mercoledì 27 settembre 2017

Le elezioni tedesche e la posizione FDP sull'euro


Doveva essere una consultazione elettorale all’insegna della stabilità e dell’assenza di sorprese. E invece l’esito delle elezioni politiche tedesche potrebbe influenzare notevolmente l’evoluzione della UE e soprattutto dell’Eurozona, in un futuro molto prossimo.

La CDU-CSU si è confermata il partito di maggioranza relativa, ma con una sorprendente caduta di consensi. La SPD ha subito un tracollo, e ha deciso di non formare un’ulteriore Grande Coalizione con lo schieramento di Angela Merkel, passando invece all’opposizione.

La crescita della destra di AFD ha superato ogni previsione. Ma naturalmente è esclusa la volontà della CDU-CSU di prendere in considerazione loro o la sinistra di Die Linke come partner di governo.

Il che lascia, come unica possibilità – per default – una coalizione tra la CDU-CSU, i liberali di FDP e i Verdi. Ma l’accordo sul programma di governo è tutt’altro che semplice: le posizioni su vari temi (economia, immigrazione, ambiente) in molti casi sono alquanto distanti.

Il raggiungimento di un accordo, comunque, per quanto faticosi saranno i negoziati, appare abbastanza probabile (non c’è molta voglia di rifare le elezioni tra pochi mesi, senza alcuna garanzia che l’esito sia diverso da quello di domenica scorsa). E questo induce a riflettere sulla posizione di FDP in merito ai meccanismi di funzionamento dell’Eurozona, perché è plausibile che FDP spinga in quella direzione in caso di suo ingresso nel governo.

Come sintetizzato in un recente studio di Nordea Bank, FDP propone di (i) introdurre meccanismi per l’uscita dall’Eurozona senza necessariamente abbandonare la UE (ii) rafforzare le clausole che impediscono il bail-out di stati membri insolventi dell’Eurozona, introducendo invece meccanismi di ristrutturazione automatica dei debiti sovrani (iii) limitare la capacità di intervento del MES (iv) imporre sanzioni automatiche (e non più lasciate alla discrezionalità della Commissione Europea) in caso di superamento dei limiti di deficit pubblico.

Tutto questo confligge in modo pressoché totale con le proposte di Macron di istituire un Ministro dell’Economia dell’Eurozona con un budget di spesa a disposizione per politiche di intervento e di sostegno della domanda (proposte la cui accettazione da parte dei tedeschi, a un livello che non fosse puramente simbolico, era comunque già alquanto dubbia).

Se passerà la posizione FDP, l’introduzione di un meccanismo di Moneta Fiscale / CCF appare ancora più necessaria per ottenere un Eurosistema funzionale.

Prendiamo il caso dell’Italia. Il recentissimo aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, a cura del Ministero dell’Economia (settembre 2017) prevede che il debito pubblico italiano abbia raggiunto il picco in rapporto al PIL (132%) a fine 2016. Nel 2017 si registrerà un modesto calo (131,6%) che dovrà proseguire a ritmi accelerati negli anni successivi. Il rapporto deficit pubblico / PIL dal 2,1% nel 2017 si ridurrà all’1,6% nel 2019, e sostanzialmente arriverà al pareggio nel 2020.

Il bilancio pubblico dovrebbe restare in equilibrio anche dopo il 2020: il debito pubblico lordo italiano raggiungerebbe quindi un livello massimo di 2.346 miliardi a fine 2020 (contro 2.260 a fine 2017).

Il PIL reale manterrà nel 2018 e 2019 una crescita in linea con il 2017 (1,5%), mentre per il 2020 è previsto un +1,3%.

Un andamento di questo tipo da un lato è del tutto insoddisfacente in termini di crescita reale: siamo sempre agli “uno virgola”, insufficienti per un significativo miglioramento del quadro dell’occupazione e per alleviare il pesante disagio sociale di cui oggi l’Italia soffre.

Dall’altro lato, un qualsiasi evento esterno anche solo modestamente negativo – una blanda recessione internazionale, per esempio – è sufficiente a far deragliare queste (già di per sé insoddisfacenti) prospettive, riportando tra l’altro fuori binario l’andamento di deficit e debito pubblico.

La quadratura del cerchio, coerente anche con gli obiettivi del governo tedesco se passerà la posizione FDP, potrebbe essere la seguente.

L’Italia si impegna in modo tassativo, senza deroghe, a mantenere il debito pubblico lordo a un livello non superiore a un hard cap di 2.346 miliardi. Emette tuttavia moneta fiscale, in forma per esempio di CCF, per conseguire una rapida accelerazione della domanda e quindi della crescita reale, oltre il 3% per tre anni.

Questo è il livello necessario a rimettere in salute il mercato del lavoro italiano, e anche a far sì che il maggior PIL produca gettito fiscale addizionale sufficiente a restare nel limite dell’hard cap. I CCF in circolazione, ricordo, non sono debito pubblico e comunque non esiste nessuna possibilità che fenomeni speculativi o andamenti di mercato finanziario possano forzare l’Italia al default (appunto perché i CCF non comportano obbligo di rimborso, ma solo diritti a sconti fiscali futuri). Non si creano quindi, per i partner dell’Eurozona, rischi addizionali di bail-out.

L’Italia avrà a disposizione lo strumento CCF anche per gestire eventuali temporanee fasi congiunturali negative, rispettando l’hard cap ma attuando azioni non procicliche. Ad esempio, sostituendo quote di spesa pubblica con pagamenti in CCF, e/o imponendo prelievi fiscali addizionali ma compensati da erogazioni di CCF.

Sarà anche possibile accelerare il processo di riduzione del debito pubblico italiano, mediante emissioni di CCF che vadano a rimborsare debito in scadenza.

La totale messa in sicurezza del sistema è a questo punto garantita, a condizione che la BCE mantenga in essere il “whatever it takes” di Draghi: garantisca cioè il debito pubblico italiano (quello vero, da rimborsare in euro) purché non aumenti neanche di un centesimo rispetto all’hard cap.

Se il “whatever it takes” non verrà confermato, il che equivale a dire se la BCE non assicurerà di voler essere garante di ultima istanza (nei limiti, ripeto, dell’”hard cap”) rimane possibile (anche se molto meno probabile) che andamenti speculativi dei mercati possano forzare comunque l’Italia (o altri paesi) all’insolvenza. Nel qual caso scatterà quanto ipotizzato dal programma FDP: uscita dall’Eurozona mediante una procedura preconcordata, e ristrutturazione del debito pubblico (la cui modalità di gran lunga più sensata e indolore sarà la ridenominazione nella nuova moneta nazionale).

Quest’ultimo scenario, ribadisco, è comunque molto meno probabile (rispetto alla situazione odierna) in un contesto di CCF affiancati all’euro. E la BCE può escluderne completamente la possibilità con la semplice conferma del “whatever it takes”.



lunedì 25 settembre 2017

Moneta Fiscale: sfida all'euro o salvezza dell'economia europea ?


Si parla sempre più frequentemente, in Italia, di Moneta Fiscale come strumento di soluzione della crisi economica. Crisi assolutamente non risolta: nonostante l’ottimismo ostentato dal governo italiano e dalla UE, l’economia dell’Eurozona è ben lontana da una condizione complessiva accettabile, e questo è particolarmente vero per l’Italia.

Il PIL reale italiano crescerà nel 2017 dell’1,5% rispetto all’anno precedente, ma rimarrà comunque inferiore del 6% circa rispetto al 2007 – dieci anni dopo ! E sempre rispetto al 2007 la disoccupazione è doppia e le persone in povertà assoluta sono quasi triplicate, da meno di 1,8 milioni a quasi 5, e non accennano a diminuire.

Il sistema economico italiano viaggia molto al di sotto delle sue potenzialità: il gap si è creato per effetto della crisi finanziaria mondiale del 2008-9, e poi delle politiche di austerità “prescritte” dalla UE nel 2011-2.

L’Italia può risolvere questo problema introducendo un’adeguata quantità di potere d’acquisto nel suo sistema economico. Non può però farlo emettendo euro, né (a causa dei meccanismi di funzionamento dell’Eurosistema) con incrementi di deficit pubblico.

Tutte queste difficoltà si ricollegano al fatto che l’Italia utilizza una moneta (l’euro) che non emette. Una moneta non sovrana, quindi.

La Moneta Fiscale consente di superare questo problema senza “rompere” l’euro.

La Moneta Fiscale è un concetto riconducibile al “cartalismo”, teorizzato dall’economista tedesco Georg Friedrich Knapp all’inizio del Novecento, e recentemente esteso e sviluppato dagli economisti legati alla Modern Monetary Theory (MMT).

I principi base della proposta Moneta Fiscale sono che:

PRIMO, un titolo accettato dallo Stato per soddisfare le obbligazioni finanziarie nei suoi confronti, in particolare quelle fiscali, ha un valore, anche se il titolo stesso non è legal tender per nessun altro operatore economico. In altri termini, solo lo Stato si vincola (volontariamente) ad accettarlo, mentre aziende e cittadini sono libere di utilizzarlo o meno. L’accettazione da parte dello Stato è però sufficiente a conferire valore al titolo.

SECONDO, poiché il titolo non è destinato a essere rimborsato in una moneta che lo Stato non emette (quale l’euro), lo Stato è sempre in grado di onorare l’impegno preso. Appunto perché s’impegna ad accettarlo ma non a rimborsarlo, lo Stato non può essere forzato al default. Un titolo a valenza fiscale è sotto questo profilo assimilabile alla moneta sovrana (= emessa dallo Stato), o a un debito da rimborsare in moneta sovrana.



Come può funzionare la Moneta Fiscale

Attualmente, in Italia, tutti i tre principali partiti politici di opposizione stanno valutando schemi di Moneta Fiscale.

Per quanto riguarda Forza Italia, la proposta in esame è basata sui Certificati di Credito Fiscale (CCF), originariamente concepiti da Marco Cattaneo e sviluppati insieme a vari altri economisti e ricercatori in numerosi articoli, libri e in un ebook che ha raggiunto un’ampia diffusione.

I CCF sono un titolo emesso dallo Stato, che dà diritto a riduzioni di pagamenti per imposte (o per qualsiasi altro impegno finanziario nei confronti del settore pubblico) a partire da due anni dopo la loro emissione.

I CCF possono essere emessi e assegnati (senza contropartita) per una pluralità di scopi: ai lavoratori per integrare i loro redditi; alle aziende per ridurre il carico fiscale e contributivo sul lavoro (il che implica un immediato recupero di competitività ed evita che la ripresa economica squilibri i saldi commerciali esteri); ai ceti sociali disagiati per interventi di sostegno e di spesa sociale; possono inoltre finanziare programmi di investimenti pubblici, ecc.

Il CCF è un titolo di Stato (anche se non è un titolo di debito): potrà quindi essere venduto dall’assegnatario in cambio di euro, presumibilmente con un modesto sconto rispetto al valore facciale, utilizzando le piattaforme già ampiamente rodate e operative su cui oggi si compravendono BTP, BOT ecc.

Inoltre, con ogni probabilità molti operatori commerciali accetteranno (pur non essendovi obbligati) i CCF come contropartita per la vendita di beni e servizi.

I due anni intercorrenti tra l’emissione dei CCF e il loro utilizzo per conseguire sconti fiscali permettono all’economia di riprendersi, incrementare PIL e gettito fiscale, e compensare quindi l’effetto di riduzione delle entrate statali che altrimenti i CCF produrrebbero.

Il M5S ha da alcuni mesi reso noto il suo interesse per la Moneta Fiscale secondo le linee descritte da Gennaro Zezza. In questo caso lo strumento è concepito come un’unità di valore destinata a circolare tramite il supporto di un sistema di carte elettroniche diffuse presso il pubblico.

Resta fermo il concetto, anche in questo caso, dell’utilizzabilità per conseguire sconti fiscali. Non ci sarebbe un differimento temporale di due anni: l’utilizzabilità avrebbe partenza immediata ma a tranches scadenziate nel tempo (es. 20% all’anno per cinque anni, ma il primo 20% fin da subito).

Anche in questo caso, l’utilizzabilità fiscale garantisce il valore della Moneta Fiscale.

La Lega Nord e in particolare il suo responsabile economico, Claudio Borghi, propone l'emissione di Minibot, titoli di Stato destinati a circolare in forma cartacea e in piccoli tagli (gli stessi delle banconote in euro). E’ prevista l’attribuzione di Minibot a titolari di crediti verso il settore pubblico (aziende fornitrici, soggetti beneficiari di detrazioni fiscali ecc.).

Il Minibot è utilizzabile fin da subito per pagare tasse e imposte, e anche servizi erogati da aziende statali. Non incrementa, in effetti, le disponibilità patrimoniali del ricevente perché a fronte dell’erogazione si estingue un credito preesistente; trasforma, tuttavia, un credito differito e illiquido in uno strumento circolante e immediatamente utilizzabile.



Moneta Fiscale: soluzione permanente o provvisoria ?

La Moneta Fiscale è uno strumento gestibile da parte dei singoli governi nazionali, e consente di espandere la domanda interna e di migliorare la competitività delle aziende (abbassandone il carico fiscale effettivo).

Restituisce quindi all’Eurosistema il livello di flessibilità necessario per superarne le disfunzioni, senza che si debba arrivare a romperlo.

I livelli di emissione e la composizione delle assegnazioni di Moneta Fiscale possono essere dosati in modo da garantire nel tempo (i) alti livelli di occupazione (ii) equilibrio nei saldi commerciali esteri e (iii) rispetto dei vincoli di finanza pubblica.

Riguardo al punto (iii), in particolare, dato un obiettivo di deficit pubblico (inteso come differenza tra pagamenti e incassi dello Stato) il maggior livello necessario per uscire da una fase ciclica negativa dell’economia sarà ottenibile mediante un appropriato livello di emissione di Moneta Fiscale.

L’affiancamento della Moneta Fiscale all’euro consente di creare un Eurosistema stabile. In questo senso, la Moneta Fiscale deve costituire uno strumento disponibile in permanenza ai governi nazionali, per effettuare le necessarie manovre anticicliche e superare fasi di difficoltà dell’economia (a partire, naturalmente, dall’attuale).

E’ anche possibile che le emissioni di Moneta Fiscale scendano a zero in una fase del ciclo economico particolarmente favorevole. Lo strumento resterà comunque a disposizione e potrà essere riattivato in caso di difficoltà successive.



Moneta Fiscale: coerenza con trattati e regolamenti UE

La Moneta Fiscale non confligge con nessuna regolamentazione dell’Eurosistema.

Non è moneta legale in quanto la sua accettazione avviene su base volontaria e non è imposta dalla legge. Non si viola, quindi, il principio del monopolio BCE riguardo all’emissione della moneta legal tender, che rimane l’euro.

Non è neanche indebitamento pubblico, in quanto i regolamenti Eurostat chiariscono senza ambiguità che non si ha debito se non quando il settore pubblico è impegnato a effettuare pagamenti. La Moneta Fiscale è invece un non-payable tax credit: non dà diritto a pagamenti, ma a ridurre un carico d’imposta altrimenti dovuto (non diversamente dalla possibilità di ammortizzare un impianto, o di utilizzare una perdita fiscale pregressa, per citare due casi di diritti di natura fiscale che non sono, ovviamente, debito dello Stato).

Soprattutto, la regolamentazione dell’Eurosistema è basata sul principio di non incrementare i rischi di default sul debito pubblico degli stati membri. Emettere Moneta Fiscale non confligge con questo obiettivo, in quanto nessuno Stato può essere forzato all’inadempimento su un titolo che incorpora il diritto a riduzioni fiscali future, ma non a essere rimborsato in moneta che lo Stato non emette e di cui potrebbe non riuscire ad approvvigionarsi.

Naturalmente l’esistenza di una Moneta Fiscale nazionale può costituire un primo passo verso la fuoriuscita dello Stato emittente dall’Eurosistema, se a un certo punto la Moneta Fiscale fosse dichiarata legal tender in sostituzione dell’euro.

Va però sottolineato che quest’ultimo passaggio è comunque di complessa esecuzione. L’esistenza di un titolo che circola e che aziende e cittadini sono abituati a utilizzare lo agevolerebbe, ma tutta una serie di problemi giuridici e tecnici (non insormontabili, ma tutt’altro che semplici) rimangono in essere, a partire dalla ridenominazione dei contratti e dei rapporti di debito / credito stipulati in euro.

D’altra parte, è importante notare che i rischi legati all’assetto dell’Eurosistema non vengono a crearsi in quanto viene emessa la Moneta Fiscale. Questi rischi esistono già oggi, e rimarranno in essere fino a quando non saranno risolte le attuali, gravissime disfunzioni del sistema odierno. Disfunzioni che la Moneta Fiscale consente di superare.


giovedì 21 settembre 2017

mercoledì 20 settembre 2017

Su Project Syndicate

Project Syndicate non è esattamente il sito di economia e politica internazionale su cui è più facile essere pubblicati... quindi con piacere (mio) trovate qui il nostro articolo sui Tax Rebate Certificates, che poi sono sempre i Certificati di Credito Fiscale.

Quanto alla versione italiana, mi ero portato avanti: eccola.

sabato 16 settembre 2017

Moneta Fiscale: farla funzionare è semplice

Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa, Stefano Sylos Labini

In un recente articolo, Yanis Varoufakis dell’Università di Atene ha messo in evidenza l’utilità di dare ai governi nazionali maggiore autonomia nella creazione di moneta per fini interni. Varoufakis propone un nuovo sistema di pagamenti parallelo basato sulla “moneta fiscale”, nonché un complesso meccanismo per creare questo tipo di moneta.

In replica, desideriamo indirizzare i lettori alla nostra proposta di Moneta Fiscale, che sarebbe di più semplice e immediata applicazione rispetto al sistema descritto da Varoufakis. L’abbiamo delineata nel nostro “Manifesto per l’Italia (2014)”, a seguito della ricerca di uno strumento di politica economica in grado di rinvigorire la domanda aggregata in una economia con spazi fiscali limitati e priva di sovranità monetaria. Come abbiamo argomentato in quella sede, uno strumento di questo tipo permetterebbe all’Italia di riprendersi dalla sua crisi economica senza lasciare l’eurozona e senza violare le regole dell’Unione Europea.

La nostra proposta si è evoluta in un ebook molto letto e in una serie di articoli, nei quali abbiamo sviluppato una rigorosa definizione di Moneta Fiscale e simulato l’impatto di un programma di moneta fiscale utilizzando dati economici italiani. Abbiamo anche preso in considerazione come la Moneta Fiscale opererebbe in contesti differenti, confrontando la nostra proposta con vari schemi di moneta parellela ipotizzati per la Grecia, nonché con le politiche economiche di Hjalmar Schacht, l’architetto della ripresa economica tedesca negli anni Trenta.

Le proposte di Moneta Fiscale sono oggi decisamente centrali nel dibattito politico italiano, in particolare tra i maggiori partiti d’opposizione, tra cui Forza Italia (lo schieramento di Silvio Berlusconi, capo del governo in passato), il Movimento Cinque Stelle e la Lega Nord. Alcuni di questi considerano la Moneta Fiscale un potenziale complemento all’euro, altri un mezzo per attivare l’uscita dell’Italia dall’Eurozona.

Nella nostra proposta, il governo italiano emetterebbe “Certificati di Credito Fiscale” che danno diritto a riduzioni in pagamenti futuri di tasse, imposte, contributi sociali ecc., per un ammontare uguale al loro valore nominale. Un CCF sarebbe utilizzabile in futuro – ad esempio, due anni dopo l’emissione – ma avrebbe anche un valore immediato, in quanto rappresenterebbe un diritto futuro garantito. Un CCF da 100 euro (120 dollari) emesso oggi varrebbe gli stessi 100 euro quando diventa utilizzabile tra due anni; nel frattempo, sarebbe negoziabile con un modesto sconto.

Per assicurare che il valore di mercato del CCF resti costantemente in linea con il nominale, il governo potrebbe pagare un tasso d’interesse positivo sui CCF. Si creerebbe anche un sistema nazionale di pagamento, dove i CCF verrebbero scambiati contro beni e servizi ceduti da fornitori disposti ad accettarli, o anche contro euro o altre attività. Creato questo sistema, il governo potrebbe emettere CCF, senza contropartita, direttamente a lavoratori, aziende, ceti disagiati, o utilizzarli per finanziare investimenti pubblici e programmi sociali.

La nostra proposta fornisce maggiore capacità di spesa sia al settore pubblico che agli operatori privati, e inoltre consente alle aziende domestiche di ridurre gli oneri sui costi di lavoro. In tal modo si migliora, tra l’altro, la loro competitività nei confronti delle importazioni nonché i saldi commerciali esteri.

Le emissioni di CCF potrebbero essere calibrate in modo da azzerare l’output gap del paese. Ad esempio il governo italiano potrebbe emettere CCF per 30 miliardi di euro annui a partire dal 2018, e poi espandere le emissioni annue fino a 100 miliardi nel giro di tre anni. La prima emissione di CCF avrebbe un effetto espansivo sulla produzione durante i due anni di differimento di utilizzo, grazie all’incremento di spesa del settore privato. E, poiché ampi livelli di output gap e bassi tassi d’interesse hanno un effetto moltiplicativo sulla crescita del reddito, le emissioni di CCF incrementerebbero il gettito del settore pubblico, coprendo così il proprio costo fiscale.

Soprattutto, i CCF non violerebbero il monopolio BCE sull’emissione di moneta ad accettazione obbligatoria. E i CCF non danno diritto a essere rimborsati, e non costituiscono quindi debito pubblico come definito da Eurostat. L’implicazione è che i governi possono emettere CCF senza entrare in conflitto con i trattati UE e con la normativa che regola le passività pubbliche, in quanto non incrementano il rischio di default dei governi medesimi.

Certamente i CCF indebolirebbero nel tempo la posizione fiscale se non stimolassero in misura sufficiente l’attività economica (e di conseguenza le entrate pubbliche). Ma per evitarlo, le emissioni di CCF potrebbero essere accompagnate da incrementi di tasse o tagli di spesa da attuarsi al momento dell’utilizzabilità, condizionate all’eventuale mancato verificarsi di un’adeguata crescita di gettito. Queste misure decadrebbero quindi automaticamente nel momento in cui i CCF genereranno espansione economica sufficiente a coprire il loro costo fiscale.

Di conseguenza, anche in un ipotetico (e virtualmente impossibile) worst-case scenario, nel quale i CCF risultino privi di qualsiasi effetto espansivo – in pratica, se tutti i beneficiari li “stivassero sotto il materasso” – adeguate clausole di salvaguardia li rendono privi di effetti negativi sulla posizione fiscale dello stato emittente.

Nel complesso, i CCF costituiscono una proposta priva di rischi. In Italia, dove l’economia rimane debole e fragile, con ogni probabilità produrrebbero una crescita più veloce e più robusta, ridando inoltre stabilità al problematico sistema finanziario locale.


lunedì 11 settembre 2017

Titoli fiscali: il massimalismo è sterile


Sale l’interesse e l’intensità del dibattito sulle varie opzioni di titoli a valenza fiscale – CCF, Minibot, altre forme di Moneta Fiscale – da introdurre per superare le disfunzioni dell’Eurosistema e mettere fine alla crisi economica.

In parallelo, mi trovo spessissimo a dibattere con interlocutori la cui posizione si riassume come segue. Sì, va bene, abbiamo capito, sono strumenti utili, sulla carta magari anche risolutivi, ma non funzionerà così – saranno osteggiati, boicottati da UE e BCE, ci scateneranno contro la speculazione, i mercati, lo spread, la chiusura delle banche, Godzilla e King Kong – serve altro, serve il breakup secco immediato, e anche l’uscita da tutti i trattati, dalla UE, dalla NATO, dal sistema solare.

Cerco, quindi, di sintetizzare nel modo più chiaro possibile come vedo la situazione.

L’uscita “secca” dall’euro mediante breakup non è tecnicamente impossibile, ma è complessa e, soprattutto, le condizioni politiche non ci sono oggi né ci saranno neanche dopo le prossime elezioni (perché non ci sarà una maggioranza parlamentare pro-breakup). Dire “breakup o niente” quindi equivale a dire niente, oggi e per i prossimi svariati anni.

D’altra parte, introdurre uno strumento fiscale parallelo – che non viola trattati e regolamenti UE – è un’iniziativa che può essere fermata solo con azioni estremamente pericolose per la tenuta del sistema UE / euro stesso. Interrompere di colpo il QE ? revocare l’OMT (il whatever it takes di Draghi, per intenderci) ? sospendere i canali di rifinanziamento della BCE nei confronti di Bankitalia e quindi del sistema bancario italiano ?

Sono tutte azioni che, a parte configurare (quelle sì) rotture dei trattati, equivalgono a scatenare una pesante crisi finanziaria e bancaria. Mi sembra estremamente arduo che si formi, a Bruxelles e a Francoforte, il consenso necessario per attuare qualcosa di simile.

In altri termini, le difficoltà politiche che esistono per attuare il breakup secco e improvviso da parte dell’Italia non solo vengono meno, ma risultano, in larga misura, ribaltate su UE e BCE.

Ma, si dirà, queste pressioni la BCE le ha esercitate in passato. Ha condizionato misure di sostegno al debito pubblico italiano all’attuazione di un programma di austerità, nel 2011. Ha interrotto l’espansione di linee emergenziali di liquidità – l’ELA – alle banche greche a fine giugno 2015, nell’imminenza di un referendum sulle misure richieste dalla UE.

In tutti questi casi, però, la situazione di crisi (indubbiamente legata, anzi in buona sostanza prodotta, dall’assetto disfunzionale dell’Eurosistema) preesisteva: non è nata nel momento in cui la BCE ha attuato quelle azioni.

A scanso di qualsiasi equivoco: non le sto difendendo. Le azioni andavano in una direzione totalmente errata. Non hanno risolto la crisi, ma l’hanno esacerbata. L’analisi delle cause e le conseguenti “prescrizioni” erano, e sono, completamente sbagliate. Si è gestita una crisi di domanda – conseguente alla crisi finanziaria mondiale del 2008 – come se fosse causata da eccessi di debito pubblico, con il risultato di forzare l’introduzione di politiche procicliche che hanno depresso ulteriormente varie economie nazionali (e non hanno neanche invertito la tendenza alla crescita del rapporto debito pubblico / PIL).

Però la “crisi dello spread” del 2011 non è nata a causa di azioni specifiche della BCE. E’ stata gestita in modo totalmente inappropriato, ma non è stata innescata in quel momento.

E quando la BCE nel giugno 2015 ha sospeso l’estensione della liquidità di emergenza alle banche greche (provocandone la chiusura) si stava acutizzando una corsa agli sportelli iniziata parecchio tempo prima. E la Grecia aveva appena fatto default su una rata di rimborso al Fondo Monetario Internazionale.

In altri termini: non intervenire, o intervenire in modo inappropriato, quando una crisi è in corso e sta raggiungendo una fase di tensione particolarmente critica, è una cosa. Agire in modo violento – e in completa rottura dei trattati – per provocarne una, è un’altra faccenda. Molto, ma molto più grave.

A chi delinea scenari da tregenda, in definitiva, rispondo: non credo che le cose stiano come dite voi, e in ogni caso adottare il vostro punto di vista equivale a non fare nulla per n anni a venire.

Al contrario, l’opportunità di fare qualcosa di molto rilevante può esserci, e tra pochi mesi. Io, oggi, punto su quella.


venerdì 8 settembre 2017

Mario Draghi, c'è moneta e "moneta"...


Durante la conferenza stampa di ieri presso la BCE, è stato richiesto a Draghi un commento sulle proposte di introduzione di una “criptovaluta” da parte dell'Estonia, nonché sulle ipotesi – ben note ai lettori di questo blog… - di titoli a utilizzo fiscale, di cui si parla principalmente in Italia (e italiano era il giornalista che poneva la domanda).

La risposta di Draghi è, testualmente, stata: “I won’t comment on the Italian intention but I will comment on the Estonian decision: no member state can introduce its own currency”.

Secondo il "Sole 24Ore" il messaggio di Draghi “vale quindi anche in Italia, dove la Lega Nord propone l’introduzione di una valuta complementare, i Minibot” – Minibot che sono l’ipotesi di titolo a valenza fiscale di cui si sta parlando maggiormente in queste ultime settimane. Ma il Sole è evidentemente andato fuori strada.

Non è casuale che nella sua risposta, Draghi abbia esordito dichiarando che NON avrebbe commentato le “intenzioni italiane”. Le proposte di titoli a valenza fiscale – CCF, Minibot, altre forme di Moneta Fiscale – non confliggono, infatti, con il monopolio BCE, che riguarda l’introduzione di monete ad accettazione obbligatoria. E la BCE di conseguenza non ha competenza in materia.

Non è possibile, da parte degli stati membri dell’Eurozona, emettere moneta con obbligo di accettazione nel territorio dello Stato. Ma è possibile emettere titoli o attività finanziarie di vario genere che gli Stati, o anche soggetti privati, s’impegnino ad accettare su base volontaria. Tanto è vero che le “monete” complementari (più propriamente, “circuiti di compensazione multilaterale”) esistono già: in Italia l’esempio di maggior successo è il circuito Sardex (vedi qui e qui).

I titoli a valenza fiscale, che traggono valore dall'impegno volontario di accettazione da parte dello Stato emittente, non confliggono con il monopolio di emissione della BCE: nulla di nuovo.


mercoledì 6 settembre 2017

Ancora su speculazione ed efficienza dei mercati


Una precisazione in merito al mio post di alcune settimane fa. Io NON credo alla tesi dell’efficienza dei mercati finanziari, se viene intesa come il concetto che i mercati hanno ragione per definizione, e quindi attribuiscono ad azioni, titoli, valute un valore sempre e comunque “esatto”.

I mercati spesso e volentieri sono vittime di grossi abbagli, dovuti a mode, eccessi, euforie speculative, incertezze o fraintendimenti sulle politiche dei governi e delle banche centrali, eccetera.

Per citare uno degli investitori di maggior successo della storia, Warren Buffett, “I would be a bum in the street with a tin cup if the markets were always efficient”.

Il punto è che le inefficienze esistono, ma il tempo le corregge. Buffett, invece di diventare uno straccione che chiede la carità con una tazza di latta, ha accumulato un patrimonio di svariate decine di miliardi, proprio grazie alla sua capacità di identificare le inefficienze dei mercati – comprando quando i prezzi erano insensatamente bassi ed evitando di farlo quando erano euforicamente alti.

Questa strategia, però, ha funzionato perché le sottovalutazioni sono state corrette dai mercati, entro un periodo di tempo di alcuni (per lo più pochi) anni. Se i flussi speculativi potessero autoalimentarsi all’infinito, la strategia di Buffett non funzionerebbe. Ma le cose stanno diversamente.

E nel caso delle valute ? se l’euro si rompesse, le stime effettuate da vari operatori di mercato e istituzioni sovranazionali convergono nell’affermare che il Nuovo Marco si rivaluterebbe del 25-30% circa rispetto alla Nuova Lira.

E’ possibile che la speculazione e la psicologia degli operatori spinga il Nuovo Marco a livelli più alti, per esempio a 1,50 contro la Nuova Lira ? certamente.

E’ possibile che parta a questo punto una spirale di “aspettative autorealizzanti” che porteranno il cambio a 2, e poi a 3, e poi a 5 ? No. L’1,50 non sarà seguito da una “spirale incontrollabile”, ma da un rientro intorno a 1,30.

Convergenze a livelli molto più alti potranno essere prodotte, casomai, non dalla “psicologia dei mercati” ma da forti differenze nei tassi d’inflazione. Che però la svalutazione da sola non genera, e che sono state realmente elevate solo nel periodo degli shock petroliferi.

E le situazioni che hanno enfatizzato gli effetti di quegli shock non sono presenti nel mondo di oggi.

Le nuove tecnologie di estrazione e di produzione di energia tendono a far scendere il costo di sostituzione delle riserve petrolifere.

L’incidenza dell’energia sul PIL è molto minore oggi che negli anni Settanta, sia per i miglioramenti di efficienza nello sfruttamento, che a causa della maggiore incidenza del terziario rispetto alla produzione industriale.

E, soprattutto in Italia, siamo lontanissimi dai livelli di saturazione delle risorse produttive che potrebbero innescare fenomeni inflazionistici degni di nota.


lunedì 4 settembre 2017

Perché i CCF non sono debito pubblico (again...)


Una breve (ennesima…) sintesi: i Certificati di Credito Fiscale, o CCF, non sono debito in quanto non esiste un’obbligazione di pagamento in cash da parte dell’emittente (nella nostra proposta, lo Stato italiano).

Lo Stato assicura a chi possiede un CCF, a partire da una certa data futura (due anni dall’emissione) il diritto di ridurre pagamenti altrimenti dovuti alla pubblica amministrazione – per tasse, imposte, contributi o qualsiasi altra motivazione.

I principi contabili Eurostat li identificano senza ambiguità come non-payable tax credits, che non sono debito. Debito è ciò che si è impegnati a pagare. Non quello che si può portare in compensazione di pagamenti altrimenti dovuti.

E’ vero che a fronte dell’utilizzo dei CCF si verificherà ceteris paribus un calo di gettito fiscale: questo però non implica che i CCF siano debito – bensì che debbano essere predisposte azioni compensative da attivare soltanto se, e nella misura in cui, l’effetto espansivo su PIL e gettito del maggior potere d’acquisto in circolazione (nel periodo intercorrente tra emissione e utilizzo dei CCF) non sarà sufficiente.

Queste azioni compensative possono anche essere definite fin dall’emissione dei CCF, ed attivate o meno in funzione delle necessità. Il che rende il progetto completamente privo di rischi sui saldi di finanza pubblica (come si spiegava qui).

Il fatto che i CCF siano titoli negoziabili e trasferibili non rileva. Non c’è debito se non c’è impegno di pagamento. Mentre c’è debito anche se l’impegno di pagamento non è incorporato in un titolo (altrimenti un finanziamento diretto allo Stato italiano da parte di un’istituzione sovranazionale, tipo FMI, non sarebbe debito).

Anche il fatto che i CCF siano un impegno incondizionato (non-contingent) non rileva. Gli impegni italiani verso il fondo salvastati ESM (63 miliardi di cui meno della metà versati) sono tutti parte del debito pubblico anche se sono (per la parte non versata) contingent, vale a dire condizionati, al fatto che l’ESM li richieda. La parte a oggi non utilizzata potrebbe non essere mai richiesta, ma c’è impegno di pagamento, e quindi c’è debito.

I CCF non sono debito all’emissione e in effetti neanche al momento dell’utilizzo. Quando sono utilizzati, si estinguono. A quel punto si vanno a verificare i saldi di finanza pubblica effettivi, si constata se sono in linea con gli obiettivi di finanza pubblica, e in caso di disallineamento si interviene: altrimenti no.

Ai sensi di trattati e regolamenti UE i CCF, semplicemente, non sono mai da includere nel debito pubblico.


venerdì 1 settembre 2017

Puntare sui Minibot non è un motivo per non introdurre i CCF

Si continua a parlare delle varie ipotesi di strumenti finanziari a valenza fiscale, dopo che la replica di Berlusconi all’articolo di Paolo Becchi e Fabio Dragoni ha riacceso i riflettori sull’argomento.

Dico “riacceso” perché a fine marzo scorso il M5S aveva reso noto il suo interesse verso ipotesi di Moneta Fiscale. Per cui, va ricordato, schieramenti politici che rappresentano complessivamente il 60% circa dell’elettorato (stando ai sondaggi) stanno ragionando su idee che hanno una matrice comune, anche se declinata in forme parzialmente differenti.

Tra le varie soluzioni sul tavolo, i Minibot proposti dal responsabile economico della Lega, Claudio Borghi si distinguono in quanto sono esplicitamente presentate non come una soluzione alle disfunzioni dell’Eurosistema, ma come una transizione verso il suo scioglimento.

In quest’ottica, non è un problema prioritario il fatto che i Minibot non creino una grossa iniezione di potere d’acquisto supplementare. Al contrario dei CCF (diritti a sconti fiscali che nascono al momento dell’emissione del titolo) i Minibot danno infatti forma cartacea a crediti verso l’erario già esistenti.

Il vantaggio per chi riceve il Minibot è sostituire uno strumento illiquido con uno liquido, utilizzabile immediatamente per effettuare compensazioni d’imposta, e trasformare quindi potere d’acquisto differito in capacità di spesa immediata (nella misura in cui i Minibot circolano e sono accettati).

Però non si verifica un arricchimento reddituale e patrimoniale in capo al ricevente. Certo, il vantaggio della maggiore liquidità non è da trascurare, ma l’impatto sulla spesa sarà con ogni probabilità inferiore (a parità di emissioni) a quello ottenibile distribuendo CCF.

Come accennato sopra, questo non è un problema se i Minibot rappresentano un ponte verso lo scioglimento della moneta unica e la fine dell’euroausterità.

Tutto questo mi spinge però a formulare tre riflessioni, o se vogliamo a porre tre domande.

La prima: se l’introduzione dei Minibot è un passo preliminare all’avvio di un negoziato in sede Eurozona per arrivare allo scioglimento consensuale, in che misura la loro esistenza rafforza il potere contrattuale dell’Italia ?

Certo, se si arriva all’impasse, o peggio ancora ad azioni intimidatorie (a cui personalmente non credo) meglio avere in circolazione un embrione di moneta nazionale, che la popolazione sta già utilizzando, che viceversa. Ma cambia drasticamente la situazione ? le complessità dell’euro-breakup non sono riconducibili solo, e neanche prevalentemente, al problema di emettere una nuova moneta cartacea.

Teniamo anche conto che in sede UE la risposta potrebbe semplicemente essere di questo tipo: bene, hai introdotto i Minibot, nessuno te lo impediva, non è debito aggiuntivo. Non ci compete obiettare nulla. Ma sciogliere consensualmente l’euro ? ovviamente no, non se ne parla.

La seconda: esiste una maggioranza politica per andare a proporre lo scioglimento dell’Eurozona ? sembra di no, Forza Italia non è su questa linea, il M5S appare aver preso atto che il referendum è impraticabile e ragiona sulla Moneta Fiscale in affiancamento all’euro. La Lega è cresciuta, e rispetto ai sondaggi attuali è possibilissimo che vada anche meglio alle elezioni: ma al 51% non arriva.

La terza: in ogni caso, se si avvia un negoziato per concordare lo scioglimento, i tempi sono lunghi (un anno mi appare una stima già fortemente ottimistica) e l’esito molto incerto. Nel frattempo, come si riavviano domanda, produzione e occupazione ?

Alla luce di quanto sopra, una strada che ritengo vada seriamente esaminata è introdurre CCF e Minibot insieme.

Il fatto che i Minibot siano in circolazione tra l’altro potrebbe agevolare l’accettazione e la valutazione di mercato dei CCF, di cui si propone l’emissione sotto forma di titoli utilizzabili come sconto fiscale due anni dopo l’introduzione (per non creare squilibri di finanza pubblica prima che l’azione espansiva sulla domanda abbia adeguatamente avuto effetto).

I CCF sarebbero in pratica l’equivalente di un CTZ a due anni che, invece di essere rimborsato in euro a scadenza, si trasforma in un Minibot. L’abitudine ad utilizzare i Minibot consoliderebbe quindi anche l’accettazione dei CCF.

Su un progetto di questo genere esiste, a quanto pare, un consenso ampiamente maggioritario tra gli schieramenti politici italiani, “pesati” sulla base degli attuali sondaggi: sia che lo si veda come un punto di arrivo, che come un passo intermedio per qualcos’altro.