Uno dei
principali argomenti di questo blog è descrivere un progetto di recupero della
sovranità monetaria da parte dell’Italia, basato però su un meccanismo
“morbido” e non su uno schema di break-up.
Quindi,
introduzione di una forma di moneta nazionale, i Certificati di Credito
Fiscale, immediatamente utilizzati per rilanciare la domanda e la capacità di
spesa, nonché per ridurre i costi di lavoro effettivi delle aziende (senza
penalizzare le retribuzioni, anzi aumentandole).
Si evita, per
questa via, la “spaccatura” dell’euro, che vorrebbe dire cambiare la moneta di
denominazione di debiti, crediti, contratti, retribuzioni, pensioni –
trasformandoli da euro a Nuove Lire (con connessa svalutazione).
I vantaggi dello
schema “morbido” rispetto al break-up sono descritti in parecchi articoli del
blog, per esempio qui in forma sintetica e qui in modo più esteso.
Un punto
apparentemente sfavorevole è invece il seguente. L’Italia è, nel suo complesso,
un paese debitore verso l’estero. Se i debiti vengono convertiti in Nuove Lire
e svalutati, per il paese c’è un vantaggio patrimoniale, che con il meccanismo
“morbido” al contrario non si ottiene.
Una prima
considerazione tuttavia è che nel progetto CCF, una parte significative delle
emissioni vanno a ridurre i costi effettivi delle aziende e producono un
recupero di competitività analogo a quello che sarebbe conseguito mediante la
svalutazione della Nuova Lira conseguente al break-up.
Riguardo al
debito estero, la cosa importante non è tanto il suo importo quanto la sua
sostenibilità. Se l’Italia svaluta e converte il debito in Nuove Lire, la
sostenibilità migliora.
Ma lo stesso
tipo di miglioramento viene ottenuto se tutto il debito rimane in euro, e anche
i costi delle aziende rimangono espressi in euro, MA vengono fortemente ridotti
grazie alle assegnazioni di CCF previste dalla “riforma morbida”.
Questa è già una
motivazione molto forte a favore del progetto CCF, rispetto alle ipotesi di break-up:
si ottengono benefici analoghi evitando la “deflagrazione” dell’eurozona.
Per approfondire
il tema, comunque, è utile analizzare i dati relativi alla posizione
patrimoniale sull’estero dell’Italia. La situazione al 30.6.2013 si può
sintetizzare come segue (fonte Banca d’Italia, dati in miliardi di euro).
DATI TOTALI
| | |
Attivo
|
Passivo
|
NETTO
|
% PIL 2013
|
Investimenti diretti e altri investimenti azionari
|
798
|
-415
|
383
| |
Finanziamenti, obbligazioni e altri crediti / debiti (incluse
posizioni in derivati)
|
1.075
|
-1.919
|
-844
| |
TOTALE ITALIA
|
|
|
1.873
|
-2.334
|
-461
|
-30%
|
Il saldo netto
delle posizioni patrimoniali attive e passive dell’Italia nei confronti
dell’estero era, al 30 giugno 2013, negativo per 461 miliardi di euro,
corrispondenti a circa il 30% del PIL.
Non si tratta di
un valore molto elevato: per intenderci, in rapporto al PIL siamo in una
situazione non molto differente dalla Francia o dagli Stati Uniti.
La posizione
patrimoniale, tuttavia, va analizzata più in dettaglio effettuando alcune
disaggregazioni.
Intanto i 461
miliardi sono un saldo netto tra la posizione relativa ad attività e passività
che hanno natura di crediti e debiti, e gli investimenti di natura azionaria
(compresi gli investimenti diretti, cioè le aziende italiane controllate da
stranieri e, dall’altro lato, quelle straniere possedute da italiani).
I residenti italiani
hanno debiti netti verso l’estero per 844 miliardi, parzialmente compensati da
un saldo netto degli investimenti di natura azionaria positivo per 383 (844
meno 383 uguale 461, appunto).
Gli 844 miliardi
di debiti netti a loro volta sono un saldo: i residenti italiani hanno debiti
esteri per 1.919 ma anche crediti verso l’estero per 1.075.
Idem per gli
investimenti azionari, dove invece c’è un saldo positivo. L’attivo è 798 (il
signor Rossi che possiede azioni Apple, ma anche la Ferrero che ha filiali
produttive in Germania o commerciali in Malesia), il passivo 415 (il fondo
pensioni californiano che ha azioni Generali, ma anche l’IBM che ha una
controllata italiana), per un netto come visto di 383.
Ora, se l’Italia
svalutasse che cosa ci aspettiamo che accada alla sua posizione patrimoniale
verso l’estero ? è in realtà estremamente aleatorio rispondere, perché
l’effetto totale dipende da molti fattori non completamente noti e/o
difficilmente prevedibili.
Debiti verso
l’estero (1.919): quali si convertirebbero in Nuove Lire e quindi rimarrebbero
nella loro valuta originaria ? In quest’ultima fattispecie rientrerebbero tutti
quelli denominati in monete diverse dall’euro (dollari, yen, sterline, franchi
svizzeri, valute asiatiche ecc.) Ma probabilmente anche i debiti in euro
governati da contratti di diritto internazionale e non di diritto italiano. Per
i debiti governati da contratti di diritto italiano è possibile dare
applicazione alla lex monetae e
trasformarli in Nuove Lire, per quelli governati dal diritto internazionale
presumibilmente no.
Crediti verso
l’estero (1.075): questi sono in euro o in altre valute, e in teoria se
l’Italia adotta la Nuova Lira aumentano il loro valore (dal punto di vista del
residente italiano che li detiene). In teoria: in quanto c’è da immaginare che
se l’Italia svaluta i suoi debiti, ci saranno azioni di ritorsione da parte dei
debitori stranieri (tu mi paghi Nuove Lire svalutate, e allora io ti rimborso,
a mia volta, in moneta svalutata).
Rimane un saldo
netto (844, come si diceva) di eccesso dei debiti rispetto ai crediti. Il
beneficio netto della svalutazione potrebbe forse essere stimato in base a
quello. Per esempio, una svalutazione del 20% corrisponde in questa ipotesi a
un vantaggio di 20% x 844 = 169 miliardi di euro.
Ma è una stima,
dicevo, molto aleatoria. Presuppone di convertire in Nuove Lire tutti i debiti
esteri: e in parte, per quelli di diritto internazionale, presumibilmente questo
sarebbe impossibile. E sicuramente non si convertirebbero quelli in valute
diverse dall’euro.
La situazione
potrebbe migliorare se i titolari italiani di crediti verso l’estero (i 1.075
di cui sopra) riuscissero a evitare di vederseli convertire in Nuove Lire. Ma
qui si tratta di formulare previsioni sull’esito di contenziosi legali che
sicuramente nascerebbero e coinvolgerebbero pesantemente non solo i privati ma
anche e soprattutto i governi.
Teniamo anche
conto che i residenti italiani detengono attività estere di natura azionaria
(investimenti diretti e azioni) per, come si diceva, 798 miliardi, superiori ai
corrispondenti passivi (415): e se si arriva a situazioni di contenzioso, non è
affatto da escludere che possano esserci sequestri e azioni di rivalsa che
toccherebbero anche queste attività.
Vi sembra che la
situazione sia complicata ? bene, non ho ancora finito… fin qui si è ragionato
come se esistesse un “signor Italia” che detiene attivi e passivi verso
l’estero. Naturalmente non è così. C’è un settore pubblico italiano, che si
trova nella seguente situazione.
SETTORE PUBBLICO
| | |
Attivo
|
Passivo
|
NETTO
|
% PIL 2013
|
Investimenti diretti e altri investimenti azionari
|
80
|
-49
|
31
| |
Finanziamenti, obbligazioni e altri crediti / debiti
|
648
|
-1.642
|
-994
| |
TOTALE SETTORE PUBBLICO
|
|
728
|
-1.691
|
-963
|
-62%
|
Il settore
pubblico ha investimenti diretti e investimenti azionari di importi
relativamente trascurabili. I numeri importanti sono i debiti verso l’estero
(1.642) e i corrispondenti crediti (648), per un saldo totale negativo
dell’ordine di un migliaio di miliardi.
Poi c’è il
settore privato:
SETTORE PRIVATO
| | |
Attivo
|
Passivo
|
NETTO
|
% PIL 2013
|
Investimenti diretti e altri investimenti azionari
|
718
|
-366
|
352
| |
Finanziamenti, obbligazioni e altri crediti / debiti
|
427
|
-277
|
150
| |
TOTALE SETTORE PRIVATO
|
|
1.145
|
-643
|
502
|
32%
|
Al settore
privato fa capo il grosso degli investimenti diretti e degli investimenti
azionari (sia attivi che passivi) e questo non sorprende. Ma anche una parte
non trascurabile dei crediti e dei debiti, con un saldo netto positivo (150
miliardi, risultato di 427 di attivo e 277 di passivo).
Peraltro, i
privati non sono un soggetto unico, e quindi andrebbero capite le posizioni dei
singoli, dove si avranno dei danni per alcuni e dei benefici per altri.
Tutto si può
gestire, possono essere previsti dei meccanismi di compensazione eccetera.
Tuttavia mi preme sottolineare quanto già detto in altri articoli: la
situazione post un eventuale euro-breakup è alquanto diversa da quella che
segue alla rottura delle parità nell’ambito di un sistema di cambi fissi (lo
SME, per intenderci).
Nel 1992,
l’Italia abbandonò la parità di 750 lire contro marco, uscì dallo SME e
svalutò. Ma rimasero in essere, senza variazioni, tutti i contratti
precedentemente stipulati: che si detenessero crediti o debiti in lire, marchi,
dollari, yen o qualsiasi altra cosa, la valuta rimaneva quella. Non c’era alcun
presupposto per megacontenziosi legali, che infatti non si verificarono.
Inoltre, chi
aveva posizioni attive o passive in valuta sapeva che esisteva un rischio di
modifica delle parità: i cambi fissi durano finché durano, e i riallineamenti
sono sempre possibili (prima del 1992 in realtà se ne erano già avuti diversi,
anche se di minore entità). Il rischio di cambio poteva quindi essere stimato.
E se un’azienda o un investitore lo riteneva opportuno, poteva limitarlo o
azzerarlo con opportune operazioni di copertura (vendita di valuta a termine,
opzioni, finanziamenti in valuta ecc.): il che infatti è quanto avvenne nella
maggior parte dei casi.
Per tutti questi
motivi, la rottura dell’euro sarebbe sicuramente un evento dalle ripercussioni
più complicate della rottura dello SME. Se “un po’” più complicate o enormemente
più complicate, è una valutazione estremamente aleatoria.
In conclusione
formulo una serie di domande ai sostenitori dell’”exit mediante break-up”:
Primo, è stata
elaborata un’analisi di dettaglio delle implicazioni giuridiche e quantitative
di tutti i fenomeni che ho sommariamente ricapitolato ? non mi risulta, ma sarò
grato a chi mi fornirà indicazioni.
Secondo, non ritenete
indispensabile definire un piano di dettaglio per attuare una procedura di
break-up minimizzando gli effetti di quanto sopra ?
Terzo, vi è chiaro
che il vantaggio patrimoniale per l’Italia di una svalutazione del suo passivo
netto è estremamente aleatorio da stimare, ma peraltro non è neanche di un
ordine di grandezza tale da fare una differenza significativa ?
(Chiarisco:
sopra ho formulato l’ipotesi di un beneficio di 169 miliardi. Ora, premesso che
l’imprecisione della valutazione, come spiegavo, è altissima, l’Italia attuando
la “riforma morbida” si riappropria della sovranità monetaria, della
possibilità di sviluppare politiche di pieno impiego e beneficia di un recupero
di PIL stimabile nell’ordine di 300 miliardi nel giro di pochi anni. In queste
condizioni non ha nessun problema di solvibilità sul suo debito estero: un
beneficio una tantum di 100 o 200 miliardi, o quello che sia, non è determinante).
Quarto: ma in realtà non
è nemmeno vero che ci sia un beneficio più elevato, nell’ipotesi di break-up, rispetto
alla “riforma morbida”. Nel caso di break-up, miglioro la mia solvibilità
perché svaluto. Nel caso di “riforma morbida”, la miglioro perché riduco fortemente
il carico fiscale effettivo sul lavoro (e quindi abbasso il CLUP). Gli effetti
(in termini di recupero del PIL e di sostenibilità del debito) sono analoghi. Mi
sbaglio ?
Mi sembra molto
importante che si avvii, con i sostenitori del break-up, un dibattito su questi
temi.