Doveva essere una
consultazione elettorale all’insegna della stabilità e dell’assenza di
sorprese. E invece l’esito delle elezioni politiche tedesche potrebbe
influenzare notevolmente l’evoluzione della UE e soprattutto dell’Eurozona, in
un futuro molto prossimo.
La CDU-CSU si è
confermata il partito di maggioranza relativa, ma con una sorprendente caduta
di consensi. La SPD ha subito un tracollo, e ha deciso di non formare
un’ulteriore Grande Coalizione con lo schieramento di Angela Merkel, passando invece
all’opposizione.
La crescita della
destra di AFD ha superato ogni previsione. Ma naturalmente è esclusa la volontà
della CDU-CSU di prendere in considerazione loro o la sinistra di Die Linke
come partner di governo.
Il che lascia,
come unica possibilità – per default
– una coalizione tra la CDU-CSU, i liberali di FDP e i Verdi. Ma l’accordo sul programma
di governo è tutt’altro che semplice: le posizioni su vari temi (economia,
immigrazione, ambiente) in molti casi sono alquanto distanti.
Il raggiungimento
di un accordo, comunque, per quanto faticosi saranno i negoziati, appare
abbastanza probabile (non c’è molta voglia di rifare le elezioni tra pochi mesi,
senza alcuna garanzia che l’esito sia diverso da quello di domenica scorsa). E
questo induce a riflettere sulla posizione di FDP in merito ai meccanismi di
funzionamento dell’Eurozona, perché è plausibile che FDP spinga in quella
direzione in caso di suo ingresso nel governo.
Come sintetizzato
in un recente studio di Nordea Bank, FDP propone di (i) introdurre meccanismi
per l’uscita dall’Eurozona senza necessariamente abbandonare la UE (ii)
rafforzare le clausole che impediscono il bail-out
di stati membri insolventi dell’Eurozona, introducendo invece meccanismi di
ristrutturazione automatica dei debiti sovrani (iii) limitare la capacità di
intervento del MES (iv) imporre sanzioni automatiche (e non più lasciate alla
discrezionalità della Commissione Europea) in caso di superamento dei limiti di
deficit pubblico.
Tutto questo
confligge in modo pressoché totale con le proposte di Macron di istituire un
Ministro dell’Economia dell’Eurozona con un budget di spesa a disposizione per
politiche di intervento e di sostegno della domanda (proposte la cui
accettazione da parte dei tedeschi, a un livello che non fosse puramente simbolico,
era comunque già alquanto dubbia).
Se passerà la
posizione FDP, l’introduzione di un meccanismo di Moneta Fiscale / CCF appare
ancora più necessaria per ottenere un Eurosistema funzionale.
Prendiamo il caso
dell’Italia. Il recentissimo aggiornamento del Documento di Economia e Finanza,
a cura del Ministero dell’Economia (settembre 2017) prevede che il debito
pubblico italiano abbia raggiunto il picco in rapporto al PIL (132%) a fine
2016. Nel 2017 si registrerà un modesto calo (131,6%) che dovrà proseguire a
ritmi accelerati negli anni successivi. Il rapporto deficit pubblico / PIL dal
2,1% nel 2017 si ridurrà all’1,6% nel 2019, e sostanzialmente arriverà al pareggio
nel 2020.
Il bilancio
pubblico dovrebbe restare in equilibrio anche dopo il 2020: il debito pubblico
lordo italiano raggiungerebbe quindi un livello massimo di 2.346 miliardi a
fine 2020 (contro 2.260 a fine 2017).
Il PIL reale
manterrà nel 2018 e 2019 una crescita in linea con il 2017 (1,5%), mentre per
il 2020 è previsto un +1,3%.
Un andamento di
questo tipo da un lato è del tutto insoddisfacente in termini di crescita
reale: siamo sempre agli “uno virgola”, insufficienti per un significativo miglioramento
del quadro dell’occupazione e per alleviare il pesante disagio sociale di cui
oggi l’Italia soffre.
Dall’altro lato,
un qualsiasi evento esterno anche solo modestamente negativo – una blanda recessione
internazionale, per esempio – è sufficiente a far deragliare queste (già di per sé
insoddisfacenti) prospettive, riportando tra l’altro fuori binario l’andamento
di deficit e debito pubblico.
La quadratura del
cerchio, coerente anche con gli obiettivi del governo tedesco se passerà la
posizione FDP, potrebbe essere la seguente.
L’Italia si
impegna in modo tassativo, senza deroghe, a mantenere il debito pubblico lordo
a un livello non superiore a un hard cap
di 2.346 miliardi. Emette tuttavia moneta fiscale, in forma per esempio di CCF,
per conseguire una rapida accelerazione della domanda e quindi della crescita
reale, oltre il 3% per tre anni.
Questo è il
livello necessario a rimettere in salute il mercato del lavoro italiano, e
anche a far sì che il maggior PIL produca gettito fiscale addizionale
sufficiente a restare nel limite dell’hard
cap. I CCF in circolazione, ricordo, non sono debito pubblico e comunque
non esiste nessuna possibilità che fenomeni speculativi o andamenti di mercato
finanziario possano forzare l’Italia al default
(appunto perché i CCF non comportano obbligo di rimborso, ma solo diritti a
sconti fiscali futuri). Non si creano quindi, per i partner dell’Eurozona, rischi
addizionali di bail-out.
L’Italia avrà a
disposizione lo strumento CCF anche per gestire eventuali temporanee fasi congiunturali
negative, rispettando l’hard cap ma
attuando azioni non procicliche. Ad esempio, sostituendo quote di spesa
pubblica con pagamenti in CCF, e/o imponendo prelievi fiscali addizionali ma
compensati da erogazioni di CCF.
Sarà anche
possibile accelerare il processo di riduzione del debito pubblico italiano,
mediante emissioni di CCF che vadano a rimborsare debito in scadenza.
La totale messa in
sicurezza del sistema è a questo punto garantita, a condizione che la BCE
mantenga in essere il “whatever it takes”
di Draghi: garantisca cioè il debito pubblico italiano (quello vero, da
rimborsare in euro) purché non aumenti neanche di un centesimo rispetto all’hard cap.
Se il “whatever it takes” non verrà confermato,
il che equivale a dire se la BCE non assicurerà di voler essere garante di ultima istanza (nei
limiti, ripeto, dell’”hard cap”)
rimane possibile (anche se molto meno probabile) che andamenti speculativi dei
mercati possano forzare comunque l’Italia (o altri paesi) all’insolvenza. Nel
qual caso scatterà quanto ipotizzato dal programma FDP: uscita dall’Eurozona
mediante una procedura preconcordata, e ristrutturazione del debito pubblico
(la cui modalità di gran lunga più sensata e indolore sarà la ridenominazione
nella nuova moneta nazionale).
Quest’ultimo
scenario, ribadisco, è comunque molto meno probabile (rispetto alla situazione
odierna) in un contesto di CCF affiancati all’euro. E la BCE può escluderne
completamente la possibilità con la semplice conferma del “whatever it takes”.