Si discute spesso
in merito alla possibilità che i Certificati di Credito Fiscale vengano
introdotti in forma “non convertibile”. In altri termini, i CCF verrebbero assegnati
gratuitamente a una pluralità di soggetti, che però (diversamente dal progetto
base) non avrebbero facoltà di cederli in cambio di euro.
Gli assegnatari
potrebbero invece utilizzarli come contropartita di transazioni dirette: quindi
per pagare beni e servizi, partendo dal presupposto che un ampio ventaglio di
operatori economici e commerciali accetterà indifferentemente CCF o euro. Un
po’ come avviene per il Sardex (vedi qui e qui) o per altre forme di moneta complementare, ma su
scala molto più ampia, in quanto i CCF godrebbero della garanzia di
accettazione da parte dello Stato per scontare pagamenti di imposte, tasse, o
altre obbligazioni finanziarie (di qualsiasi tipo) verso il settore pubblico.
Se ne parla di
frequente, ad esempio, con Stefano Sylos Labini, soprattutto sulla base della
preoccupazione che l’immissione di decine di miliardi di CCF produca una forte
pressione al ribasso sul valore di mercato dei titoli.
Personalmente, resto
dell’opinione che i CCF dovrebbero invece essere negoziabili e cedibili, senza
limitazioni, sul mercato finanziario. E questo per varie ragioni.
UNO,
l’utilizzabilità fiscale dei CCF a fini fiscali costituisce un fortissimo
sostegno al loro valore. Se possiedo un titolo, assegnatomi il 1° luglio 2017,
che a partire dal 1° luglio 2019 sarà illimitatamente utilizzabile per scontare
pagamenti alla pubblica amministrazione, non ho incentivo a spossessarmene per
un valore inferiore al facciale, se non nella misura di un (presumibilmente
modesto) tasso di attualizzazione.
DUE, in ogni caso,
non si verifica un’immissione immediata e massiccia di titoli sul mercato.
Attualmente si sta ragionando su 30 miliardi per il primo anno, da incrementare
poi successivamente. Le immissioni sono scaglionate nel tempo: si parte quindi da
circa 2,5 miliardi al mese. Al confronto, l’intero mercato dei titoli di Stato
italiani ha come numeri di riferimento 2.200 miliardi di debito pubblico
totale, e circa 500 miliardi di nuove emissioni annue (per coprire il deficit
ma soprattutto per rifinanziare il debito che giunge a scadenza). Le
assegnazioni di CCF spostano ben poco rispetto il volume totale delle
transazioni di titoli italiani (che beninteso non sono solo i titoli di Stato,
ma anche obbligazioni private, azioni, derivati, strumenti ibridi eccetera).
Ma d’altra parte,
se anche fosse vero che l’immissione sul mercato dei CCF può produrre una
pressione al ribasso sui prezzi,
TRE, rendendoli
non convertibili in euro mediante cessione sul mercato finanziario, si
costringe l’assegnatario a far conto solo sul loro utilizzo per acquisti di
beni e servizi. L’ipotetico problema della pressione al ribasso sui prezzi dei
titoli rientrerebbe dalla finestra, perché se pressione ci fosse, gli operatori
commerciali accetterebbero i CCF solo a sconto rispetto agli euro. Con in più
l’aggravante della mancanza di liquidità di CCF, che tenderebbe a ridurne il
valore di mercato (di quanto è difficile prevedere, ma di sicuro l’effetto è di
riduzione).
In sintesi, la non
convertibilità dei CCF si propone di risolvere un problema che a mio parere non
esiste, o è comunque di scarso rilievo: ma se esistesse, ne sarebbe in effetti
una soluzione puramente illusoria. Lo sconto massiccio non ci sarà: ma se ci
fosse, la non convertibilità non lo evita – al contrario, lo incrementa.
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