Obiettivi di
stabilità dell’Eurosistema
I meccanismi di
funzionamento dell’Eurosistema sono basati su alcuni principi, che possono
essere riassunti come segue.
Gli stati membri
si impegnano a raggiungere il pareggio di bilancio “strutturale”: in condizioni
economiche normali, incassi e uscite devono essere in equilibrio (primo
principio del Fiscal Compact).
Inoltre, gli stati
il cui debito pubblico eccede il 60% del PIL, devono riportarlo al suddetto
livello del 60% nel giro di vent’anni (secondo principio del Fiscal Compact).
Inoltre, con il
programma OMT (Outright Monetary Transactions) la BCE garantisce, in buona
sostanza, i debiti pubblici dei vari stati, purché le azioni di politica economica
da essi adottati siano coerenti con il raggiungimento degli obiettivi del
Fiscal Compact.
Garantire i debiti
pubblici degli stati, se esiste una situazione strutturale di pareggio di
bilancio, equivale a dire che la BCE presta garanzia purché i debiti non si
incrementino in valore assoluto, e scendano relativamente al PIL (in condizioni
normali, infatti, le economie crescono, e quindi il rapporto debito / PIL cala
grazie alla crescita del denominatore).
Questi principi
sono stati introdotti nell’Eurosistema tra il 2011 e il 2012 con una finalità
ben precisa: evitare l’accrescimento delle passività finanziarie dei singoli
stati membri e, di conseguenza, i rischi di default e le connesse tensioni
finanziarie.
Nel momento in cui
l’economia di un paese soffre di alti livelli di disoccupazione e di
sottoutilizzo delle sue capacità produttive, tuttavia, diventa necessario effettuare
azioni espansive della domanda, immettendo potere d’acquisto nel sistema
economico.
La necessità di
attuare azioni di deficit spending
confligge con il vincolo di “non accrescimento” sopra descritto.
Utilizzo dei CCF
per espandere la domanda preservando la stabilità finanziaria del sistema
I CCF non
comportano rischio di default, perché sono titoli per i quali non esistono
vincoli di rimborso.
Se un determinato
ammontare di CCF viene emesso ed attribuito gratuitamente ad aziende e
cittadini, si verifica immediatamente un effetto espansivo sia sul PIL che sul
gettito fiscale.
I CCF
rappresentano infatti un diritto a uno sgravio fiscale futuro: valgono quindi
l’importo di questo sgravio (al netto di un fattore di attualizzazione
stimabile in qualche punto percentuale) e incrementano, fin dal momento della
loro assegnazione, la capacità di spesa dei soggetti che li ricevono.
Sono liberamente
negoziabili e trasferibili e possono quindi essere ceduti in cambio di euro sul
mercato finanziario (come può essere venduto un normale di titolo di Stato). Inoltre
possono essere direttamente utilizzati come contropartita di acquisti e vendite
di beni e servizi.
Si ipotizza di emettere
CCF con una scadenza di utilizzo di due anni dopo l’emissione: ceteris paribus, i CCF emessi nel 2017
daranno luogo a un calo di gettito a partire dal 2019. Ma questo calo di
gettito sarà compensato dall’effetto espansivo che la circolazione dei CCF avrà
nel frattempo prodotto.
Per raggiungere questo
risultato, si fa leva in primo luogo sul notevolissimo potenziale inespresso
dell’economia italiana: il PIL reale 2015 è stato inferiore del 9% rispetto a
quello del 2007 (otto anni prima !) il che corrisponde a un minor livello di
PIL di 150 miliardi circa.
Ipotizzando un
moltiplicatore fiscale di 1,25, questo ammanco di PIL può essere recuperato
introducendo nel sistema economico italiano maggior potere d’acquisto per 120
miliardi circa (120 x 1,25 = 150).
L’azione potrebbe
essere ripartita nell’arco di alcuni anni, partendo per esempio da 30 miliardi
di assegnazioni di CCF nel 2017 e incrementandole a 60, 90, 120 nel
2018-2019-2020.
Le assegnazioni
verrebbero effettuate a fronte di varie finalità, tra cui: (i) incremento delle
retribuzioni nette; (ii) riduzione della fiscalità che grava sui costi di
lavoro delle aziende (cuneo fiscale); (iii) cofinanziamento di investimenti di
pubblica utilità; (iv) interventi di spesa sociale.
L’intervento sul
cuneo fiscale sub (ii) costituisce tra l’altro un immediato miglioramento della
competitività delle aziende, ed evita che l’azione espansiva della domanda
interna produca un peggioramento dei saldi commerciali esteri. In pratica, l’azione
viene dosata in modo tale che il maggior import dovuto al recupero dell’economia
sia compensato da maggiori esportazioni e da sostituzioni di importazioni
generate dal recupero di competitività.
L’obiettivo è una
ripresa dell’economia a saldi commerciali esteri invariati (senza che si
verifichino riflessi negativi sui partner esteri: niente beggar-thy-neighbour, in altri termini).
In futuro, le
assegnazioni annue di CCF potranno tendenzialmente rimanere invariate, salvo
regolarle in funzione dell’andamento dell’economia (aumentandole negli anni di
economia debole, e diminuendole nei periodi di domanda più vivace).
L’economia
italiana recupererebbe in pochi anni i livelli produttivi precrisi e
riassorbirebbe la disoccupazione che si è prodotta dal 2008 in poi.
Con ogni
probabilità, si avrebbe anche un leggero incremento dell’inflazione, per
esempio in misura pari all’1% annuo (obiettivo peraltro coerente con le attuali
politiche delle BCE).
Sulla base delle
ipotesi soprariportate, l’effetto totale netto della manovra sarebbe tale da
non comportare, in nessun anno, un peggioramento dei saldi finanziari pubblici –
intesi come differenza tra esborsi e incassi di euro. Il maggior PIL, in altri
termini, produrrebbe ogni anno incassi fiscali lordi almeno pari agli sgravi
conseguiti dai possessori di CCF.
Prudenzialmente, quanto
sopra non tiene conto della possibilità di un’ulteriore accelerazione dello
sviluppo del PIL nel periodo in cui la manovra CCF va a regime, grazie alla ripresa
degli investimenti aziendali privati (compressi da anni a causa del generale
contesto di depressione della domanda).
Eventuali azioni
compensative
Se l’effetto
espansivo è meno favorevole del previsto, o se per altre ragioni l’evoluzione
dell’economia e del gettito fiscale è, in un qualche anno, al di sotto delle
attese, possono essere messe in atto una serie di azioni compensative.
In primo luogo, è
possibile proporre ai titolari di CCF di posporne l’utilizzo, offrendo una
maggiorazione del loro valore facciale (in pratica, si riconosce un tasso
d’interesse pagato in “moneta fiscale”).
In secondo luogo,
si possono emettere titoli fiscali (CCF di lunga durata) da offrire al mercato
per rifinanziare i titoli di Stato tradizionali (BOT e BTP) via via che
arrivano a scadenza.
Quest’ultima opportunità,
tra parentesi, è da sfruttare comunque – anche in caso di andamento
dell’economia e del gettito in linea con le previsioni – in quanto crea un
ampio e liquido mercato di titoli fiscali e accelera la riduzione del debito
che lo stato italiano deve rimborsare in euro.
I titoli fiscali
potranno anche essere detenuti da intermediari finanziari e aziende di credito
come forma di impiego della loro liquidità (alternativa a BOT e BTP). Questo agevola
anche un processo di diversificazione degli attivi delle banche, utile a
ridurre l’interrelazione tra rischio finanziario dello stato e potenziale instabilità
del sistema bancario nazionale.
Nell’eventualità,
molto improbabile, che quanto sopra non fosse sufficiente, sono possibili
ulteriori azioni compensative:
Prima possibilità,
pagare in CCF anziché in euro determinate componenti di spesa pubblica.
Seconda
possibilità, introdurre imposte da pagarsi in euro ma contro compensazione al
contribuente, mediante assegnazioni di CCF di pari importo facciale.
In tal modo,
l’equilibrio di cassa tra euro incassati ed euro pagati risulta garantito in
ogni singolo anno. E di conseguenza il rapporto tra debito pubblico (quello che
deve essere pagato in euro, e che può quindi dar luogo a un evento di default)
declina costantemente.
Come esposto in
precedenza, questo risultato è possibile grazie al notevolissimo potenziale
inespresso dell’economia italiana.
Ove il recupero di
PIL fosse insufficiente, le potenziali misure compensative hanno comunque
altissime probabilità di successo in quanto corrispondono, in buona sostanza, a
processi di conversione (su base volontaria o, al limite, forzosa) di risparmio
interno, da titoli di Stato tradizionali (= titoli di debito) a titoli fiscali.
Questi processi di
conversione sono attuabili senza difficoltà in quanto l’Italia ha un debito
netto estero modesto (26% del PIL a fine 2015). Un basso livello di debito
estero spiega come, a fronte di un debito pubblico elevato, sia molto alto il
risparmio privato nazionale: è principalmente quest’ultimo (e non il debito
estero) che finanzia l’alto debito pubblico.
L’alto risparmio
privato, sulla base di quanto sopra descritto, costituisce quindi una garanzia
implicita del debito pubblico: attuata però per il tramite di (eventuali)
processi di conversione, che non comportano alcun impoverimento dei possessori
di titoli (come avverrebbe se, al contrario, si verificassero eventi di
default, o si introducessero imposizioni patrimoniali).
L’assetto finale
Attuato il
progetto CCF, all’interno del paese circoleranno una determinata quantità di
CCF / titoli fiscali, denominati in euro. Non sono moneta legale, ma
costituiscono una riserva di valore per il possessore e sono utilizzabili come
intermediari di scambio (su base volontaria: ma il loro valore è garantito
dall’accettazione dello Stato a titolo di sgravio fiscale).
Non sono titoli
soggetti a rimborso e quindi non si possono creare turbolenze finanziarie
connesse a difficoltà, per lo stato emittente, nel far fronte a obbligazioni di
pagamento.
In tal modo, lo
stato ha a disposizione uno strumento di regolazione della domanda interna, nonché
della fiscalità che grava su aziende e cittadini. Si dota delle leve di
gestione necessarie ad assicurare la funzionalità dell’economia, senza “rompere”
l’Eurosistema e senza emettere maggior debito.
Nel caso, poi, in cui l’Italia (o un qualsiasi altro stato membro dell’Eurozona) emettesse un quantitativo troppo elevato di CCF, cioè se li inflazionasse a livelli ingiustificati, si verificherebbe una perdita di valore dei CCF nazionali, ma non dell’euro (moneta comune dei paesi dell’Eurozona). Un'eventuale sovraemissione di CCF, in altri termini, penalizza lo stato che la effettua, senza ricadute sugli altri.
Nel caso, poi, in cui l’Italia (o un qualsiasi altro stato membro dell’Eurozona) emettesse un quantitativo troppo elevato di CCF, cioè se li inflazionasse a livelli ingiustificati, si verificherebbe una perdita di valore dei CCF nazionali, ma non dell’euro (moneta comune dei paesi dell’Eurozona). Un'eventuale sovraemissione di CCF, in altri termini, penalizza lo stato che la effettua, senza ricadute sugli altri.
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