Commentando l’ultima conferenza stampa di Mario Draghi, il Sole 24 Ore ci fa sapere che il presidente del consiglio “ha indicato che il fatto di essere personalmente a favore dell’emissione di debito comune come strumento permanente a sostegno di un bilancio per la stabilizzazione dell’economia non significhi molto, dal momento che è necessario un consenso di tutti i governi. Ha raffreddato gli entusiasti ricordando che si tratta di “un obiettivo un po’ lontano, che però è meglio ribadire perché ci sono cose che rispondono a tanti problemi (?), invece ci si ingegna a non dare la risposta giusta che richiede uno sforzo politico imponente e si danno risposte non rilevanti, marginali, cosicché ci si deve aspettare un risultato marginale””. “Sintesi chiara delle incompiutezze dell’Unione Europea”, chiosa l’articolo del Sole.
A me viene da aggiungere che di questo passo la frase che caratterizza Draghi non sarà più il “whatever it takes”, “qualunque cosa necessaria”, sintesi e simbolo dell’intervento da lui effettuato nella sua qualità di presidente BCE per evitare la rottura dell’euro.
Sarà più appropriata una frase ancora più breve, due parole invece di tre: “then, what ?”, “e allora ?”. Però pronunciata non da lui ma da chi lo sta ad ascoltare.
L’Unione Europea è incompleta perché la volontà politica di completarla non esiste. Non in tutti i suoi 27 Stati membri, non in tutti i 19 aderenti all’eurozona, e in particolare non in Germania.
Si possono mettere in atto tutti gli “sforzi politici” dell’universo, per un periodo lungo a piacere (di Eurobond del resto si parla quantomeno dal Rapporto Delors del 1993) ma l’unione fiscale, i trasferimenti e la condivisione del debito sono totalmente inaccettabili per la Germania. Era così trent’anni fa e potete scommettere che sarà così ancora tra trent’anni.
Il punto non è discutere se i tedeschi abbiano ragione o torto. La loro posizione è che la UE è uno strumento per perseguire i propri interessi nazionali. Trasformarla in una vera unione economica e politica, che vuol dire trasferire molti più soldi ad altri Stati e garantire il debito altrui, semplicemente non rientra in questi interessi.
Il paradosso è che un vero europeista dovrebbe essere in prima fila nel sostenere il progetto CCF. Dando agli Stati lo strumento necessario per stabilizzare e rilanciare le proprie economie e per ridurre gradualmente ma stabilmente nel tempo il rapporto debito pubblico / PIL, i CCF risolvono le disfunzioni dell’Eurosistema senza chiedere nulla alla Germania. Né trasferimenti né unione fiscale né condivisione del debito.
Un Eurosistema che risolve i suoi problemi strutturali e cessa di essere una perenne mina innescata, a costante rischio di deflagrazione, potrebbe anche creare le condizioni minime per creare una vera unione politica federale. Dato che i tedeschi non vedono assolutamente nessuna ragione per condividere i guai altrui, forse modificheranno la loro posizione riguardo all’unione politica – ma ad una condizione. Che la condivisione dei problemi finanziari non venga più richiesta, in quanto ogni Stato sarà nuovamente dotato dello strumento monetario nazionale necessario per gestirli in autonomia, e per superarli senza sostegni esterni.
Nel frattempo sulla
testa di Draghi resta sospesa quella breve domanda di due parole, che magari
nessuno degli ossequiosi giornalisti presenti alle sue conferenze stampa gli
porrà, ma il resto del paese nonché i commentatori economici internazionali sì:
“then, what ?”.