Uno dei
presupposti della Riforma Morbida è l’esistenza di un moltiplicatore fiscale
superiore a 1. In altri termini, i CCF emessi rappresentano un’azione di
stimolo della domanda. Se questa si traduce in un’espansione più che
proporzionale del PIL, al momento in cui i CCF saranno utilizzati per saldare
obbligazioni finanziarie nei confronti dello stato emittente (due anni dopo le
assegnazioni, nella proposta attuale) le maggiori entrate fiscali prodotte
dalla ripresa compenseranno l’utilizzo dei CCF ed eviteranno che deficit e
debito pubblico si incrementino rispetto al PIL. Diversamente, si
verificherebbe un peggioramento dei parametri di finanza pubblica.
Sull’argomento,
è stato ampiamente citato, dal momento della sua pubblicazione (gennaio 2013)
in poi, l’articolo di Olivier Blanchard e Daniel Leigh, entrambi del Fondo
Monetario Internazionale (Blanchard ne è il capo economista), dal titolo
“Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers”.
Significativi
sono i seguenti passaggi, tratti dall’introduzione dell’articolo.
“All’inizio del
2010… vari piani pluriennali di consolidamento fiscale, di ampie dimensioni,
sono stati intrapresi, particolarmente in Europa… A causa dell’impossibilità di
portare sotto zero i tassi d’interesse nominali (… situazione altrimenti nota
come “trappola della liquidità”…) è risultata impossibile un’azione delle
banche centrali per compensare gli effetti negativi di breve termine del
consolidamento fiscale sull’attività economica. In secondo luogo, la riduzione
della produzione e del reddito, abbinata a un sistema finanziario scarsamente
funzionante, implica che il consumo possa dipendere più dal reddito corrente
che da quello futuro, e che gli investimenti possano dipendere più dagli utili
attuali che da quelli futuri, condizioni che entrambi portano i moltiplicatori
ad assumere dimensioni elevate (Eggertsson e Krugman, 2012). In terzo luogo…
vari studi empirici hanno riscontrato che i moltiplicatori fiscali sono probabilmente
maggiori quando nell’economia esiste un alto livello di capacità inutilizzata.
Sulla base di dati statunitensi, Auerbach e Gorodnichenko (2012b) hanno
constatato che i moltiplicatori fiscali associati alla spesa pubblica possono
fluttuare tra valori prossimi a zero in tempi normali fino a circa 2,5 in
periodi di recessione”.
Quanto sopra
mette in luce varie delle ragioni per le quali l’azione di consolidamento
fiscale attuata, soprattutto da metà 2011 in poi, nell’Eurozona, è risultata
controproducente, non solo per quanto attiene a PIL e occupazione ma anche
rispetto agli obiettivi di finanza pubblica che ci si proponeva di conseguire. Ma
fa anche capire che esistono, oggi, condizioni che appaiono altamente
appropriate affinché l’azione espansiva contemplata nel progetto CCF possa
generare moltiplicatori superiori a 1: l’ipotesi di 1,3 su cui ci si è basati
per formulare le previsioni macroeconomiche sottostanti alla proposta appare,
in effetti, prudenziale.
Alcune
condizioni essenziali (previste, peraltro, nel progetto CCF) per confermare tutto ciò sono
le seguenti:
PRIMO, l’azione
espansiva – in termini di riduzione del carico fiscale per cittadini e aziende
e, in misura minore, di ampliamento di spesa sociale e di investimenti pubblici
– deve essere presentata come permanente, in modo da creare il clima di fiducia
che spingerà gli operatori economici a spendere (e non a risparmiare) la parte
preponderante del maggior reddito ottenuto per mezzo dei CCF assegnati,
avviando quindi una catena di effetti positivi (domanda che espande la
produzione, quindi l’occupazione, quindi, ulteriormente, i redditi, eccetera).
SECONDO, una
parte dell’azione espansiva deve andare alle aziende per ridurre i loro costi
di produzione, in particolare i costi di lavoro lordi (a parità di retribuzione
netta). Questo evita che il recupero della domanda porti a uno squilibrio nei
saldi commerciali esteri e limiti l’espansione di produzione e occupazione
domestica.
Un fattore
fondamentale che giustifica la valenza dell’azione espansiva prevista nel
progetto CCF è proprio l’attuale esistenza, in Italia (e in tutti i paesi
dell’Eurozona mediterranea) di un livello molto alto di disoccupazione e di
sottoutilizzo della capacità produttiva delle aziende, come risultato della
crisi iniziata nel 2008 con il fallimento Lehman Brothers e aggravatasi (soprattutto
da metà 2011) in poi con l’accelerazione delle politiche di austerità fiscale.
In questa
situazione, esiste un alto livello di domanda insoddisfatta, da un lato, e di
offerta in grado di soddisfarla, dall’altro. Il fattore necessario e
sufficiente a far ripartire produzione e occupazione, senza effetti negativi
sull’inflazione, è la disponibilità per cittadini e aziende, in dimensioni
significative e su base permanente, di maggior potere d’acquisto.
Olivier Blanchard - Daniel Leigh
“Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers”
IMF, Gennaio 2013
Alan Auerbach – Yuriy Gorodnichenko
“Measuring the Output Responses to Fiscal Policies”
American Economic Journal, 2012
Gauti Eggertsson – Paul Krugman
“Debt, Deleveraging and the Liquidity Trap”
Quarterly Journal of Economica, 2012
1) la crisi non parte da lehman. la miccia parte con lo shadow banking europeo legato ai debiti sovrani europei e agli mbs americani. a scappare per primi in finanza sono sempre gli europei lo sanno tutti nell'ambiente.
RispondiElimina2) come renderete "permanenti" le riforme che volete fare tramite roma (incapace a far funzionare anche i semafori) o tramite cessione di sovranità ad una entità più seria e rigorosa?
è ora di scrivere un altro libro cattaneo...
Le riforme che servono - politiche espansive con finanziamento monetario - sono esattamente quelle che la UE blocca. La sovranità bisogna riprendersela, altro che cederla. L'Italia marcia benissimo quando si gestisce da sola. Purtroppo ogni tanto qualcuno apre le parte allo straniero... ma l'insensatezza del dogmatismo ottuso e fanatico di Bruxelles e di Berlino diventa sempre più evidente, ogni giorno che passa.
Eliminasbagliate diagnosi. non è la UE che blocca le politiche espansive ma la germania. o meglio le elite dei singoli paesi, cioè l'1% di tutti i paesi (italia compresa), che vedono nella germania l'unico baluardo capace di impedire la svalutazione dell'euro cioè delle ricchezze di quell'1%. se ci fossero gli stati uniti d'europa l'euro sarebbe già stato svalutato come fanno america, giappone e altri e il debito sarebbe comune e solvibile e i prodotti europei vantaggiosi in tutto il mondo.
EliminaElites che utilizzano la UE come strumento: questo e' vero.
Eliminagli stati uniti d'europa non ci sono e mai ci saranno,quindi attualmente anche la svalutazione dell'euro non sanerebbe il problema di un'area valutaria non ottimale,e non solo valutaria....ad esempio,vedi integrazione fiscale e non convergenza dei tassi di inflazione,infatti in un'area a cambi fissi i cambi sono fissi solo nominalmente; se vi sono differenze nei tassi di inflazione, cambiano comunque i tassi di cambio reali.
RispondiEliminaInsomma questa europa sarà sempre una traballante baracca,meno che per il famoso 1%...
Non commento il punto 1,perchè il 99% è fantasia....come è noto i miliardi di paccotti delle cartolarizzazioni spacciati alle banche europee non era carta straccia....e chi era,nel caso, chi faceva lo shadow banking,specie sulla piazza di Londra?...