La domanda se la
pone Paul Krugman ed è purtroppo molto attuale.
E’ utile innanzi
tutto precisare che cos’è una recessione e che cos’è una depressione economica.
OK, c’è la
battuta attribuita a Ronald Reagan (ma penso l’avesse copiata da qualcun
altro): “recessione è quando il mio vicino di casa perde il lavoro, depressione
è quando lo perdo io”. Volendo però essere leggermente più tecnici…
Una recessione è
una fase di temporaneo declino dell’economia di un paese. Il declino può essere
misurato sulla base di vari parametri, e le due alternative più comuni sono il
PIL e l’occupazione.
Attualmente
l’andamento dell’economia è così sconfortante che basta un trimestre in cui il
PIL reale ha una variazione del più zero virgola qualcosa, o anche dello zero
spaccato, perché si senta dire che “la recessione è finita”.
Più propriamente,
però, si parla di espansione e di recessione con riferimento all’occupazione.
Quando il PIL reale cresce abbastanza rapidamente per ridurre la disoccupazione
si parla di espansione, altrimenti di recessione.
Per non essere
in recessione dal punto di vista dell’occupazione non basta quindi un più zero
virgola qualcosa. Occorre una crescita che assorba l’incremento della forza
lavoro tenuto conto anche della crescita demografica, dell’incremento del
capitale industriale e dei miglioramenti della produttività (dovuti soprattutto
alla tecnologia).
Fino agli anni Ottanta
questo richiedeva che il PIL reale si espandesse a tassi medi annui intorno al
2,5-3%, oggi probabilmente basta l’1,5%-2%. Il che significa che il più zero
virgola espande il PIL ma continua a produrre l’aumento della disoccupazione.
L’Italia nella migliore delle ipotesi oggi è in questa situazione, quindi la
recessione non è affatto finita (dal punto di vista dell’occupazione).
Ma ancora più
importante, e più grave, è che tutte le economie occidentali – nel loro
complesso – sono in depressione.
Depressione è
quando l’economia cade in una situazione permanente di forte sottoutilizzo
della sue capacità produttiva, quindi di disoccupazione alta e continua.
E’ la tipica
situazione che si verifica dopo lo scoppio di una grande bolla speculativa:
come avvenuto nel 1929 e nel 2008.
La crisi di
fiducia e l’eccesso di indebitamento (privato, non pubblico) è tale che anche
se le banche centrali portano i tassi sostanzialmente a zero, la domanda non
riparte. Occorre un intervento dello stato per produrre un recupero della
domanda sufficiente a risolvere la depressione.
Gli USA non
sono ancora usciti dalla depressione: il PIL ha ripreso a crescere e la
disoccupazione sta scendendo (quindi la recessione è finita) ma è ancora ben superiore
ai livelli pre-crisi, e la banca centrale è tuttora lontana dal momento in cui
potrà riportare i tassi d’interesse a livelli normali (anzi sta continuando ad
effettuare massicce azioni di quantitative easing, anche se ha da poco
annunciato che ne ridurrà, molto gradualmente, l’intensità).
Il Regno Unito è
grosso modo nella stessa situazione (un po’ peggio).
Sconforta
parlare dell’Eurozona: qui, “grazie” alle politiche di austerità avviate da
metà 2011 in poi, abbiamo recessione e depressione insieme.
Bene (si fa per
dire). Torniamo a quanto dice Krugman. Molto semplicemente, nota in questo recente articolo che i datori di lavoro, le grandi aziende statunitensi, non sembrano
animate da una gran fretta di mettere velocemente termine alla depressione.
Anzi: “potete facilmente radunare una folta schiera di prestigiosi CEO per
sottoscrivere un documento che chieda di “Sistemare il Debito Pubblico”; non
combinate nulla se il messaggio è “Sistemare l’Economia”” (vale a dire
l’occupazione).
Se tutto questo
vi sembra illogico, cambierete idea dando un’occhiata ai dati su costo del
lavoro e utili aziendali USA dal 2007 a oggi.
Quando la crisi
è esplosa, a fine 2008, gli utili sono calati molto più delle retribuzioni. E
più veloce è stato il recupero quando si è iniziato a risalire la china.
La remunerazione
del capitale è più volatile di quella del lavoro, e questo è comprensibile. Il
problema è un altro: oggi le retribuzioni USA sono più alte del 10% rispetto al
2007. Gli utili, del 60%.
In un’economia
ancora depressa, con disoccupazione tuttora decisamente elevata, le aziende
hanno beneficiato di una dinamica salariale molto contenuta. E il 60% di
crescita degli utili in sei anni non è, diciamo, una cosa che faccia sentire i
datori di lavoro particolarmente insoddisfatti.
Krugman nota che
anche con un’economia che non sta viaggiando alla sua normale velocità di
crociera, dal punto di vista delle aziende mantenere livelli di attività più
bassi del potenziale è compensato dalla maggiore forza contrattuale con i
dipendenti: quindi retribuzioni più basse. Completamente compensato ? difficile
da dire, ma di sicuro le aziende non soffrono di grandi problemi per lo stato
“moderatamente depresso” dell’economia.
Ma c’è
dell’altro, e ancora una volta i grandi del passato hanno parecchio da
insegnare. Basta leggere che cosa diceva nel 1942 Michal Kalecki, in un
articolo (la trascrizione di una conferenza, in effetti) tutto da leggere e
meditare, “Political Aspects of Full Employment”:
“Chiaramente,
una maggior produzione e occupazione beneficia non solo i lavoratori ma anche
gli imprenditori, in quando genera maggiori livelli di profitti”. Ma senza
nemmeno toccare il punto dei minori costi di lavoro che compensano gli effetti
sugli utili di un’attività (moderatamente) depressa, ci sono altri temi più
politici che economici, che spingono gli imprenditori a non provare un grande
entusiasmo per il pieno impiego. Kalecki li sintetizza così:
“L’attitudine
negativa verso l’interferenza governativa in quanto tale, riguardo al problema
dell’occupazione. L’attitudine negativa verso la direzione dell’intervento
governativo (investimenti pubblici e sovvenzioni al consumo). L’attitudine
negativa verso i cambiamenti politici e sociali derivanti dal mantenimento del pieno impiego”.
Pur notando che
“una solida maggioranza di economisti è oggi del parere che, anche in un
sistema capitalistico, il pieno impiego possa essere assicurato da un adeguato
programma di spesa governativa”, Kalecki era meno ottimista di Keynes. Che fosse
possibile, era chiaro a entrambi. Che, avendo compreso come ottenere il
pieno impiego, le classi dirigenti avrebbero agito in modo da mantenerlo
in modo permanente, era un’altra questione.
Da cinque anni
in qua, il mondo occidentale sta dando molte ragioni allo scetticismo di
Kalecki, ben poche all’ottimismo di Keynes.
Specialmente in
Europa.
Speriamo ancora
per poco.