Biagio Bossone - Marco Cattaneo
“Flessibilità” è
in concetto molto in voga, oggi, nell’Eurozona. La Commissione Europea ha
accettato la maggior parte delle richieste italiane in merito all’esclusione di
alcune voci straordinarie – tra cui i costi per gestire la crisi migratoria –
dai limiti di deficit pubblico. In tal modo, l’Italia eviterà di adottare
azioni fiscali restrittive nel 2016.
Nel frattempo, la
Spagna ha mancato i suoi impegni di deficit già nel 2015. Il livello registrato
– 5,2% del PIL – supera gli obiettivi concordati (4,5%) che pure erano già una
concessione rispetto ai livelli molto più stringenti previsti nel Patto di
Stabilità e Crescita (PSC) e nel Fiscal Compact (FC). La Commissione potrebbe
quindi sanzionare e multare la Spagna, ma nessuno si aspetta che questo, in
realtà, si verifichi.
E’ chiaro che
applicare le regole fiscali è un problema, in Europa, e il motivo è facile da
comprendere. Il consolidamento fiscale è stato imposto a partire dal 2011,
molto prima che l’Eurozona avesse pienamente recuperato gli effetti della crisi
finanziaria del 2008. Molti stati hanno, di conseguenza, subito una pesante,
doppia recessione. La domanda è tuttora depressa, e la disoccupazione inaccettabilmente
elevata.
Alla maggior parte
dei paesi dell’Eurozona sono necessarie politiche di espansione della domanda,
che richiedono temporanei incrementi di deficit e debito pubblico (in rapporto al
PIL), per accelerare fortemente la crescita e mettere fine alla depressione. Ma
non esiste il consenso politico necessario per rivedere il PSC e il FC.
Di conseguenza, la
flessibilità accordata dalla Commissione UE è un classico “calcio al
barattolo”. Le regole fiscali non sono né applicate né ridefinite. L’Eurozona,
nel suo complesso, continua a ristagnare. Ci sono buone probabilità che non ne
derivi un disastro finché il “whatever-it-takes” della BCE e il programma di Quantitative
Easing eviteranno attacchi speculativi sui debiti sovrani, ma la carenza di
crescita, e di opportunità di occupazione, alimentano l’Euroscetticismo e
rafforzano i partiti anti-sistema.
Tra pochi mesi, a
ottobre, i governi inizieranno a proporre i budget 2017, da discutere in sede
parlamentare e da sottoporre alla Commissione UE. Date le regole vigenti, è
molto facile prevedere un’ulteriore serie di “esercizi di differimento”.
Come è possibile
evitarlo ? Si può dare all’Eurozona un assetto soddisfacente e permanente ?
E’ possibile,
purché l’Eurozona stessa sia riformata in modo da diventare flessibile. Una
modalità efficace consiste nell’emissione, da parte di una serie di stati, di
Certificati di Credito Fiscale (CCF) nazionali.
I CCF sono titoli
che danno diritto al possessore di ridurre pagamenti per imposte, dovuti a
partire da una certa data futura: per esempio, due anni dopo l’emissione dei
CCF medesimi. Verrebbero assegnati gratuitamente ai lavoratori (per
incrementare il loro reddito) e alle aziende (per ridurre i costi di lavoro).
Una parte dei CCF emessi può anche contribuire al finanziamento di spese
sociali e investimenti pubblici.
Essendo titoli
negoziabili e trasferibili, i possessori dei CCF potranno venderli in cambio di
euro, con uno sconto (presumibilmente modesto, poiché il mercato sarà ampio e
liquido) rispetto al valore facciale. Il reddito disponibile e il patrimonio
netto degli assegnatari di CCF si incrementerà immediatamente, con un effetto
di sostegno per domanda, consumi e investimenti aziendali. I redditi procapite
e l’occupazione cresceranno in modo permanente, mettendo fine alla depressione
dell’Eurozona.
Sotto il profilo
fiscale, il maggior PIL – prodotto dalla più elevata domanda e dagli effetti
moltiplicativi sul reddito – incrementerà le entrate pubbliche nei due anni
precedenti alla data di utilizzabilità dei CCF. E anche successivamente, stime
basate su ipotesi prudenziali mostrano che le maggiori entrate lorde
supereranno gli sconti conseguiti dai titolari di CCF.
Va sottolineato
che i CCF non sono debito: i paesi che li emettono non li devono rimborsare, e
non si vengono quindi a creare rischi di default. I CCF non implicano rischi
per la stabilità finanziaria dell’emittente.
La crescita
nominale del PIL indotta dai CCF permette ai singoli paesi di rispettare gli
impegni assunti in base al PSC e al FC, riducendo in modo puntuale e regolare
il rapporto debito pubblico / PIL. Il livello e la composizione delle future
emissioni di CCF potranno essere gestiti in modo da stabilizzare ogni singola
economia nazionale, conseguire adeguati livelli di occupazione, e migliorare la
competitività delle aziende (in quanto l’allocazione di CCF alle imprese
ridurrà i costi di lavoro). Questo consentirà ad ogni paese di evitare che la
crescita della domanda domestica produca sbilanci commerciali esterni.
Un’ampia gamma di
strumenti sarà inoltre disponibile agli stati per gestire temporanei
scostamenti dagli obiettivi di consolidamento fiscale. Ai possessori di CCF
potrà essere offerto di posporne l’utilizzo (per conseguire sconti d’imposta) in
cambio di un incremento di valore facciale. Inoltre, CCF di lunga durata
potranno essere emessi per rifinanziare debito in euro, accelerando così la
riduzione dello stock totale di debito pubblico in circolazione.
Nell’evento, improbabile,
che tutto ciò sia insufficiente, ogni singolo paese potrà applicare “clausole
di salvaguardia” aumentando le tasse da pagare in euro, o contraendo la spesa
pubblica, e incrementando nello stesso tempo le emissioni di CCF. Queste azioni
sarebbero di natura non-prociclica: non implicherebbero gli effetti recessivi
dei limiti fiscali attualmente previsti dalle regole dell’Eurozona (effetti
recessivi che sono il motivo per cui questi limiti sono, in pratica, difficili
o impossibili da applicare).
Un “Eurosistema flessibile”, efficiente e sostenibile,
è un obiettivo realizzabile. I CCF possono essere lo strumento chiave per
raggiungere questo obiettivo. Non c’è tempo da perdere per agire, e per mettere
fine alla depressione dell’Eurozona.
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