetteranno interventi a fronte di “condizionalità” (impegni di rientro successivo) ci sono fortissimi rischi di ulteriore deterioramento del tessuto economico – sociale.

Tecnicamente il problema è risolvibile con strumenti quali forme di “moneta” parallela (il progetto CCF), ma le difficoltà politiche sono enormi.

Se si arriva alla rottura, c’è un elevato rischio che sia disordinata (conversione forzata di debito e conti correnti da euro in nuove lire: in pratica, anche se non giuridicamente, un default).

A parte le complicazioni tecniche e legali, comunque, si tratterebbe di un evento tipo “rottura SME 1992”, dopo la quale l’Italia si è ripresa.



SEI: Scenari

A livello mondiale il recupero ci sarà senz’altro; molto aleatorio però è stimare la durata e l’intensità del dip.

A livello Italia, i rischi sono: ulteriore compressione di domanda interna, consumi, investimenti; impoverimento della popolazione; degrado di infrastrutture e welfare; sempre più si diventa un’area economica a basso costo, orientata all’export, con alta disoccupazione, bassi salari e precariato sempre più diffuso.

Tutto questo non è inevitabile: ma bisogna passare dal ridisegno oppure dalla rottura dell’euro. Ci sono enormi complessità tecniche, legali e soprattutto politiche.

Gli effetti possibili per l’Italia si divaricano tantissimo. Lo scenario positivo non è da escludere, ma i rischi sono molto elevati.


mercoledì 25 marzo 2020

Coronavirus e spesa pubblica


Vedo parecchia confusione in merito alle modalità con le quali i sostegni all’economia, messi a disposizione da governi e banche centrali, dovrebbero essere impiegati.

Cerco (spero) di dare un contributo alla chiarezza.

Dal punto di vista delle conseguenze economiche, il Coronavirus è una crisi particolare perché siamo in presenza di una caduta sia di domanda, che di capacità produttiva del sistema economico.

La capacità del sistema si è abbassata per il semplice motivo che buona parte della popolazione non può uscire di casa, e parecchie aziende sono chiuse. In aggiunta, vengono a mancare prodotti intermedi forniti da operatori situati in altre parti del mondo: per esempio in Asia.

Questo però non significa che erogare potere d’acquisto ad aziende e cittadini – cioè stimolare la domanda – possa produrre un eccesso d’inflazione. La spesa privata rimarrà comunque bassa. Se non puoi uscire di casa, non spendi in beni di consumo durevoli – auto, elettrodomestici, abbigliamento, mobili. Non esci a cena e non fai turismo.

In pratica spendi solo per le necessità vitali: alimentari, farmaceutici, prodotti per l’igiene e per la casa, affitti, bollette e poco altro.

E le aziende non accelerano di sicuro i loro progetti d’investimento. Al contrario, li mettono in frigorifero.

Allora, a cosa serve distribuire soldi (e abbassare le tasse) ad aziende e cittadini ?

Semplicemente, a salvaguardare le necessità vitali di chi perde lavoro e/o reddito; a evitare una catena di insolvenze perché non si hanno i soldi per pagare affitti, mutui, finanziamenti, fornitori e tasse; e a permettere alle aziende di riaprire e quindi di riassumere personale quando l’emergenza sarà passata.

Per limitare il calo del PIL, tuttavia, è anche necessario che lo Stato aumenti la propria spesa pubblica in investimenti e assunzioni: in primo luogo ovviamente dove più è necessario nell’immediato – quindi nel settore sanitario.

In ogni caso, l’erogazione di fondi NON deve essere effettuata a debito. Non devo dare liquidità sotto condizione che sia da restituire in un futuro più o meno prossimo. Non devo dare crediti alle aziende, ma contributi a fondo perso. Non devo finanziare gli individui o posporre i pagamenti di tasse, imposte e contributi: devo regalare soldi, e cancellare totalmente gli adempimenti fiscali, per un periodo di tempo adeguato.

E le banche centrali non devono fornire ai governi la moneta necessaria sotto condizionalità o vincoli di restituzione o limiti di debito da cui prima o poi rientrare. Devono emettere moneta e distribuirla. Punto.

Nei paesi normali, quelli dotati della loro banca centrale, di fatto è così. In USA e UK nessuno si sta preoccupando dei livelli di deficit e di debito pubblico che verranno raggiunti, né di ipotizzare percorsi di rientro. Gli istituti di emissione forniranno sostegno totale, per qualsiasi cifra e per qualsiasi periodo di tempo necessario.

Il problema, come al solito, è l’Eurozona. Tanto per cambiare si parla di “interventi soggetti a condizionalità, sia pure “leggera” e da “verificare in futuro””. Mettendo di mezzo, nel rapporto tra BCE e governi, organismi intermedi come il MES, che non hanno nessuna funzione salvo quella di essere i guardiani e gli enforcer di queste (ancora da precisare) condizionalità.

Proposte del genere sono pericolosissime. Rischiano di creare una situazione in cui vari paesi, e l’Italia in primo luogo, saranno in futuro sottoposti a vincoli che impediranno una ripresa piena.

Tutto questo, in un’economia già fiaccata, da una dozzina d’anni, dalle scellerate politiche di austerità che non ci hanno consentito di superare gli effetti della crisi finanziaria del 2008-9. Oltre ad averci forzato a ridurre l’efficienza del sistema sanitario pubblico, aggravando in modo drammatico la crisi prodotta dal Coronavirus.

Per l’Italia, accettare uno scenario come questo sarebbe al di fuori di ogni sensatezza e di ogni ragionevolezza.


lunedì 23 marzo 2020

Progetto CCF (Certificati di Compensazione Fiscale)


I Certificati di Compensazione Fiscale

Si propone l’introduzione, da parte del MEF (Ministero dell'Economia e delle Finanze), di un titolo a utilizzo fiscale: il CCF.

I CCF sono titoli che danno diritto al titolare di ridurre pagamenti dovuti alla pubblica amministrazione (per tasse, imposte, contributi ecc.) a partire da 2 anni dopo la loro emissione.

Non devono essere collocati sul mercato ma attribuiti direttamente a una pluralità di soggetti:

persone fisiche, per integrare redditi, con particolare riguardo agli individui attualmente colpiti dalle restrizioni alle attività economiche

aziende, per ridurre il cuneo fiscale e anche per gestire al meglio le conseguenze economiche dell’emergenza sanitaria

allo Stato e agli enti pubblici territoriali, per finanziare investimenti e spese correnti: in primo luogo, nell’immediato, le azioni di contrasto all’emergenza Coronavirus.

I CCF non concorrono alla formazione del deficit pubblico e del debito pubblico, come definiti dai trattati che regolano il funzionamento dell’Eurozona.

Si ricorda peraltro che i vincoli del “Patto di Stabilità e Crescita” sono attualmente sospesi.

Inoltre, i CCF non sono soggetti a rimborso in cash, e, come detto, non devono essere collocati sul mercato dei capitali.

Chi riceverà i CCF potrà venderli sul mercato in cambio di euro, oppure scambiarli contro beni e servizi a soggetti che decidano liberamente (non forzatamente) di accettarli.



Che cosa assicura il valore dei CCF

Dato che, decorsi i 24 mesi (e per un periodo illimitato successivamente), i CCF daranno diritto a ridurre pagamenti nei confronti della pubblica amministrazione, in rapporto 1 CCF  = 1 euro, il valore del CCF resterà molto vicino a quello dell’euro.

L’essenziale, per garantire un valore del CCF stabile e vicino a quello dell’euro, è che i CCF che giungono annualmente a scadenza siano al massimo una modesta frazione rispetto agli incassi lordi della pubblica amministrazione.

Questi ultimi sono stati, nel 2019, oltre 800 miliardi; caleranno nel 2020 per effetto del Coronavirus, ma ritorneranno a quei livelli una volta terminata l’emergenza.

Non ci sono quindi problemi se le emissioni di CCF raggiungono per esempio 100 miliardi annui, o cifre anche maggiori.

Si ricorda comunque che l’utilizzo fiscale dei CCF prosegue indefinitamente anche dopo i 24 mesi, e quindi con ogni probabilità una parte non verrà utilizzata subito ma continuerà a circolare come moneta complementare.



Come i CCF consentano la riduzione del rapporto debito pubblico / PIL

A causa del Coronavirus, il rapporto debito pubblico / PIL aumenterà considerevolmente nel 2020.

Contestualmente all’avvio del progetto CCF, l’Italia assumerà l’impegno a far declinare, anno dopo anno a partire dalla conclusione dell’emergenza sanitaria, tale rapporto.

Ciò sarà possibile:

perché il PIL risalirà (passata l’emergenza) grazie alla riapertura delle attività produttive e alle azioni espansive su domanda e investimenti prodotte dai CCF medesimi

e perché le azioni espansive necessarie saranno attuate, appunto, mediante assegnazioni di CCF e non mediante emissione di debito.


sabato 21 marzo 2020

Una conversazione tra Marco Cattaneo e Fabio Conditi

Dove si parla - a questo link - di impatti economici del Coronavirus, CCF, SIRE, conti fiscali di risparmio e altro ancora.

Un'ora per capire che l'approccio alla gestione dell'economia dovrà cambiare totalmente, demolendo tutte le fandonie che l'establishment ha raccontato nell'ultima venticinquina d'anni.

giovedì 19 marzo 2020

Questa è una guerra e non la combatti senza moneta


Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale, commentava pochi giorni fa su twitter che “il mondo è di fatto in guerra (contro il virus e non gli uni contro gli altri: questa è la buona notizia…). Tenuto conto di questo: deficit federale USA in rapporto al PIL – 12% nel 1942, 26% nel 1943, 21% nel 1944, 20% nel 1945. Non facciamo gli schizzinosi”.

Il paragone con gli USA nella seconda guerra mondiale però vale fino a un certo punto. L’apparato industriale statunitense non era stato intaccato dai combattimenti, che si svolgevano altrove. Anzi, la seconda guerra mondiale fu l’evento che fece una volta per tutte superare la Grande Depressione, riattivando tutta la capacità produttiva inutilizzata, che era notevole.

Il PIL USA infatti crebbe a grande velocità. Il problema per gli USA non fu, in quegli anni, il crollo della produzione, ma il suo riorientamento verso lo sforzo bellico.

La situazione attuale è confrontabile non a quella USA, ma a quella dei paesi dove i combattimenti si svolgevano. Diversamente da allora non c’è distruzione fisica di capacità produttiva, ma c’è l’impossibilità pratica per una buona parte delle aziende (date le restrizioni ai movimenti) di operare al loro livello abituale.

Gli USA durante la seconda guerra mondiale dovevano finanziare la guerra in un contesto di forte crescita del PIL. Noi dobbiamo invece evitare che la caduta del PIL crei danni irreversibili a larghe fasce di popolazione, e mini il recupero della produzione quando l’emergenza sarà terminata.

Per combattere questa guerra, serve – in particolare all’Italia – disponibilità di moneta non emessa a debito, sufficiente:

a evitare una crisi finanziaria (insolvenze dovute all’impossibilità di pagare debiti, fornitori, affitti, imposte) e le connesse conseguenze in termini di fallimenti e di deterioramento del potenziale produttivo

a far sì che ogni cittadino possa disporre dei generi di prima necessità – cibo e farmaci in primo luogo – che devono continuare a essere prodotti

a dotare il sistema sanitario pubblico di tutte le risorse necessarie per far fronte all’emergenza.

Qual è il livello di deficit / PIL necessario per raggiungere questi risultati ? nessuno è oggi in grado di stimarlo in modo affidabile, ma dato che dobbiamo affrontare l’equivalente (sul piano economico) di una guerra, contestualmente (al contrario degli USA durante la Seconda Guerra Mondiale) a una caduta di PIL, è senz’altro di un ordine di grandezza ben diverso rispetto al 3% di Maastricht.

E non si parla, quindi, dei 750 miliardi annunciati ieri dalla BCE. Si parla di svariate migliaia di miliardi per l’Eurozona, e quello che ne deriva pro-quota per l’Italia. Non a debito, ripeto non a debito.

E’ ridicolo preoccuparsi dell’inflazione (con la domanda di beni di consumo compressa dalle limitazioni ai movimenti, che inflazione volete che ci sia ?).

E ancora più assurdo predisporre degli interventi strutturati in modo che le spese odierne creino debito da rimborsare “dopo”. Equivarrebbe a tenere a galla l’economia oggi, per poi logorare ed erodere pesantemente il tessuto produttivo nei prossimi anni.

Tutte le spese necessarie devono essere sostenute senza creare debito: in altri termini, occorre emettere massicciamente moneta, e indirizzarla verso spesa pubblica, nonché sostegno al reddito e ai consumi di cittadini e aziende.

Nell’ambito dell’Eurozona, se questo non accadrà, la rottura dell’euro è inevitabile.


lunedì 16 marzo 2020

Spazio fiscale e keynesiani da salotto


I “keynesiani da salotto” sono una categoria di economisti (e di commentatori economici) abbastanza particolare. Non sono euroausterici: non sostengono follie tipo il pareggio di bilancio e l’austerità in condizioni di domanda depressa.

Sostengono la necessità di un’azione attiva del governo per stabilizzare l’economia, e in particolare di intervenire con azioni anticicliche per evitare, o per risolvere rapidamente, situazioni di disoccupazione o sottoccupazione delle risorse produttive. E a maggior ragione, oggi, per affrontare emergenze come il Coronavirus.

Fin qui, tutto bene. Ma le cose le hanno capite a metà. Una loro affermazione tipica, per esempio, è che oggi esiste “spazio fiscale” per le manovre espansive, in quanto i tassi d’interesse sono vicini a zero. E che i tassi vicini a zero li abbiamo in quanto c’è l’euro: con la lira non sarebbe così, quindi meglio restarci, nell’euro – ma senza i vincoli del patto di stabilità e del fiscal compact.

Perché hanno capito le cose a metà ? perché i tassi d’interesse sul debito pubblico, lo Stato li può sempre portare a zero, se è l’emittente della moneta in cui il debito pubblico viene emesso. Basta che si impegni a comprare alla pari tutti i titoli di Stato in circolazione.

Non solo: lo Stato non ha bisogno di emettere debito per fare deficit. Può emettere direttamente moneta.

Il limite al deficit è la creazione di potere d’acquisto eccedente la capacità produttiva del sistema economico. Quel livello di deficit non è più utile per espandere produzione e occupazione ma crea, invece, eccesso d’inflazione.

Non c’è bisogno di utilizzare una moneta emessa e gestita da altri (e per di più troppo forte per i fondamentali della propria economia) per attuare politiche economiche espansive quando è necessario. Al contrario: quella moneta la devo reperire da terzi, e questo mi può creare un mare di guai. Perché i terzi potrebbero non darmela – se non a condizioni per me disastrose – esattamente quando ne ho bisogno per rilanciare il mio sistema economico.

I “keynesiani da salotto” sono tali perché criticano il sistema ma cercano di non cadere in disgrazia presso l’establishment che l’ha costruito. Il controllo della moneta è la fonte del potere di quell’establishment, e loro non si sognano certo di porlo in discussione. Sperano di esserne cooptati, e di “correggerlo” quel tanto che basta per renderlo un po’ meno iniquo e vessatorio.

Sono animati da buone intenzioni (quelle di cui sono lastricate le strade dell’inferno) e sono anche in buona fede (che è una virtù da non sopravvalutare: in buona fede, ci si convince, spesso, di ciò che ci riesce conveniente).

State pur certi che all’establishment non danno fastidio.


sabato 14 marzo 2020

La gaffe della Lagarde (sottotitolo: senza farina non si fa il pane)


La conferenza stampa di Christine Lagarde, presidente BCE, al termine del comitato direttivo di giovedì 12 marzo, è stata una catastrofe comunicativa.

Con sette parole – “we are not here to close spreads” – è riuscita a ottenere l’effetto esattamente opposto a quanto era stato conseguito da Mario Draghi usandone tre – “whatever it takes” – nel 2012.

Allargamento degli spread di tasso tra Germania e paesi europeriferici, crollo dei titoli di Stato, ribassi a due cifre delle borse.

Però…

Si può affermare che la Lagarde è inadatta per il ruolo che riveste. Si può dubitare della sua competenza. Ma una cosa va anche sottolineata.

Christine Lagarde ha messo a nudo una verità. In una situazione di crisi economica, a maggior ragione se causata da un evento esogeno come l’epidemia di Coronavirus, diventa vitale per lo Stato controllare la moneta che utilizza.

L’Eurozona non è uno Stato e le politiche di sostegno della domanda, mediante spesa pubblica e riduzione di tasse, sono lasciate agli stati membri: che sono costretti però a fare affidamento sui mercati per approvvigionarsi.

E la moneta viene prodotta da un’entità esterna, che non fornisce – per statuto le è in effetti impedito – una garanzia incondizionata del debito pubblico degli stati membri.

Mario Draghi è riuscito a imporre una soluzione di compromesso – predisporre strumenti d’intervento condizionati a non meglio precisate “riforme” degli Stati, e convincere i mercati che era troppo rischioso sfidare la volontà della BCE di attivarli.

Forse, anzi di sicuro, era un bluff. Ma i giocatori al tavolo non si sono sentiti di chiamarlo – per otto anni.

Ma Draghi, e questo è sempre stato chiaro, non ha potuto risolvere le disfunzioni del sistema. Ha solo applicato un grosso cerotto e ha evitato di farlo deragliare.

Le disfunzioni del sistema si risolvono solo se gli Stati tornano in possesso della facoltà di effettuare le necessarie politiche di rilancio senza dipendere dai mercati finanziari. Non si risolvono se esiste perennemente il dubbio che il mugnaio negherà la farina per fare il pane.

La volontà politica di trasformare la BCE in un garante incondizionato dei debiti pubblici nazionali non esiste. La Lagarde è stata estremamente malaccorta perché non aveva nessuna necessità di pronunciare quella frase. Ma ha detto la verità. E quello è il problema.

Alternative ? una è che gli Stati che ne hanno necessità – e in particolare l’Italia – emettano uno strumento di Moneta Fiscale. In un precedente articolo, si sono messe a confronto proposte già sul tavolo delle forze politiche: i CCF del Gruppo Moneta Fiscale (Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa, Stefano Sylos Labini) e i Minibot di Claudio Borghi.

L’altra ? la rottura dell’euro.


giovedì 12 marzo 2020

Che cosa ha in mente Gualtieri


Sapete qual è la strategia anticrisi a lungo termine che le autorità economiche italiane, diciamo (giusto per personalizzare) il ministro Roberto Gualtieri, hanno in mente di utilizzare ?

Emettere i CCF ? No.

Hanno in mente che il rapporto deficit pubblico / PIL quest’anno “sparerà” a livelli assurdi (che poi assurdi non sono affatto, nel contesto attuale: diciamo a livelli che si pensava impossibile raggiungere).

Quanto, per il 2020 ? proviamo a dire il 12% ?

OK, naturalmente sarà giustificato dall’emergenza Coronavirus e dalle sue conseguenze sull’economia. E nei prossimi anni ?

Nei prossimi anni, si attuerà una “virtuosa strategia di riduzione”. Magari un punto all’anno: 11%, 10%, 9%, 8%...

Per tornare sotto il 3%, se ne parla quindi a fine decennio. Ma cos’è un decennio di fronte all’eternità (come disse mio nonno il giorno del suo novantesimo compleanno) ?

E il debito pubblico ? Beh il debito pubblico è un problema solo se l’istituto di emissione fa venir meno il suo sostegno.

E la BCE non lo farà, a mio modesto avviso. Il whatever it takes proseguirà (salvo che non si rassegnino a sfasciare l’euro).

In effetti, è la strategia applicata da vari paesi dopo la crisi Lehman e dopo l’eurocrisi. Viene in mente, in particolare, la Spagna.

Non è l’ideale, ma potrebbe anche funzionare discretamente.

Mi pare uno scenario ragionevole, per quanto sia possibile formulare scenari in questo momento.

Certo, il quadro è in evoluzione. Stay tuned.


lunedì 9 marzo 2020

Moneta Fiscale per un nuovo Piano Marshall


Gli impatti economici del Coronavirus sono, benché al momento difficili da stimare, senz’altro molto rilevanti. Per di più, colpiscono un paese già fiaccato da anni di austerità e da una congiuntura negativa, non solo italiana, che era in effetti iniziata parecchi trimestri prima.

La decisione, presa nella notte tra il 7 e l’8 marzo, di mettere in quarantena la Lombardia e altre quattordici province dell’Italia Settentrionale rende ancora più impellente la necessità di agire.

Si invoca a gran voce un “Piano Marshall” che rappresenti un’autentica svolta per l’economia del paese. Ma i vincoli del sistema euro, nel suo assetto corrente, non lasciano margini di manovra minimamente adeguati alle dimensioni del problema.

La modalità di intervento attuabile dall’Italia, senza passare per la rottura deflagrante della moneta unica europea, è l’introduzione di una o più forme di Moneta Fiscale.

Una possibilità in questo senso è costituita dai Minibot di Claudio Borghi, responsabile economico della Lega. Nella configurazione proposta, però, la sua portata è del tutto insufficiente.

L’idea è di rimborsare debiti della pubblica amministrazione (debiti di fornitura e debiti a fronte di crediti d’imposta) con uno strumento cartaceo utilizzabile per pagare le tasse. Questo strumento, quindi, circolerebbe a un valore presumibilmente in linea con quello dell’euro.

I Minibot hanno però il limite di essere assegnati a soggetti già titolari di crediti. Anticipano, in altri termini, una disponibilità finanziaria, ma non incrementano reddito e ricchezza del percipiente.

Il Gruppo Moneta Fiscale (che comprende Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa e Stefano Sylos Labini) ha elaborato uno strumento di intervento molto più potente, i CCF (Certificati di Compensazione Fiscale).

Il progetto CCF ha dato origine a una proposta di legge, sottoscritta da una novantina di parlamentari M5S e attualmente all’esame del Senato.

I CCF sono titoli che danno diritto, a partire da due anni dopo la loro assegnazione, a ridurre pagamenti verso l’erario di importo pari al valore facciale dei CCF stessi. Sono in pratica dei “BTP fiscali” a due anni, ma non rientrano nel debito pubblico in quanto non sono da rimborsare cash in euro.

Incorporando un beneficio certo a termine (lo sconto fiscale), i CCF hanno valore fin dal momento della loro emissione (nonostante l’utilizzo per ridurre i pagamenti verso l’erario sia differito).

Possono essere emessi dallo Stato e assegnati gratuitamente, per attuare una serie amplissima di azioni: integrazione di redditi, riduzione del carico fiscale alle imprese, spesa sociale, investimenti pubblici. E naturalmente anche per finanziare le azioni di contrasto alla crisi sanitaria prodotta dal Coronavirus.

Una forte emissione di CCF consente di rivitalizzare la domanda, la produzione e l’occupazione. La ripresa del PIL gradualmente produrrà anche la crescita del gettito fiscale lordo, il che compenserà l’utilizzo dei CCF nel momento in cui questi giungeranno a scadenza e verranno usati per ridurre pagamenti verso l’erario.

L’emissione di CCF può essere espansa a una condizione: le quantità che annualmente diventano utilizzabili non devono superare una modesta frazione degli incassi lordi della pubblica amministrazione. Diversamente, l’uso di CCF per ridurre pagamenti verso la P.A. diverrebbe “vischioso” e ridurrebbe il loro valore rispetto a quello dell’euro.

Il problema, in ogni caso, non si pone, in quanto il progetto CCF prevede emissioni massime annue intorno a 100 miliardi: una quantità modesta rispetto agli incassi lordi annui del settore pubblico (oltre 800). Più che sufficiente, nello stesso tempo, a produrre una forte ripresa dell’economia.

L’introduzione dei CCF andrà effettuata comunicando al mercato che, grazie alla disponibilità di questo nuovo strumento, il debito pubblico (quello da rimborsare in euro) diminuirà costantemente, anno dopo anno, in rapporto al PIL.

In questo modo i mercati finanziari vedrebbero invertirsi la tendenza alla crescita del rapporto debito pubblico / PIL, che oggi li preoccupa perché implica un rischio di default (essendo debito non garantito dalla potestà di emissione dello Stato o della sua banca centrale).

Per attuare il progetto CCF non occorre aprire alcun tavolo negoziale con la UE, né chiedere nulla a nessuno. I CCF possono essere introdotti per iniziativa autonoma del parlamento e del governo italiano.

Uno strumento di Moneta Fiscale con queste valenze e con queste direttrici di applicazione consente una “potenza di fuoco” adeguata non solo a contrastare gli effetti economici del Coronavirus, ma anche, una volta per tutte, a risolvere le disfunzioni dell’Eurozona e a far ripartire l’economia italiana.


sabato 7 marzo 2020

CCF - Convegno 2 dicembre 2019 - il video


Evento svoltosi presso la Camera dei Deputati, il 2 dicembre 2019.

mercoledì 4 marzo 2020

Munchau e il fallimento del progetto europeo


Cito spesso il sito gestito da Wolfgang Munchau (eurointelligence.com) perché ritengo il suo ideatore un “europeista disincantato” oltre che intelligente e ben informato. Munchau vorrebbe vedere il progetto d’integrazione aver successo, ma è da tempo (da parecchi anni, in effetti) sempre più scettico.

L’altro ieri, un articolo del sito (non tutti gli articoli, va precisato, sono scritti da Munchau stesso) è stato particolarmente esplicito sull’argomento:

“Per quanto ci riguarda, il test sarà il processo che condurrà alla prossima modifica dei trattati, a partire dalla conferenza sul futuro dell’Europa, quest’anno. Se non produrrà significativi cambiamenti, anche noi pro-UE dovremo concludere che la seconda fase del processo d’integrazione, quella che è partita con il trattato di Maastricht, è fallita. Questa conclusione, se ampiamente condivisa, avrà profonde implicazioni per il futuro della stessa UE”.

Personalmente, vado più in là e ritengo che il fallimento sia già oggi ampiamente conclamato. La UE ha miseramente fallito nel gestire tutte le emergenze e tutti i principali progetti di cui si è occupata.

L’eurozona rimane pesantemente disfunzionale, la crisi migratoria non è risolta e anzi sta entrando in una fase ancora più acuta con le tensioni al confine tra Turchia e Grecia, la Brexit ha avuto luogo e il Regno Unito appare molto serio in merito alla possibilità di interrompere i negoziati per un nuovo accordo commerciale.

L’emergenza Coronavirus è partita da poco quindi il giudizio è ancora prematuro: chiaramente, però, ogni paese può far conto solo sulle sue forze, e anche in merito alla gestione delle ricadute economiche UE e BCE danno chiari segni di volersi, come d’abitudine, contemplare l’ombelico, fino a quando non si vedranno degenerazioni (e danni) potenzialmente molto pesanti.

La cosa più logica e sensata sarebbe smantellare la UE e tornare alla cara vecchia CEE. Un’area di buon vicinato commerciale e di cooperazione economica: ma ognuno in casa propria.

Prima o poi “l’istinto delle combinazioni”, direbbe Vilfredo Pareto, prevarrà sulla “persistenza degli aggregati”. I tempi però sono imprevedibili.


domenica 1 marzo 2020

Con tutto il rispetto per Mariana Mazzuccato


La professoressa Mariana Mazzuccato entra a Palazzo Chigi in veste di consigliere economico del premier Giuseppe Conte, per lavorare “alle misure di contrasto degli effetti economici del coronavirus”.

La professoressa Mazzuccato è autrice di interessanti testi di critica all’austerità e di rivalutazione del ruolo degli investimenti pubblici per la crescita dell’economia.

E’ sicuramente una persona qualificata e personalmente condivido molte delle sue idee.

Purtroppo, temo (e mi dispiace) che il suo incarico si rivelerà uno specchietto per le allodole.

Nessuna delle sue proposte più rilevanti può essere messa in atto, dato l’attuale assetto dell’Eurosistema.

Assetto che non vedo alcuna volontà di modificare da parte degli altri membri dell’Eurozona, se non eventualmente su linee ancora più restrittive (vedi riforma MES).

Né percepisco alcuna apertura, o interesse, verso soluzioni compatibili con trattati e regolamenti, ma adottabili da singoli paesi, quali il progetto CCF. Perché la logica è che “gli interventi devono essere coordinati a livello UE”.

Il mio timore è che le sue proposte verranno accolte da commenti tipo “ottimo adesso ne parliamo in sede UE, nel frattempo continuiamo con entusiasmo ad accettare le loro imposizioni, e questo li convincerà ad accettarle (le proposte), magari non oggi, magari non domani, ma nei prossimi 246 anni…”.

Naturalmente spero di sbagliarmi, per molte intuibili ragioni: tra le quali, la qualità del lavoro di ricerca della professoressa, che merita senz'altro di meglio. 

Ma non ci scommetto un centesimo.