Capita abbastanza frequentemente
di imbattersi in opinionisti che si lanciano contro la PMI (Piccole Medie
Imprese) italiane, incolpandole di aver contribuito (addirittura in modo
decisivo, secondo qualcuno) al declino dell’economia nazionale.
Per esempio,
alcuni giorni fa circolava su twitter l’estratto di uno studio (non era
riportata né la fonte né l’anno di riferimento, ma poco importa – i dati
sicuramente sono corretti o comunque plausibili) che riporto qui testualmente:
“Le grandi imprese
(con almeno 250 addetti), con solo 3.465 unità (0,1 per cento) assorbono il
19,4 per cento degli addetti e realizzano il 31,7 per cento del fatturato, il
31,2 per cento del valore aggiunto complessivo e il 36,0 per cento degli
investimenti fissi lordi”.
E in merito a
questi dati si leggevano commenti tipo: “Una scomoda verità”. “Il nostro
modello di piccole e piccolissime imprese è un fallimento”. “Le PMI sono un
cancro”.
Un fallimento, un
cancro, nientemeno ! dopo che per anni ci si è fatto vanto del dinamismo e
dell’imprenditorialità diffusa che caratterizza il tessuto aziendale italiano.
Hanno senso commenti
di questo tenore ? al di là dell’eccesso di enfasi, a un’impressione
preliminare (molto preliminare…) potrebbe sembrare, in qualche misura, di sì.
Si sta dicendo che
le grandi imprese, con meno del 20% degli addetti complessivi, pesano oltre il
31% sul fatturato e sul valore aggiunto, e incidono per il 36% sugli investimenti. Quindi le
grandi imprese sono caratterizzate da più fatturato per addetto, più valore
aggiunto per addetto, più investimenti per addetto: grande è bello e piccolo è
un disastro, giusto ?
Ragioniamoci un
attimo…
Il valore aggiunto
è un indicatore di produzione e di reddito. Il PIL nazionale non è altro che la
somma del valore aggiunto generato da tutte le unità economiche che operano in
Italia. Un alto valore aggiunto per addetto a
parità di condizioni è un segnale positivo, ma…
Dal punto di vista
di un’azienda, gli investimenti fissi sono invece un costo. E’ il capitale fisico che l’attività aziendale deve
remunerare.
Per l’economicità
dell’azienda, non è di per sé positivo avere alto valore aggiunto e, contemporaneamente,
alti investimenti. Casomai, è in posizione migliore chi ha un elevato rapporto tra valore aggiunto e
investimenti.
I dati di cui
sopra non vanno interpretati a sfavore delle PMI: casomai il contrario. Le grandi
hanno bisogno infatti di maggiori, non
minori, investimenti a parità di valore aggiunto generato: come indicato
appunto dal fatto che pesano per il 36% sugli investimenti, ma solo per il
31,4% sul valore aggiunto. Il rendimento degli investimenti è quindi più basso rispetto alle PMI.
E’ anche facile
calcolare la differenza di rendimento. Sempre sulla base dei dati sopra riportati,
fatti pari a 100 sia il valore aggiunto per addetto, che gli investimenti per
addetto, delle PMI, per le grandi imprese i due valori sono rispettivamente
190,2 e 233,7. Le grandi producono oltre il 90% di valore aggiunto per addetto
in più, ma con investimenti più alti quasi del 134%.
Posto 100 il
rapporto valore aggiunto / investimenti delle PMI, il medesimo rapporto per le
grandi imprese è quindi 81,4 (= 190,2 / 233,7). Il rendimento del capitale
fisico investito è considerevolmente inferiore
rispetto alle PMI.
E’ vero anche –
come spesso viene fatto notare – che un valore aggiunto per addetto più elevato
permette, a parità di condizioni, di pagare retribuzioni più alte (e quindi di
attirare professionalità meglio qualificate). Ma anche questo, nel confronto
PMI / grandi imprese, non è necessariamente vero: se per produrre un valore
aggiunto più alto devo sostenere maggiori investimenti, dovrò anche destinare
una maggiore proporzione (del valore aggiunto stesso) al rimpiazzo e
all’aggiornamento degli impianti. Non necessariamente residuano maggiori
risorse per pagare meglio i dipendenti.
In realtà, i dati
evidenziano un’altra cosa: che le grandi imprese operano tendenzialmente,
rispetto alle PMI, in settori a maggiore intensità di capitale. Mediamente
devono quindi investire di più, ed è quindi del tutto fisiologico che abbiano
anche valori aggiunti più alti.
Se poi il maggior valore aggiunto si accompagna a retribuzioni più elevate, non è una conseguenza della dimensione in quanto tale (Walmart ha 2,3 milioni di dipendenti, ma non ha la fama di essere un'azienda ad alte retribuzioni medie...). La variabile esplicativa è con ogni probabilità, anche in questo caso, l'intensità di capitale, che significa (in media, ma non sempre e non necessariamente) impiantistica più complessa e maggior fabbisogno di personale tecnico qualificato.
Peraltro – e anche questa non è una sorpresa – è più difficile ottenere rendimenti elevati (in proporzione) dove si investe molto, rispetto a dove è sufficiente investire poco. Quindi non stupisce che il rapporto valore aggiunto / investimenti sia migliore per le PMI.
Se poi il maggior valore aggiunto si accompagna a retribuzioni più elevate, non è una conseguenza della dimensione in quanto tale (Walmart ha 2,3 milioni di dipendenti, ma non ha la fama di essere un'azienda ad alte retribuzioni medie...). La variabile esplicativa è con ogni probabilità, anche in questo caso, l'intensità di capitale, che significa (in media, ma non sempre e non necessariamente) impiantistica più complessa e maggior fabbisogno di personale tecnico qualificato.
Peraltro – e anche questa non è una sorpresa – è più difficile ottenere rendimenti elevati (in proporzione) dove si investe molto, rispetto a dove è sufficiente investire poco. Quindi non stupisce che il rapporto valore aggiunto / investimenti sia migliore per le PMI.
La conclusione è
che PMI e grande impresa sono macromodelli di azienda differenti, più
o meno appropriati in funzione del contesto. Ma demonizzare le PMI, sulla base
di quattro indici di bilancio interpretati a sproposito, porta decisamente
fuori strada.
Rischia, in effetti, di tradursi in un’autentica
azione di depistaggio: attribuire i problemi dell’economia italiana, massacrata da vent'anni di politiche restrittive della domanda, e pesantemente procicliche
soprattutto dal 2011 in poi, a fattori strutturali che in realtà sono sempre
esistiti. E senza mai impedire (anzi) all’Italia di crescere e di svilupparsi, prima che entrasse in azione l'euroausterità... che è il vero problema, non la dimensione delle aziende.
C'è poi un aspetto concreto che caratterizza il made in Italy.....sono i distretti industriali che grazie alla moltitudine di imprese specializzate permetto una grandissima efficienza ed elasticitò alle nostre medie imprese. Un esempio tra i tanti, le dichiarazioni di Montipò (Presidente Interpump group): «Vero. Qui c’erano presupposti culturali unici. Il sapere meccanico diffuso come da nessuna altra parte al mondo. E poi l’apertura e l’umanità di gente straordinaria. Quando sono partito, sono stati tanti piccoli artigiani di qui a dirmi: mi pagherai quando li avrai. Avevano battezzato che il cavallo avrebbe vinto e si sono fidati. E poi la competenza: a Reggio ci sono 100 artigiani in grado di fare un albero a cammes che giri bene. Provi a vedere in qualsiasi altro Paese dell’Occidente. Forse ne troverà uno o due, in tutta una Nazione».
RispondiEliminaVerissimo. E questa versatilità, questo patrimonio di competenze va tutelato. Anche perchè nasce da caratteristiche genetiche e culturali degli italiani: individualisti magari all'eccesso, non bravi a organizzarsi in grandi unità, ma creativi, innovativi e flessibili quanto o più di chiunque altro.
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RispondiEliminaIl nanismo delle aziende è un bene o un male?
RispondiEliminaLorenzo Zanellato
Né un bene ne' un male di per se': ci sono piccole aziende che funzionano meglio delle grandi, e viceversa. Ma spesso sento discorsi dei soliti economisti-soloni secondo i quali la piccola dimensione e' un problema di per se'. Mai viste prove convincenti. E se sfasci dieci aziende piccole non ne nasce una grande, rimane il nulla...
EliminaOltretutto persino in Usa per la maggior part ci sono Pmi.. c'e un grafico di Bloomberg che indica oltre il 70% degli introiti ed affari è dato dalle Pmi
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