Nel dibattito
relativo alla necessità (per l’Italia) di recuperare la sovranità monetaria, un’obiezione
molto comune è che la lira è “sempre” stata, storicamente, una valuta debole.
Una nuova moneta
italiana ricadrebbe quindi (si afferma) nel comportamento “poco virtuoso” degli
anni pre-euro. Tenderebbe ad essere caratterizzata da inflazione elevata
(rispetto ai principali partner commerciali), perdita di competitività, circolo
vizioso inflazione-svalutazione, eccetera.
Vale la pena
(come sempre) di esaminare i dati.
Dal sito www.inflation.eu, qui di seguito le
variazioni medie annue dell’indice dei prezzi al consumo per le principali
economie occidentali, su un lungo arco temporale – dal 1956 al 2013.
Indice
dei prezzi al consumo - media 1956-2013
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Ita
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UK
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Fra
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USA
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Ger
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Spa
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Sve
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Svi
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5,9%
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5,2%
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4,6%
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3,8%
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2,7%
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7,2%
|
4,6%
|
2,6%
|
Si nota
un’inflazione media elevata, nei due paesi del Sud latino, rispetto agli altri.
Ma il trend dei prezzi italiani è stato decisamente più contenuto rispetto a
quello spagnolo, e molto più vicino (per esempio) al livello del Regno Unito.
Ancora più
interessante, tuttavia, è notare che le differenze si sono prodotte in larga
misura durante il periodo degli shock petroliferi (Guerra del Kippur 1973,
crisi degli ostaggi iraniani 1979) e nel periodo susseguente, durante il quale
l’inflazione è stata decisamente più alta, rispetto agli anni sia precedenti che
successivi, in tutti i paesi.
Indice
dei prezzi al consumo - media 1973-1984
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Ita
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UK
|
Fra
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USA
|
Ger
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Spa
|
Sve
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Svi
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15,7%
|
12,5%
|
10,6%
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7,9%
|
4,8%
|
15,8%
|
9,7%
|
4,5%
|
I dodici anni
compresi tra il 1973 e il 1984 hanno visto una fortissima crescita delle
materie prime energetiche (petrolio in primis) che ha colpito le economie in
maniera decisamente più sensibile rispetto a quanto avverrebbe oggi. La
componente manifatturiera incideva infatti, ai tempi, in misura ben superiore
rispetto alla situazione odierna (in cui pesa molto di più il terziario).
Il PIL
potenziale, equivalente all’offerta aggregata massima di un sistema economico, nel
momento in cui un input produttivo così importante sale repentinamente di costo,
cala in maniera sensibile. C’erano, negli anni Settanta, due possibilità: la
prima era lasciare che la domanda scendesse in termini sia monetari che reali.
Questo avrebbe lasciato in equilibrio domanda e offerta ed evitato forti
fenomeni di crescita dei prezzi. Ma avrebbe prodotto un calo del PIL tanto
nominale quanto reale, ridotto i redditi sia dei lavoratori che delle imprese,
alimentato ampi fenomeni di insolvenze, mandato in blocco il sistema
creditizio.
L’alternativa
era accettare l’inflazione: non far scendere la domanda in termini monetari e
compensare il calo dell’offerta aggregata reale con una crescita dei prezzi. E’
stata percorsa questa seconda strada, il che ha evitato la depressione
generalizzata delle economie occidentali.
Il prezzo pagato
sono stati vari anni di inflazione elevata, tassi d’interesse alti e variabili,
andamenti erratici delle economie. Ma la crescita non si è interrotta e non si
è creata disoccupazione di massa.
Nei primi anni
Ottanta l’inflazione è stata, alla fine, domata tramite l’effetto combinato di
una forte recessione (indotta dall’aumento dei tassi d’interesse reali) e del
calo dei prezzi del petrolio.
L’alta
inflazione dei periodo 1973-1984 ha colpito un po’ tutti, ma il ventaglio tra i
vari paesi si è, in quegli anni, parecchio allargato – rimanendo immutata la tendenza dei
“teutonici” a controllare il fenomeno con maggiore disciplina, e dei latini a
essere invece meno rigorosi.
Mi pare
appropriato notare, comunque, che un fenomeno di shock dal lato dei costi è
molto meno plausibile oggi che in passato, appunto perché le economie sono in
proporzione meno manifatturiere e più orientate ai servizi: quindi anche una
quadruplicazione del prezzo del petrolio (che già di per sé appare molto meno
probabile) come quella sperimentata tra il 1973 e il 1980 avrebbe impatti
nettamente inferiori.
Quanto l’Italia
tenda (o meno) strutturalmente a una maggiore inflazione rispetto agli altri
principali paesi occidentali può essere, a mio parere, meglio stimato
esaminando i dati dell’arco temporale 1956-2013, escluso però il periodo degli
shock petroliferi (e anni immediatamente successivi).
Indice
prezzi al consumo: media escluso periodo 1973-1984
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Ita
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UK
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Fra
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USA
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Ger
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Spa
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Sve
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Svi
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3,5%
|
3,4%
|
3,0%
|
2,8%
|
2,2%
|
5,0%
|
3,3%
|
2,1%
|
E’ confermato
che tedeschi e svizzeri sono meno “inflattivi” di tutti gli altri. Ma il dato
italiano si scosta, in realtà, di pochi decimi di punto rispetto a Regno Unito,
Francia, Svezia, e poco di più rispetto agli USA.
Si potrebbe
pensare che su questo incida molto la convergenza avvenuta nell’”era euro”, ma
i dati non supportano questa convinzione. I tassi di cambio si sono assestati
nel 1997 ai livelli che sono poi diventati definitivi con l’introduzione
dell’euro (nel 1999). Le medie dal 1997 al 2013 indicano quanto segue.
Indice
dei prezzi al consumo - media 1997-2013
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Ita
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UK
|
Fra
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USA
|
Ger
|
Spa
|
Sve
|
Svi
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2,2%
|
2,1%
|
1,5%
|
2,4%
|
1,5%
|
2,7%
|
1,2%
|
0,6%
|
E’ curioso che
la riduzione dell’inflazione media sia avvenuta nei paesi che non sono entrati
nell’euro (Regno Unito, Svezia, Svizzera, oltre ovviamente agli USA) grosso
modo quanto negli altri.
Le medie storiche
che escludono sia gli anni degli shock petroliferi che l’”era euro” sono le
seguenti.
Indice
dei prezzi al consumo - media 1956-1996 escluso 1973-1984
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Ita
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UK
|
Fra
|
USA
|
Ger
|
Spa
|
Sve
|
Svi
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4,4%
|
4,2%
|
4,0%
|
3,0%
|
2,6%
|
6,4%
|
4,6%
|
2,9%
|
Quanto è
“inflazionistica” l’Italia con la sua moneta, e in anni non caratterizzati da
un grosso shock (con ogni probabilità non destinato a ripetersi, non almeno in
proporzioni anche solo lontanamente comparabili agli anni Settanta) dal lato
delle materie prime ?
Più dei
teutonici e degli USA, ma decisamente meno della Spagna. E praticamente alla
pari con Regno Unito, Francia e Svezia.