Obiettivi del
progetto “Moneta Fiscale”
Il progetto “Moneta
Fiscale” si propone di risolvere le disfunzionalità dell’attuale sistema
monetario europeo, creando le condizioni per una forte ripresa dell’economia
dell’Eurozona, e salvaguardandone nello stesso tempo la stabilità monetaria e finanziaria.
I Certificati di
Credito Fiscale (CCF)
Nel caso
dell’Italia, il progetto “Moneta Fiscale” prevede, in primo luogo, di emettere
fino a un massimo di 200 miliardi annui di titoli di Stato – i Certificati di
Credito Fiscale, o CCF – aventi natura monetaria e non di debito.
Per “natura
monetaria” s’intende che lo Stato italiano non si impegnerà a rimborsare questi
titoli, bensì ad accettarli, a partire da due anni dopo la loro emissione, a
fronte del pagamento di tasse, imposte, contributi previdenziali e sanitari,
multe eccetera: qualsiasi obbligazione finanziaria nei confronti della pubblica
amministrazione italiana (enti locali inclusi) potrà essere estinta utilizzando
indifferentemente CCF o euro.
L’accettazione
dei CCF da parte della pubblica amministrazione li rende, di conseguenza, una
forma di moneta nazionale: possono essere definiti moneta italiana ad utilizzo
differito.
Il differimento
di utilizzo (i due anni di cui sopra) è giustificato dal fatto che, nel momento
in cui vengono impiegati, i CCF a parità di condizioni riducono gli euro
incassati dallo Stato italiano. Il differimento dà all’economia italiana il
tempo di ottenere un significativo recupero di PIL, e quindi anche di entrate
fiscali, compensando così l’effetto dell’utilizzo dei CCF quando giungeranno a
maturazione.
Il progetto prevede
tre destinazioni principali per le assegnazioni di CCF: le aziende private, i
lavoratori e un insieme di altre forme di spesa. Su 200 miliardi totali massimi
assegnati ogni anno, all’incirca 80 andrebbero alle aziende private, 70 ai
lavoratori e 50 ad altre forme di spesa.
Le aziende
private riceveranno CCF in misura dipendente dai costi di lavoro da esse
sostenuti. E’ previsto un meccanismo a scaglioni, che determinerà un’incidenza
percentuale più elevata sui costi pagati a lavoratori con redditi più bassi.
Per ogni 100 euro pagati in retribuzioni, imposte e contributi, l’azienda
riceverà fino a un massimo di 20 euro in CCF. Per i redditi più alti, la
percentuale scenderà considerevolmente. Potranno inoltre essere previsti
meccanismi incentivanti per le aziende che incrementano l’occupazione.
Riguardo ai
lavoratori (sia dipendenti che autonomi), il meccanismo proposto è analogo,
sempre a scaglioni: il lavoratore percepirà, in aggiunta a una retribuzione
netta di 100 euro, fino a un massimo 20 euro in CCF – con percentuale in
discesa per i redditi alti.
Aziende e
lavoratori riceveranno quindi gratuitamente un considerevole importo di
CCF, in pratica di moneta utilizzabile (nei confronti della pubblica
amministrazione) due anni dopo l’assegnazione originaria. Chi non avrà esigenze
finanziarie immediate, potrà mantenerli in portafoglio come forma di risparmio.
Altrimenti potranno essere monetizzati in anticipo.
La
monetizzazione sarà possibile in quanto si svilupperà un attivo mercato
finanziario. I CCF sono, a tutti gli effetti, una categoria di titoli di Stato.
Ci saranno a regime massimi 400 miliardi di CCF in circolazione (due anni di
emissioni, dopo i quali le nuove assegnazioni sostituiranno quelle in
scadenza).
La
monetizzazione anticipata comporterà uno sconto finanziario, in quanto 100 euro
di CCF equivalgono a una banconota da 100 euro che il possessore non può utilizzare
se non tra due anni. Ma il valore finale è certo, addirittura più di quello di
un titolo destinato a essere rimborsato in euro. Lo Stato potrebbe, infatti, andare
in default sui suoi impegni di pagamento di euro, mentre il CCF avrà sempre e
comunque un valore. Lo sconto finanziario sarà determinato dal mercato, ma
approssimativamente si può stimare che non sarà molto diverso da quello di un tasso
CTZ a due anni.
Il compratore finale
dei CCF scambiati sul mercato sarà un soggetto che avrà esigenze di pagamento
nei confronti dello Stato italiano (per tasse o altro) e li utilizzerà quindi
alla scadenza.
Gli ulteriori
massimi 50 miliardi annui (le “altre forme di spesa” sopra citate) potranno essere
utilizzati per varie operazioni di sostegno della domanda: integrazione di
reddito alle categorie disagiate (inclusi cassaintegrati, pensionati a basso
livello di reddito e disoccupati), investimenti pubblici, spesa sociale,
interventi di ricostruzione in aree colpite da calamità naturali eccetera.
Obiettivi di
rilancio dell’economia
Viene proposta
un’emissione annua massima di 200 miliardi in quanto, a causa del calo di PIL
prodotto nel 2008 dalla crisi finanziaria mondiale, e ulteriormente
(soprattutto dal 2012 in poi) dall’eurocrisi, il PIL italiano è fortemente
inferiore al suo potenziale. Se dal 2007 in poi si fosse avuta una crescita
reale media dell’1% - tasso considerato modesto, in condizioni normali – il PIL
2014 sarebbe stato più alto di circa 300 miliardi. Questo è l’output gap da
colmare. Una crescita media del 5% all’anno per tre anni è fattibile con la
riforma proposta, e colma la maggior parte di questo deficit di PIL.
Le assegnazioni
annue massime previste sono 200, non 300 miliardi, perché un’immissione di
domanda nell’economia avvia una catena di eventi – il percettore di maggior
reddito a sua volta in parte lo spende, aumentando il reddito di altre aziende
e/o individui, eccetera. L’effetto è quindi più che proporzionale.
Impatto sui
saldi commerciali esteri
La composizione
esatta dell’intervento (200 miliardi annui massimi, nell’ipotesi sopra
descritta, suddivisi, come detto, tra 80 alle aziende private, 70 ai
lavoratori, e 50 in altri impieghi) sarà il frutto di decisioni politiche. E’
però fondamentale l’ordine di grandezza destinato alle aziende, in quanto occorre
riallineare il costo del lavoro per unità di prodotto italiano a quello dei
membri più efficienti dell’Eurozona, in particolare della Germania. L’importo
di 80 miliardi corrisponde al 18% circa dei costi di lavoro delle aziende
private italiane.
Una riduzione
dei costi di lavoro lordi effettivi di questo ordine di grandezza riporta la
competitività italiana a livelli tedeschi, in modo analogo (anche se con un
altro meccanismo) a quanto farebbe la “spaccatura” dell’euro e il conseguente
riallineamento valutario. Viene quindi meno una fonte di squilibri: se non venisse
migliorata la competitività italiana, buona parte del sostegno della domanda
prodotto dai CCF andrebbe ad alimentare la domanda di prodotti esteri,
peggiorando la bilancia commerciale.
L’attribuzione
di CCF alle aziende italiane in funzione dei costi di lavoro da esse sostenuti
le rende, al contrario, immediatamente più competitive, con benefici in termini
di maggiori esportazioni e di guadagno di mercato interno nei confronti delle
importazioni.
Va precisato che
tutto ciò non comporterà danni significativi per la Germania e per gli altri
stati membri dell’Eurozona. Contemporaneamente al recupero di competitività, l’Italia
avvierà anche una forte ripresa economica, il che aumenterà (ceteris paribus) le sue importazioni,
comprese quelle provenienti da partner europei. Oggi i saldi commerciali
italiani sono positivi (partite correnti attive per l’1,5%-2% circa nel 2014),
ma solo grazie a una domanda interna molto depressa, che limita le importazioni.
Con la ripresa dell’economia, i due effetti si compenseranno – più import per
la maggior domanda, maggior export netto per la maggior competitività. La
bilancia commerciale italiana resterà in equilibrio, ma a livelli decisamente
più alti sia di import che di export.
Effetti sull’inflazione
A questo
riguardo, una prima considerazione è che l’assegnazione di CCF produce un forte
recupero della domanda e del PIL, ma questo non è (se non limitatamente)
inflazionistico perché in Italia esiste attualmente un altissimo livello di
disoccupazione e di capacità produttiva inutilizzata. Solo se l’ammontare
emesso superasse i livelli che consentono il riassorbimento della capacità oggi
inattiva si produrrebbe un forte e permanente eccesso d’inflazione. Va anche
ricordato che attribuendo CCF alle aziende in funzione dei loro costi di lavoro
se ne riducono i costi produttivi totali, e questo ha un effetto mitigante
sull’inflazione.
Un qualche
incremento dell’inflazione, peraltro, è esattamente quello che serve per
riportarla dall’attuale livello zero (con rischio di cadere in deflazione)
verso l’obiettivo BCE del 2%. Il progetto può essere tarato, riguardo in
particolare alla distribuzione temporale delle assegnazioni di CCF (vedi il
punto successivo) in modo da puntare al raggiungimento dell’obiettivo BCE.
Potrebbero essere tollerabili incrementi transitori dell’inflazione, fino al
3-4%, in una fase iniziale e per non più di un anno, dovuti a possibili
sfasamenti temporali tra incremento della domanda e riattivazione della
capacità produttiva oggi inutilizzata.
Tempistica delle
assegnazioni di CCF
Le erogazioni di
CCF sono previste, come detto, in 200 miliardi annui massimi. E’ ragionevole scaglionare
l’intervento nel tempo, perché la maggior domanda dovuta ai CCF stimolerà le
aziende a produrre di più, ma rimettere in moto la capacità produttiva oggi
inutilizzata richiede tempo. L’ipotesi attuale è di erogare 90 miliardi il
primo anno, salire a 150 il secondo e raggiungere 200 miliardi al terzo. I
livelli effettivi e la distribuzione temporale saranno tarati in funzione della
risposta dell’economia, puntando a un rapido recupero dell’occupazione senza
che l’inflazione risalga troppo rapidamente.
Anche la quota
destinata alle aziende (ipotizzata, come si diceva, in 80 miliardi su un
massimo di 200) potrà anch’essa essere modificata nel tempo, sempre con
l’obiettivo di mantenere in pareggio i saldi commerciali esteri: né surplus né
deficit, se non per importi modesti.
I “BTP fiscali”
Il progetto
“Moneta Fiscale” prevede anche l’introduzione dei cosiddetti “BTP fiscali”. Sono
titoli di Stato con scadenze varie – anche pluriennali – che (analogamente ai
CCF) non pagano interessi e capitale in euro. Interessi e capitali sono invece
corrisposti, appunto, in “Moneta Fiscale”, utilizzabile per onorare impegni
finanziari verso la pubblica amministrazione: esattamente come i CCF.
L’introduzione
dei BTP fiscali potrà avvenire, in primo luogo, al momento in cui cominceranno
le assegnazioni dei CCF. Potrà essere data la possibilità, a tutti i possessori
di titoli di Stato “tradizionali” (BOT, CTZ, BTP, CCT eccetera) di convertirli
in BTP fiscali, con scadenze più lunghe e con un tasso d’interesse più alto.
Per esempio, un BTP con tre anni di vita residua e cedola del 2,5% potrebbe
essere convertibile in un BTP fiscale con sei anni di vita residua e cedola del
4,5%. Questa opzione di conversione rimarrà esercitabile (da parte del
possessore) per tutta la vita residua del titolo.
Si limita il
rischio, in tal modo, che l’annuncio della riforma dia luogo a movimenti
speculativi sui mercati finanziari. Se il mercato dovesse reagire
negativamente, si potrebbe creare una pressione al ribasso nel valore nei
titoli di Stato in circolazione (quelli tradizionali) creando problemi, per
esempio, ai bilanci degli investitori istituzionali (banche, assicurazioni
eccetera) che li possiedono. Ma se un titolo di Stato è sempre convertibile in
BTP fiscali – quindi in un titolo che mantiene sempre, con certezza, un valore,
perché è utilizzabile per pagare tasse e altre obbligazioni finanziarie verso
la pubblica amministrazione, e non ha quindi rischio di default – la pressione
al ribasso sopra citata incontra una soglia.
Inoltre, tanti
più titoli “tradizionali” vengono convertiti in BTP fiscali, tanto più
diminuisce l’ammontare di titoli che possono dar luogo a default. Le nuove
emissioni di titoli di Stato, coerentemente con questo principio, dovranno
avvenire, nella maggior misura possibile, mediante BTP fiscali - e non
emettendo titoli “tradizionali” (da rimborsare in euro). Il debito in euro,
quello che deve essere rimborsato e che quindi può dar luogo a default, deve
essere ridotto il più rapidamente possibile, idealmente a zero.
E’ prevedibile
che ci sia interesse, sul mercato, per le emissioni di BTP fiscali, anche a
causa del fatto che verranno ridotte – se possibile addirittura azzerate – le
emissioni di titoli “tradizionali”, e che i loro abituali compratori
(specialmente gli investitori istituzionali italiani) dovranno reimpiegare la
loro liquidità. Uno strumento d’investimento senza rischio di default è
interessante per questi investitori, per motivi analoghi a quelli che rendono
appetibile un titolo di stato in moneta sovrana.
Il progetto
“Moneta Fiscale” alla luce dei trattati attualmente in essere
Nella forma
attuale, i trattati – il patto di stabilità e il Fiscal Compact, in particolare
- sono ineseguibili. D’altra parte sono stati concepiti su istanza dei paesi
dell’ex area marco, che temono di doversi far carico dei debiti di uno o più
paesi del sud. Il progetto “Moneta Fiscale” produce una forte ripresa economica
dei paesi che lo adottano e nello stesso tempo riduce, con l’obiettivo
realistico di azzerare, il debito che crea rischio di default.
La possibilità
che il progetto “Moneta Fiscale” venga attaccato in quanto non conforme ai
trattati non può essere esclusa. Tuttavia il progetto rende possibile il
conseguimento degli obiettivi economici che i trattati si prefiggono, in quanto
consente sviluppo economico, occupazione, stabilità monetaria e riduce
rapidamente, fino a eliminarli, i rischi di default sui debiti pubblici e i
conseguenti dissesti finanziari. Gli obiettivi dei trattati sono conseguiti dal
progetto “Moneta Fiscale”, mentre non lo sono da una serie di altre azioni –
l’OMT e le iniziative di sostegno intraprese dalla BCE, in particolare – che
peraltro, a loro volta, sono attualmente oggetto di azioni legali (sull’OMT,
anzi, esiste già una sentenza negativa della Corte Costituzionale tedesca, che
ha rinviato il caso alla Corte di Giustizia UE). Si può affermare che il
progetto “Moneta Fiscale” è, rispetto a queste iniziative, almeno altrettanto
conforme ai trattati, nonché enormemente più efficace per quanto attiene al raggiungimento
degli obiettivi che i trattati stessi si prefiggono.
Riguardo al Fiscal
Compact, in particolare, è importante sottolineare che questo trattato impone
un percorso accelerato di riduzione del rapporto debito pubblico / PIL. Per
l’Italia (e per vari altri paesi) si tratta di obiettivi totalmente
irrealistici. Tentare di conseguirli richiederebbe manovre fiscali pesantissime
che abbatterebbero il denominatore del rapporto, impedendone la riduzione.
Nell’ambito del
progetto “Moneta Fiscale”, il Fiscal Compact diventa invece eseguibile, purché
si chiarisca in maniera inequivocabile che i CCF e i BTP fiscali non sono compresi
nel debito, in quanto non creano rischio di default. In questo modo gli
obiettivi di riduzione del rapporto debito pubblico / PIL sono raggiungibili. A
questo punto gli interessi collimano: il debito pubblico italiano espresso in
euro, che la Germania teme di doversi sobbarcare a seguito di un default
italiano, scende rapidamente e viene sostituito da emissioni di moneta
nazionale italiana (non soggetta a default). E’ una situazione enormemente più
tranquilla sia per la Germania che per l’Italia.
Estensione ad
altri paesi
Tutti i paesi
dell’Eurozona che hanno oggi difficoltà, o comunque livelli di competitività
inferiori a quelli tedeschi, nonché alta disoccupazione, possono adottare il
progetto “Moneta Fiscale” (ed è anzi raccomandabile che lo facciano). Ciò nella
misura, caso per caso, opportuna per ripristinare competitività e piena
occupazione.
E’ la via per
rendere sostenibile il sistema monetario europeo, senza attuare una “transfer
union” e senza richiedere agli stati “nord-eurozonici” di compensare le
differenze di competitività, in particolare di costo di lavoro per unità di
prodotto, inflazionando significativamente prezzi e salari: entrambe, queste,
eventualità che la Germania non accetta. Inoltre, elimina definitivamente il
rischio di una deflagrazione dell’Eurozona. Tutto questo senza richiedere alcun
contributo finanziario alla Germania, e senza convertire depositi bancari,
titoli di Stato e altre attività finanziarie, stipendi, pensioni, e contratti
di qualsiasi tipo da euro in una nuova moneta (destinata a svalutarsi).
Attuabilità
operativa del progetto
Dal punto di
vista operativo, il progetto “Moneta Fiscale” è nettamente più semplice della
“spaccatura” dell’euro. E’ una riforma che può essere tranquillamente discussa
e analizzata alla luce del sole e non una “deflagrazione” da attuare di
sorpresa, in tempi rapidissimi, con rischi di panico bancario e sui mercati
finanziari. Non costringe la Germania a lavorare, d’improvviso, con una moneta
rivalutata. Non c’è svalutazione dei crediti stranieri verso soggetti residenti
italiani. Non ci sono effetti redistributivi su aziende e banche, né contenziosi
giuridici. Il cittadino italiano non si vede convertire i suoi risparmi, il suo
stipendio, la sua pensione, in una moneta diversa (di minor valore).
I CCF
diventeranno, dopo un certo periodo di tempo, una vera e propria moneta
circolante ?
Il progetto funziona anche a prescindere che i CCF
vengano utilizzati per transazioni correnti. Tuttavia è probabile che
l’utilizzo quotidiano prenda piede e si incrementi, ad esempio usandoli per
pagamenti elettronici via carta di credito, e come sottostante nella
definizione di contratti di lavoro, affitto, compravendita, eccetera. Dopo
qualche anno, è concepibile che il CCF diventi a tutti gli effetti la moneta circolante
principale, riservando all’euro impieghi limitati (ad esempio per particolari transazioni
finanziarie). E’ un’evoluzione possibile, anche se non indispensabile per il
successo della riforma.