In questi ultimi
tempi, si sta parlando parecchio (e anch’io ho scritto un paio di post al
riguardo, vedi qui e qui) della politica giapponese di contenimento dei tassi d’interesse
sui titoli di Stato (il cosiddetto “Yield Curve Control”).
Spicca per il
suo attivismo comunicativo sul tema Robin Brooks, capo economista dell’International
Institute of Finance (una sorta di associazione di categoria, con finalità lobbystiche,
delle grandi istituzioni bancarie e finanziarie).
Brooks può
essere definito un “fondamentalista del mercato”. In pratica, ritiene che i
mercati siano il miglior giudice del valore di una determinata attività
finanziaria, e che i tentativi degli Stati e delle banche centrali di
condizionarne l’evoluzione siano, nel tempo, insostenibili.
Di conseguenza,
con periodicità quasi quotidiana ci fa sapere via twitter che la Bank of Japan
dovrà presto cessare la sua politica e in particolare lasciare che i rendimenti
dei titoli decennali salgano molto oltre l’attuale tasso soglia dello 0,5% (che
nel dicembre scorso in realtà ha già subito un piccolo aggiustamento rispetto
al precedente 0,25%).
L’indicazione
che questo stia per avvenire sarebbe, secondo Brooks, il fatto che per sostenere
quel livello la BOJ sta acquistando enormi quantità di titoli.
Viene
immediatamente da obiettare che la BOJ acquista titoli in yen emettendo yen. E
che la macchina da stampa, o i bit di computer, sono pienamente operativi,
senza limiti fisici.
Un po’ di tempo
fa, a questa obiezione veniva risposto che questo stava comportando una “terrificante”
svalutazione dello yen sui mercati valutari, il che avrebbe innescato
inflazione nel paese del Sol Levante.
Dopodiché,
curiosamente, il cambio dello yen ha invece cominciato a rafforzarsi. Da un minimo
di 152 contro dollaro a ottobre 2022 è risalito a 128. E l’inflazione
giapponese, pur essendo un poco aumentata, è su livelli molto inferiori (3,7% a
dicembre 2022) rispetto al quasi 7% USA e al 10% abbondante eurozonico. Analoga differenza riguardo all’inflazione core (quella
calcolata escludendo energia ed alimentari), ferma a zero contro il 4%-5% nel
resto del mondo economicamente sviluppato.
La ragione per
cui la BOJ sia costretta a mutare politica in preda a chissà quale panico, in
effetti, non si vede.
Brooks paragona,
tra le altre cose, il peg giapponese
sui tassi a un peg sul cambio. E cita
il caso della Svizzera, che nell’agosto 2011 ha imposto un rapporto di 1,20 per
il franco contro euro ma nel gennaio 2015 è stata (a suo dire) “costretta” ad
abbandonarlo. Attualmente il franco svizzero oscilla intorno alla parità con l’euro.
L’equivoco sta
in quel verbo tra virgolette: “costretta”.
La Svizzera
poteva mantenere il peg quanto gli
pareva. Indebolire un cambio rispetto ai precedenti livelli di mercato è sempre
possibile. Basta emettere la tua moneta e usarla per comprare l’altra, a un
cambio inferiore rispetto a quello in precedenza predominante.
Se gli svizzeri
a un certo punto hanno rimosso il peg,
non è perché ci sono stati “costretti”. Il franco svizzero, date le
caratteristiche del paese (alta produttività e bassa inflazione) tende a
rafforzarsi nel tempo. E questo non dispiace alle autorità, purché la
rivalutazione avvenga con gradualità, senza strappi.
Complice l’eurocrisi,
il rafforzamento del franco nel 2011 era stato troppo rapido, e questo creava problemi
alle aziende locali. Si è quindi deciso di ridimensionare la forza del franco,
ma era evidente che la cosa sarebbe durata qualche anno, non all’infinito. Un
euro / franco alla pari creava difficoltà agli svizzeri nel 2011, mentre è
accettabile e anzi opportuno ad anni di distanza.
Gli svizzeri, in
altri termini, hanno rimosso il peg
quando l’hanno ritenuto non più utile. Non perché siano stati forzati da chissà
che cosa.
Allo stesso
modo, può darsi che prima o poi i giapponesi modifichino la loro politica di
(non) remunerazione dei titoli di Stato. Ma siccome emettono in yen, nessuna
levata d’ingegno dei mercati finanziari li forzerà a farlo. La faranno se e
quando parrà loro utile.