mercoledì 26 luglio 2017

Pagamenti in Nuove Lire in caso di break-up


Uedro è uno dei miei interlocutori twitter, tra i più attivi nel discutere temi connessi sia all’evoluzione del progetto CCF / Moneta Fiscale, che ai problemi dell’Eurosistema in generale.

E’ un interlocutore critico, con il quale mi trovo spesso in disaccordo, ma le sue sono critiche costruttive e sicuramente molto utili per mettere a fuoco vari temi, nonché per rifinire e migliorare il progetto CCF.

Ultimamente si discuteva di un altro argomento, collegato alle implicazioni non dell’introduzione dei CCF, bensì dell’Italexit via break-up: l’Italia introduce direttamente la Nuova Lira e ridenomina stipendi, contratti, depositi bancari e qualsiasi altro rapporto contrattuale (con implicazioni monetarie) di diritto italiano.

Uedro teme che si verificherebbe un forte impatto inflazionistico. L’origine del problema, nella sua opinione, è che il break-up dovrebbe avvenire in maniera repentina, con un decreto legge approvato durante un weekend. Non ci sarebbe quindi tempo per predisporre in anticipo monete e banconote in Nuove Lire.

Di conseguenza, temporaneamente si userebbero ancora monete e banconote in euro, quanto meno per il tempo necessario a introdurre contante in Nuove Lire (presumibilmente, qualche mese).

L’opinione (o il timore) di Uedro è che gli esercizi commerciali lascerebbero i prezzi invariati, e che i pagamenti continuerebbero a essere effettuati in euro (perché il contante in Nuove Lire inizialmente non ci sarebbe). E se la Nuova Lira si svalutasse (come previsto) assestandosi per esempio a un cambio di 1,30 contro euro, si verificherebbe un immediato, forte impatto sull’inflazione (misurata in Nuove Lire).

Ritengo che questo problema sia minimo se non inesistente, per il semplice motivo che la stragrande maggioranza delle transazioni economiche (in valore) avvengono oggi via assegno, bonifico o carta elettronica (carta di credito, carta di debito, o bancomat - usato per pagare, non per prelevare contante).

I pagamenti in contante sono stimati nel 5% circa in controvalore, e questa percentuale cadrebbe ulteriormente se un negoziante pretendesse di far pagare in euro il prezzo di listino.

Personalmente, oggi ho una soglia all’incirca di venti euro. Sotto quel livello di solito pago in contanti. Sopra, via carta elettronica.

Ma nel caso in cui un esercizio commerciale non mi applicasse nessuno sconto per un pagamento pari a 10 effettuato con una banconota in euro, estrarrei una carta elettronica anche in quel caso, e mi farei addebitare 10 Nuove Lire sul mio conto corrente. Perché mai dovrei accettare di pagare 10 euro, equivalenti a 13 Nuove Lire ?

E l’esercizio commerciale sarebbe tenuto ad accettare le Nuove Lire (con pagamento elettronico), perché il decreto legge che regola l’ItaEuroBreakUp conferirebbe alle Nuove Lire potere liberatorio su tutte le obbligazioni monetarie in lire regolate da rapporti giuridici di diritto italiano.

Altrimenti detto, l’esercizio commerciale è obbligato ad accettare indifferentemente 10 Nuove Lire addebitate via carta elettronica, o 10 euro pagati in banconote o monete metalliche, per un medesimo prodotto proposto in vendita al prezzo di 10.

Il risultato è che le banconote e le monete metalliche in euro verrebbero tesaurizzate (per essere convertite in Nuove Lire), ma pressoché nessuno le userebbe per effettuare acquisti (a meno che l’esercizio commerciale non le accetti al cambio di 1,30).

Magari si faranno eccezioni per transazioni di importo veramente modesto. Io il caffè al bar accetterei di pagarlo con una moneta da un euro, senza estrarre la carta elettronica (e senza pretendere lo sconto del 30% sull’importo facciale). Ma non andrei oltre quello, e lo stesso farebbe la grande maggioranza della popolazione.

Il break-up è un processo operativamente e politicamente complesso, ed è per questo che ormai da cinque anni mi sono attivato per elaborare e promuovere il progetto CCF / Moneta Fiscale. Ma i pagamenti nel periodo interinale, ante introduzione del contante in Nuove Lire, non sono “il” problema.


lunedì 24 luglio 2017

Regole UE: l'imprudenza della "prudenza"


L’obiezione forse più ricorrente, in merito alle proposte di soluzione della crisi economica mediante politiche espansive della domanda, si riassume in ultima analisi come segue.

Il mondo è complicato e la certezza in merito agli effetti sul PIL di un’azione espansiva (via CCF, “rottamazione del Fiscal Compact” o altro) non si può raggiungerla. “Quindi” occorre essere “prudenti” e non fare nessuna ipotesi. Detto altrimenti, che effetto avrà l’immissione di potere d’acquisto nell’economia ? non si sa con sicurezza assoluta, per cui stimiamo zero.

Corollario: se riteniamo (per motivi già di per sé altamente discutibili, ma questo è un altro discorso) che il deficit e il debito pubblico (in rapporto al PIL) vadano ridotti, facciamo austerità. Tagli e tasse. Effetti indotti sul PIL ? li abbiamo stimati a zero, per cui siamo “per definizione” sulla strada giusta. L’austerità ridurrà il deficit, missione compiuta. E qualsiasi evoluzione dell’economia reale, sempre “per definizione”, è da ricondurre ad altre motivazioni.

Ovviamente non è così, e ci vuole poco a capirlo. Togliere potere d’acquisto dal sistema economico ha un effetto di rallentamento della domanda. Il che può essere opportuno se l’economia è surriscaldata e ci sono tensioni inflazionistiche. Ma è catastrofico se l’economia sta viaggiando molto al di sotto del suo potenziale e le risorse produttive (persone e impianti) sono in larga misura inattive o sottoutilizzate.

Le ricette UE “prescritte” a vari paesi dell’Eurozona, soprattutto tra il 2011 e il 2013, si sono invece basate sul presupposto di “effetti indotti zero”. I risultati sono stati deleteri, particolarmente nei paesi (Grecia e, purtroppo per noi, Italia) dove sono state adottate più scrupolosamente.

Il tentativo di ridurre il deficit pubblico via austerità ha prodotto effetti minimi, nell’ordine di decimali, appunto perché frenare la domanda ha contratto il PIL e il gettito fiscale. Mentre i danni in termini di fallimenti aziendali, crescita della disoccupazione, incremento della povertà e del disagio sociale sono stati paurosi. E il debito pubblico in rapporto al PIL è aumentato invece di scendere.

Con un ulteriore effetto indotto: è andato in crisi il sistema bancario italiano a causa dell’esplosione delle insolvenze. Sistema bancario che tutto sommato era uscito dalla crisi finanziaria internazionale del 2008 con molti meno danni rispetto a tanti altri, in quanto le banche italiane non si erano cimentate (almeno, non ai livelli di molti altri paesi) con politiche azzardate di finanziamento della speculazione immobiliare o di utilizzo aggressivo di strumenti derivati.

Le regole UE e le politiche che ne derivano vengono giustificate con l’esigenza di essere “prudenti”. E’ invece difficile concepire qualcosa di più imprudente: adottare una linea di azione, ignorare completamente la possibilità che ne nascano effetti controproducenti, e continuare ostinatamente, ad anni di distanza, a negarne l’evidenza. Evidenza che è, al contrario, sotto gli occhi di tutti.

giovedì 20 luglio 2017

E se arriva una nuova crisi mondiale ?


Una delle obiezioni che ho trovato più curiose, tra quelle formulate in merito al progetto CCF / Moneta Fiscale  (e, in effetti, in merito a qualsiasi proposta di azione espansiva sulla domanda, compresa la “rottamazione del Fiscal Compact” recentemente ipotizzata da Renzi) si riassume come segue.

Le politiche espansive sarebbero “rischiose” perché nei prossimi anni si potrebbe verificare una recessione mondiale. Espandere la domanda incrementando il debito – o anche emettendo CCF, che non sono debito ma danno diritto a sconti fiscali futuri – potrebbe creare problemi in quanto in questo caso il maggior gettito fiscale compensativo non si genererebbe nella misura prevista.

In realtà, azioni espansive effettuate mediante emissione di CCF / Moneta Fiscale, corredate da clausole di salvaguardie non procicliche, implicano ampi margini di sicurezza anche nel caso in cui nei prossimi anni la congiuntura internazionale sia meno favorevole del previsto.

Detto ciò, è anche importante tenere a mente che una recessione mondiale può sicuramente verificarsi nei prossimi anni: ma questo vale sia che si parta con il progetto CCF / Moneta Fiscale, sia che non lo si faccia.

Ora, adottando il progetto, l’economia italiana può accelerare il suo tasso di crescita al 3-4% per i prossimi quattro-cinque anni. Se si continua con il “galleggiamento” attuale, rimarremo con gli uno virgola: in altri termini, con gli attuali, asfittici tassi di crescita.

E se una forte recessione mondiale abbassa di colpo il tasso di crescita (per esempio) di due punti, cos’è meglio – scendere dal 3%+ all’1%+ (rimanendo comunque con incrementi di PIL reale) o ritornare, dall’uno virgola, a variazioni negative ?

La domanda ovviamente è retorica. Proprio perché una recessione può sempre verificarsi, il meglio è affrontarla con un’economia che viaggia alla massima velocità possibile – e che quindi, anche in uno scenario sfavorevole, rallenta ma non si blocca.

Assolutamente da evitare è invece una situazione in cui si continua ad arrancare a bassa velocità, non solo perché questo implica di NON ridurre gli attuali, inaccettabili livelli di disoccupazione, sottoccupazione, disagio sociale e povertà, ma anche perché una frenata prodotta da eventi al di fuori del nostro controllo manderebbe la macchina dell’economia in testacoda.

Il fatto che una recessione possa verificarsi è un motivo in più per non indugiare ad adottare politiche di espansione della domanda: non una ragione per astenersene.

martedì 18 luglio 2017

La schiuma sulla cresta dell'onda


I movimenti speculativi sui cambi hanno controvalori enormemente superiori a quelli effettuati per esigenze commerciali: 50 a 1, o qualcosa del genere. Per ogni euro o dollaro compravenduto per acquistare beni o servizi esteri, svariate decine sono movimentate nell’ambito di transazioni puramente finanziarie.

Constatando questo dato di fatto, ogni tanto qualcuno arriva alla conclusione che non è possibile affermare nulla in merito a quello che sarebbe un corretto cambio di equilibrio. Non solo tra le valute esistenti oggi – euro e dollaro, per esempio – ma a maggior ragione se l’euro si spaccasse e venissero introdotte monete che oggi non esistono: la Nuova Lira, il Nuovo Marco eccetera.

Che senso ha (si dice) preoccuparsi dei fondamentali economici, quando la stragrande maggioranza delle transazioni in realtà prescinde dai fondamentali, ed è finalizzata solo a generare utili da trading, a breve o brevissima scadenza ?

In realtà le transazioni con finalità puramente speculative non si verificano solo sul mercato dei cambi. Prendete ad esempio il mercato azionario. Si può investire in singoli titoli azionari, in fondi, in indici, eccetera, perché si ha un’opinione in merito alle tendenze di lungo termine di mercati, settori e aziende. Ma in quantità e controvalori, il trading speculativo muove volumi di transazioni molto superiori.

Allora l’analisi fondamentale dei valori sottostanti è tutta da buttare a mare ?

No, niente affatto. Le transazioni speculative sono quelle che John Maynard Keynes chiamava “la schiuma sulla cresta dell’onda”. Se si osservano i mercati finanziari giorno per giorno o settimana per settimana, si vede solo il ribollire della schiuma. Ma esaminando le tendenze di medio e lungo periodo, si percepisce la forma e la direzione dell’onda.

Prendiamo un mercato azionario ampio e liquido. Wall Street, ad esempio. Nessuno è in grado di prevedere con una affidabilità superiore a quella prodotta dal lancio di una moneta la direzione del mercato su un periodo di una settimana, un mese o un anno. Ma più si allunga il periodo sotto osservazione, e più i rendimenti del mercato si allineano alle tendenze di lungo termine.

Un testo chiave per comprendere queste dinamiche è “Stocks for the Long Run” di Jeremy Siegel, che esaminando le tendenze degli indici per un periodo di oltre duecento anni ha constatato che il rendimento reale (al netto dell’inflazione) dell’investimento azionario, in qualsiasi periodo storico, tende a convergere intorno al 6,5% - 7%.

E questo sovrarendimento (rispetto all’inflazione) non nasce dal nulla. E’ il premio che l’investitore azionario richiede per giustificare di prendere posizione su un mercato che, appunto, nel breve e nel medio termine fluttua, e spesso richiede tempo e pazienza perché una corretta decisione di acquisto dia i risultati attesi.

L’implicazione è che in un singolo periodo di uno, due, o anche dieci anni non si ottiene esattamente “quel” rendimento. La curva dei valori azionari oscilla intorno al trend. Se ne può discostare per periodi anche lunghi – le bolle speculative esistono e possono durare vari anni. Ma invariabilmente finiscono.

L’oscillazione intorno al trend di lungo periodo è denominata “mean reversion”, inversione verso la media, e fa sì a che a un periodo di sopravvalutazione ne segua uno di sottovalutazione, e viceversa. Ma il trend esiste, e può essere stimato in modo affidabile.

Per quanto i riguarda i cambi tra valute, anch’essi hanno tendenze di lungo termine governate da fattori oggettivi: inflazione, competitività, saldi commerciali. Riguardo a questi ultimi, va chiarito che l’equilibrio di lungo termine non è necessariamente tale da portare tutti i paesi a una situazione di saldo zero (né surplus né deficit). Esistono altri fattori quali, ad esempio, la demografia: se in Germania, Giappone, Italia la popolazione è a crescita zero e negli USA invece aumenta, è normale che, anche a parità di sviluppo del PIL procapite, l’economia USA cresca più velocemente e richieda investimenti superiori al risparmio interno. Il che implica deficit commerciali.

Un ripassino di contabilità nazionale può magari essere utile per chiarire quest’ultimo punto:

Reddito nazionale = consumi + investimenti + export – import.

QUINDI: Reddito nazionale – consumi = investimenti + export – import.

MA: Reddito nazionale – consumi = risparmio.

PER CUI: Risparmio = investimenti + export – import.

E: Risparmio – investimenti = export – import.

Da cui, se gli investimenti superano il risparmio, l’import DEVE superare l’export (quindi i saldi commerciali devono essere in deficit). E viceversa.

Detto questo, esistono livelli di surplus e deficit giustificati, e livelli eccessivi che nascono da distorsioni. Il surplus commerciale tedesco al 9% del PIL nasce dal fatto che l’euro è una moneta sottovalutata per i fondamentali dell’economia tedesca. Difficile metterlo in discussione. E questa distorsione, in un modo o nell’altro, prima o poi verrà meno.

Ma tornando all’onda e alla schiuma, il punto chiave è che le transazioni speculative saranno anche 50:1 rispetto a quelle motivate da logiche economiche: ma i loro impatti tendono a elidersi e a compensarsi. In buona parte già del breve termine, e per intero nel medio-lungo.

A un eccesso segue una correzione. Sotto il ribollire della schiuma c’è la forma dell’onda. E quando si ragiona in un’ottica pluriennale, è l’onda che interessa, non i flussi di breve termine.


venerdì 14 luglio 2017

Renzi rottama il Fiscal Compact ?

Un lettore del blog mi chiede un’opinione in merito alle dichiarazioni di Matteo Renzi, che parla di rinegoziare il Fiscal Compact, anzi in buona sostanza di abrogarlo tornando ai parametri originari del trattato di Maastricht. Con particolare riferimento al vincolo del 3% per il rapporto deficit pubblico / PIL.

Rispondo volentieri. Sono molto scettico, e non perché l’obiettivo non sarebbe, in sé, adeguato a risolvere parecchi dei problemi dell’economia italiana.

Nel 2018, il ministro dell’economia Padoan ha proposto (pare con buone possibilità che l’accordo venga raggiunto) alla Commissione UE una discesa del deficit / PIL non dal 2,1% (previsione 2017) all’1,2% (come da accordi precedenti), ma all’1,7%. Quindi si scende un po’ di meno, ma comunque si scende.

Per Renzi occorre invece tornare “appena sotto il 3%”, quindi al 2,9%, per cinque anni. La differenza per il solo primo anno sarebbero circa 30 miliardi di deficit in più, che corrisponde a molte più risorse a disposizione per rilanciare investimenti e spesa sociale, e per ridurre le tasse.

Una manovra ben concepita (in particolare destinando in parte l’intervento alla riduzione del cuneo fiscale, consentendo quindi alle aziende di recuperare competitività nella misura necessaria a non peggiorare i saldi commerciali esteri) darebbe un grosso impulso a PIL e occupazione, e rappresenterebbe finalmente un punto di svolta per l’economia italiana. Uscendo dalla asfittica attuale “ripresa” a ritmi dello zero virgola o dell’uno virgola, e salendo probabilmente oltre il 3% di crescita reale per alcuni anni. Quanto è necessario per colmare il terrificante buco di domanda e occupazione che si è prodotto dal 2007 in poi – e che i ritmi attuali di sviluppo sono del tutto insufficienti a recuperare.

Tutto bene quindi ? no, perché la proposta Renzi non dà affidabilità sulla sua effettiva possibilità di applicazione.

Per iniziare, il 2018 non si tocca. Il governo Gentiloni non è intenzionato a presentare la proposta in sede UE. Nella migliore delle ipotesi tutto slitta al 2019.

Ma a parte questo ci sono vari presupposti di dubbia realizzazione. Che Renzi vinca le elezioni. Che ritorni a essere il capo del governo. Che presenti la proposta in sede UE. Che riesca a farsela accettare.

Le mie perplessità nascono dal fatto che Renzi è stato capo del governo per due anni e mezzo abbondanti. La necessità di una modifica di impostazione nelle linee di politica economica era evidente fin dal giorno del suo insediamento (in realtà da molto prima, ma questo è un altro discorso…).

Che fiducia si può avere in un Renzi che ottiene nel 2018-2019 quanto non ha conseguito nel 2014-2016 ?

Alla luce soprattutto del fatto che è stata portata all’attenzione del governo di cui Renzi era a capo, fin dall’estate 2015, la proposta CCF / Moneta Fiscale ? Risposta degli organi tecnici con cui io (insieme ad altri) ho avuto il piacere di interloquire: si può fare. Restiamo in attesa di “input politici”.

Che non sono mai arrivati.

Per intenderci, la proposta CCF / Moneta Fiscale ottiene tutti i risultati a cui punta Renzi, senza necessità di modificare alcun trattato e senza bisogno di rinegoziare nulla con nessuno. Né a Bruxelles né a Francoforte.

E’ possibilissimo che mi sfugga qualcosa. E se Renzi ritorna capo del governo, farò senz’altro il tifo perché la rottamazione del Fiscal Compact avvenga. Meglio tardi che mai.

Ma alla luce di quanto sopra, per adesso mi pare che Renzi stia solo facendo campagna elettorale. Il che beninteso è legittimo e anche normale. Ma mi lascia decisamente tiepido.

La vita è strana, e le strade della politica sono tortuose. Ma non chiedetemi di trattenere il fiato in attesa che la stessa persona che non ha intrapreso un percorso nel 2015 arrivi allo stesso obiettivo, tramite una via molto più incerta, nel 2019.


giovedì 13 luglio 2017

BCE, CCF e titoli non soggetti a default

Si è parlato parecchio, nelle ultime settimane, di un report predisposto da due collaboratori della BCE, in particolare con riferimento al seguente passaggio:

“In un’economia che ha una propria moneta a corso forzoso, l’autorità monetaria e quella fiscale possono garantire che il debito pubblico denominato in quella valuta nazionale non sia soggetto a default, cioè che i titoli pubblici che giungono a maturazione siano convertiti in valuta a parità. Con una disposizione di questo tipo la politica fiscale può concentrarsi sulla stabilizzazione del ciclo economico anche quando la politica monetaria sui tassi raggiunge il livello nominale minimo. Nonostante ciò le autorità fiscali dei paesi dell’area euro hanno rinunciato alla possibilità di emettere titoli non soggetti a default. Di conseguenza una stabilizzazione efficace del ciclo macroeconomico è diventata un obiettivo difficile da raggiungere”.

Queste pochi frasi hanno implicazioni serissime. Si sta affermando (in un report predisposto da ricercatori che collaborano con la BCE !) che il sistema euro ha un problema fondamentale: l’impossibilità per gli stati membri di finanziarsi, e quindi anche di effettuare le necessarie manovre di stabilizzazione in presenza di shock esterni (quali la crisi finanziaria internazionale del 2008, e le sue conseguenze) emettendo titoli non soggetti a rischio d’insolvenza.

Con ogni probabilità, il report è stato predisposto per supportare una riforma dell’Eurosistema che preveda di rimediare a questa gravissima lacuna emettendo titoli garantiti dalla BCE, e modificando i trattati in modo da poterli utilizzare per queste operazioni di “stabilizzazione” (che in buona sostanza significa manovre espansive  - più spesa pubblica e/o minori tasse - nelle situazioni in cui la domanda è troppo debole).

Il problema è che non esiste attualmente, all’interno dell’Eurozona, il necessario consenso unanime per modificare i trattati. In parole più semplici, la Germania si oppone, e non è prevedibile che modifichi la sua posizione, quantomeno ancora per parecchi anni.

I Certificati di Credito Fiscale sono esattamente lo strumento che, senza richiedere modifiche dei trattati, risolve il problema. Li possono emettere gli stati membri e non sono soggetti a default, in quanto danno diritto a sconti su pagamenti di imposte future, ma non devono essere rimborsati in euro. Nessuno stato emittente potrà quindi mai essere costretto al default su un CCF – esattamente come non è possibile costringere al default (su un titolo di debito pubblico) lo stato che emette la moneta in cui quel titolo è rimborsabile.

I CCF, in sintesi, risolvono il problema discusso dai ricercatori BCE nel loro report.


martedì 11 luglio 2017

CCF e Moneta Fiscale, chiarimenti sui dubbi di Wolfgang Munchau


Il 3 luglio scorso si è tenuto alla Camera dei Deputati un convegno organizzato dal M5S, dal titolo di “The Italian Public Debt in the Eurozone”.

Partecipava anche Wolfgang Munchau, editorialista del Financial Times e responsabile del sito “Eurointelligence”, dedicato principalmente alla UE e all’Eurozona.

Qui di seguito alcuni suoi commenti:

“E’ stato dato molto spazio al dibattito sui Certificati di Credito Fiscale – dei buoni emessi dallo Stato e che possono essere utilizzati per il pagamento delle imposte. Ricordiamo che Yanis Varoufakis ha lavorato su uno schema simile per la Grecia e uno dei suoi consulenti di allora ha fornito alcuni dettagli su come tale sistema possa essere messo in funzione, e sul perché in Grecia non ha funzionato. La risposta è stata che richiede un livello straordinario di preparazione tecnica e logistica, che è al di fuori della portata delle competenze realmente disponibili per la maggior parte dei governi.

Conferenze come queste non raggiungono mai un consenso, ma sollevano domande. Una delle domande sui Certificati di Credito Fiscale è se siano sostenibili o se siano solamente uno strumento transitorio. E’ solo uno strumento attraverso il quale un paese effettua la transizione verso una nuova valuta, o semplicemente una misura di liquidità a breve termine, o può funzionare come una forma di moneta complementare ?”

Vale la pena di rispondere punto per punto.

Quanto alla “preparazione tecnica e logistica”, il consulente (ai tempi) di Varoufakis presente al convegno ha citato “tempi e difficoltà operative” relative alla stampa e alla distribuzione di nuove banconote. Ora, in realtà il progetto Moneta Fiscale NON prevede l’emissione fisica di banconote e monete, ma l’attivazione di due possibili metodi alternativi di produzione e distribuzione dello strumento monetario.

Il primo è una carta elettronica, distribuita alla popolazione, su cui la Moneta Fiscale viene accreditata, e che può essere utilizzata per pagamenti analogamente a una carta di credito o a un bancomat.

Il secondo – i Certificati di Credito Fiscale propriamente detti – è un titolo emesso dallo Stato e assegnato (senza contropartita) a una pluralità di soggetti: lavoratori dipendenti a integrazione delle loro retribuzioni; aziende a riduzione del cuneo fiscale; pensionati e categorie disagiate per interventi di spesa sociale; enti pubblici locali per riavviare opere di pubblica utilità sul territorio; eccetera.

I CCF nella forma “titolo” possono circolare sulle stesse piattaforme elettroniche di negoziazione e scambio oggi utilizzate per i titoli di Stato – BOT, BTP, CCT, CTZ eccetera – che sono ampiamente diffuse e rodate. E il soggetto che li riceve deve semplicemente disporre (o aprirlo se non ne ha uno) di un “conto deposito titoli” presso la sua banca.

I CCF sono a tutti gli effetti un titolo di Stato: la differenza rispetto agli altri è che non si tratta di un titolo di debito (non è soggetto a rimborso in euro, ma deriva il suo valore dall’utilizzabilità per beneficiare dei sconti d’imposta).

Non si parla quindi, in nessuno dei due casi, di produrre e distribuire banconote. La Moneta Fiscale via supporto elettronico richiede probabilmente non più di qualche mese di lavoro per essere predisposta. Il CCF è ancora più rapido: nuove categorie o scadenze di titoli di Stato vengono introdotte ogni mese. I tempi tecnici necessari all’attuazione di un provvedimento normativo che introduce i CCF si misurano in giorni, o al massimo in poche settimane.

In altri termini, nulla che non sia ampiamente alla portata delle competenze tecnico-logistiche dello Stato italiano.

Quanto agli altri punti:

I CCF sono senz’altro una riforma che può avere natura permanente e non transitoria. Possono essere una transizione che porta all’introduzione di una moneta nazionale e all’uscita (di fatto, e poi anche formalmente) dall’eurosistema, ma non c’è necessità che le cose si evolvano in questo modo. Se accadrà, sarà in conseguenza di decisioni politiche, non di fattori tecnici.

Possono quindi costituire una moneta complementare utilizzata insieme all’euro (e, peraltro, denominata in euro e ad esso agganciata in quanto dà diritto a sconti d’imposta su base 1:1 – posso indifferentemente pagare tasse in euro, o ridurle di pari importo presentando un dato ammontare facciale di CCF).

E non sono una misura di liquidità a breve termine in quanto il programma di emissione, e il conseguente rilancio dell’economia italiana (o di qualsiasi altro paese che li introduca), si svilupperà nel corso di alcuni anni (vedi pagina 11, qui).

Tuttavia, non è escluso che un’evoluzione economica favorevole renda possibile ridurre, tra alcuni anni, l’ammontare di CCF in circolazione, e magari addirittura azzerarli. Ma i CCF resteranno uno strumento disponibile e riutilizzabile al presentarsi di necessità future.

In altri termini, un sistema euro + CCF è sostenibile nel tempo, e il suo utilizzo è modulabile in funzione delle necessità. Può essere quindi l’architrave di un sistema economico-monetario permanente.


venerdì 7 luglio 2017

Per migliorare ulteriormente l’accettazione dei CCF

Un suggerimento di Giovanni Albin merita senz’altro di essere approfondito.

Il progetto CCF / Moneta Fiscale prevede (tra le altre cose) che una parte delle assegnazioni di CCF vada alle imprese, in funzione dei costi di lavoro da esse sostenuti.

In pratica, se un dipendente costa mensilmente 2.500 euro (come totale di retribuzione netta, contributi sociali e imposte pagate dall’azienda per conto del dipendente – via trattenuta alla fonte), non appena il progetto parte l’azienda riceve, per esempio, CCF per un valore facciale poniamo di 150 (sempre ogni mese).

In questo modo il costo del lavoro totale dell’azienda diminuisce (senza nessuna penalizzazione per il dipendente, che anzi è anche lui destinatario di assegnazioni di CCF, e quindi migliora il suo reddito effettivo).

Questo migliora immediatamente la competitività delle aziende italiane e impedisce che il maggior potere d’acquisto messo in circolazione via CCF / MF incrementi le importazioni nette e peggiori, quindi, i saldi commerciali esteri. Ci saranno, infatti, più importazioni, ma anche maggior export e anche un effetto di sostituzione di parte dell’import con produzioni domestiche.

Ora, per dare ancora più fiducia e tranquillità sul fatto che i CCF / MF vengano accettati come “equivalenti monetari”, è possibile prevedere che le aziende, nel momento in cui ricevono CCF, assumano anche l’impegno di accettarli in parziale pagamento di quanto loro dovuto.

A titolo di esempio, un’azienda fattura 100 milioni all’anno. Sostiene costi di lavoro lordi annui per 25 milioni di euro. Riceve CCF per un valore facciale di 1,5 milioni (sempre ogni anno).

Il provvedimento legislativo che introdurrà i CCF potrà prevedere, per le aziende a cui vengono assegnati, l’obbligo di accettare CCF in parziale pagamento di quanto a esse dovuto per la vendita dei propri beni o servizi.

Per esempio, fino a un massimo dell’1% di ogni pagamento (ad aziende assegnatarie di CCF) potrà essere effettuato in CCF: quindi un pagamento di 10.000 euro potrà essere saldato con 9.900 euro e 100 CCF.

L’azienda saprà a questo punto che i CCF ricevuti hanno non una ma due forme di utilizzo certo e garantito: gli sconti fiscali futuri ma anche l’impiego per saldare pagamenti nei confronti di altre aziende (i suoi fornitori italiani).

I parametri effettivi richiedono una riflessione per quanto attiene in particolare alla quota massima di pagamenti effettuabili in CCF. Il punto, comunque, è che un semplice accorgimento di questo genere rende ancora più certa l’accettazione dei CCF, e – forse ancora più importante – agevola e velocizza la circolazione dei CCF come strumento di pagamento “euro-equivalente” all’interno del sistema economico.


mercoledì 5 luglio 2017

Ti credi meglio di Milton Friedman ?


“Accusa”, se vogliamo chiamarla così, che mi è stata rivolta da alcuni interlocutori durante una delle consuete schermaglie su Twitter.

Milton Friedman diceva che l’”inflazione è sempre un fenomeno monetario”. Ma l’inflazione la crea l’eccesso di domanda rivolta all’acquisto di beni e servizi reali – eccesso, s’intende, rispetto alla capacità produttiva del sistema economico. Non l'emissione di moneta in se stessa.

E questo è esattamente il motivo per cui il QE – stampare moneta per comprare titoli di Stato o altre attività finanziarie – non ha prodotto alcuna apprezzabile ripresa né dell’inflazione né dei livelli di attività economica. Perché mette potere d’acquisto a disposizione del circuito finanziario, non dell’economia reale. Com’era prevedibile e come infatti è stato previsto.

Friedman la pensava diversamente. Almeno così risulta, tra le altre cose, da quanto riferito da Paul Krugman: non sarebbe male risalire alle citazioni originali, anche per contestualizzare e comprendere a quali situazioni Friedman facesse in effetti riferimento.

Ora, Friedman è stato un influente ricercatore. Tra l’altro (come i miei antagonisti da social network, di solito pro-euro, ignorano, o dimenticano) aveva previsto le disfunzionalità dell'euro. E (anche qui, al contrario dei miei antagonisti da social network) capiva perfettamente che descrivere il debito pubblico come “un peso per le generazioni future” è una fallacia logica.

Ma sul QE che stimola inflazione e attività economica a quanto pare si è sbagliato. Stupisce ? non dovrebbe più di tanto. Scienziati insigni e influenti quanto o più di lui sono stati nel tempo smentiti.

Se credo all’eliocentrismo e non alla teoria geocentrica, non è perché mi ritengo un astronomo migliore di Tolomeo. Ci ha pensato Copernico, a beneficio di tutti.

Se credo alla selezione evolutiva via riproduzione degli organismi meglio adattati all’ambiente, e non alla trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti, non è perché mi ritengo un naturalista migliore di Lamarck. Ci ha pensato Darwin, a beneficio di tutti.

Ed è la realtà dei fatti a spiegarci, oggi, che la crisi economica è una crisi di domanda, che la soluzione è mettere più potere d’acquisto in mano a consumatori e aziende, e che non farlo per paura dell’inflazione è come morire di sete nel deserto di fianco a un’oasi per paura di ubriacarsi.




lunedì 3 luglio 2017

Banche, le assurde non-soluzioni

Domenica scorsa (25 giugno) circolavano i primi commenti sul piano di intervento che ha portato Banca Intesa ad acquistare i rami d’azienda “buoni” di Veneto Banca e di Banca Popolare di Vicenza (con una cospicua sovvenzione pubblica e lasciando allo Stato italiano i crediti deteriorati).

Commentando su Twitter un articolo di Isabella Buffacchi del Sole24Ore, ho affermato (tra le altre cose) che quanto è avvenuto è la conseguenza di una regolamentazione assurda: il meccanismo UE di supervisione del sistema bancario e di risoluzione delle crisi.

Isabella Buffacchi stessa ha risposto al mio commento con la seguente affermazione:

“E’ assurdo che i creditori siano colpiti prima dei contribuenti o è assurdo colpire i contribuenti per proteggere (alcuni) creditori ?”

Ho replicato a mia volta con una serie di tweet, che riporto qui di seguito, integrati da alcuni chiarimenti che fanno – mi auguro – luce sui vari aspetti del problema.

PRIMO, è assurdo imporre perdite a risparmiatori che hanno sottoscritto titoli ANTE cambiamento normativo; perdite causate anche da carente vigilanza.

Si sommano qui due problemi: da un lato, sono stati colpiti i sottoscrittori di obbligazioni subordinate, che le avevano acquistate in un contesto normativo in cui i creditori delle banche potevano perdere soldi solo in conseguenza di una procedura concorsuale (un fallimento, in pratica). La regolamentazione UE prevede invece meccanismi (il bail-in) che infliggono perdite senza che intervenga alcuna procedura concorsuale, introducendo quindi uno scenario di rischio che in precedenza non esisteva. E questo mutamento è stato introdotto in forma retroattiva, quindi con effetto anche sui titoli emessi in precedenza.

Dall’altro lato, va sempre ricordato che l’investitore in titoli bancari, a differenza del sottoscrittore di obbligazioni emesse da una società non finanziaria, fa affidamento sull’esistenza di organismi di controllo e di vigilanza (Bankitalia e BCE, nel caso specifico) una delle cui principali funzioni è appunto prevenire situazioni di dissesto finanziario. L’investimento in titoli emessi da una banca dovrebbe essere maggiormente tutelato rispetto all’acquisto, per esempio, di corporate bonds di una società industriale: se non è così, qual è il senso dell’attività di vigilanza ?

SECONDO, è assurdo aver delegato la vigilanza alla BCE SENZA che sia stata introdotta una garanzia sui depositi a livello Eurozona.

In pratica, l’Italia oggi si trova in una situazione in cui un’entità esterna (la BCE) decide quando un’istituzione bancaria si trova, o meno, in situazione di dissesto, ma per contro non beneficia di alcun meccanismo di tutela, nemmeno per i depositanti e per i correntisti ordinari. Si è quindi introdotto un livello di rischio anche per la clientela ordinaria, che utilizza lo sportello bancario non per investire (o speculare) ma esclusivamente come meccanismo per effettuare depositi e pagamenti. Rischio che non esisteva più dagli anni Trenta, quando in tutte le principali economie mondiali ci si era resi conto che i dissesti bancari e le corse agli sportelli erano in grado di trasformare una crisi finanziaria in un dissesto bancario sistemico.

In misura più o meno accentuata oggi qualsiasi istituzione bancaria “chiacchierata” fronteggia il rischio di fughe di depositi, perché la solidità della sua situazione patrimoniale è soggetta a valutazioni fortemente discrezionali, per non dire arbitrarie, di un’entità terza. Entità che peraltro non fornisce alcuna tutela o garanzia, e non è responsabilizzata per le conseguenze di una sua carente azione di vigilanza e prevenzione.

Esiste, si dirà, il fondo interbancario nazionale che garantisce i depositi fino all’importo di 100.000 euro. Ma le risorse di questo fondo sono limitatissime e del tutto inadeguate a fronteggiare una crisi di proporzioni estese. Senza contare che a fine 2015 la commissione UE ha impedito che il fondo venisse utilizzato per sostenere le quattro banche allora in difficoltà (Banca Popolare dell’Etruria, Banca delle Marche, Cassa di Risparmio di Chieti e Cassa di Risparmio di Ferrara) sollevando il problema che si sarebbe trattato di aiuti di Stato non autorizzati. Il medesimo problema, nel caso delle banche venete è stato invece completamente ignorato, nonostante le dimensioni dell’intervento fossero molto maggiori.

Il fondo interbancario nazionale in pratica è del tutto insufficiente come dimensione e non c’è alcuna certezza che possa venire utilizzato all’occorrenza. E l’assicurazione europea non esiste. A tutti gli effetti pratici, l’incertezza è totale. E’ quindi del tutto plausibile che i risparmiatori scappino quando cominciano a circolare notizie (magari in quel momento infondate) su potenziali problemi della banca. Con il risultato che il rischio di dissesto si può creare anche dove altrimenti non sarebbe esistito.

TERZO, è assurdo pensare che le perdite subite dai risparmiatori non ricadano poi sull’economia e quindi sul contribuente.

La regolamentazione bancaria UE è incentrata sul principio che occorre far pagare agli investitori le perdite per evitare che se le debba accollare il contribuente.

Ma in realtà le perdite inflitte ai risparmiatori danneggiano l’andamento dell’economia e il tessuto produttivo, e producono danni a PIL, occupazione e gettito fiscale. Infliggere perdite ai risparmiatori NON significa toglierle dalle spalle del contribuente. Significa che perdono sia il risparmiatore (prima) che il contribuente (di conseguenza, e subito dopo).

Per contro c’è un’alternativa che evita perdite a entrambi: ripianare le perdite che i risparmiatori subirebbero, direttamente da parte dell’istituto d’emissione (nel caso dell’Eurozona, la BCE). Chi perde in questo caso ? nessuno, né direttamente né indirettamente – l’emissione monetaria non ha effetti inflazionistici perché non incrementa l’ammontare totale di potere d’acquisto in circolazione: si evita, piuttosto, che una parte di esso venga distrutto (con i connessi, e deleteri, effetti deflattivi).

A titolo di esempio, nel 2009 la Banca Centrale svizzera ha coperto un buco di 60 miliardi che, in conseguenza della crisi finanziaria internazionale, si era creato in uno dei principali istituti elvetici, l’UBS. Qualcuno ha sentito parlare di effetti inflazionistici, o di turbolenze di qualsiasi tipo nell’economia svizzera ?

Ma il moral hazard, si dirà ? se la banca centrale interviene ed evita danni, non incentiviamo in questo modo comportamenti arrischiati, se non irresponsabili, da parte degli investitori e dei gestori delle banche ?

Per quanto riguarda i gestori, la risposta è che l’intervento della banca centrale deve andare di pari passo con il perseguimento dei responsabili del dissesto, sul piano civile e penale. E deve avere conseguenze anche per gli organi interni della banca centrale, che evidentemente hanno svolto una cattiva azione di vigilanza e prevenzione.

Per quanto riguarda gli investitori, deve esistere una detta linea di demarcazione tra risparmio tutelato e investimenti rischiosi. Negli USA la differenza è chiara: i depositi bancari fino a 250.000 dollari d’importo sono assicurati dalla Federal Deposit Insurance Commission, a sua volta garantita dal governo federale e dalla Federal Reserve. E’, in pratica, il meccanismo di assicurazione comune dei depositi che nell’Eurozona ci si è rifiutati di introdurre.

Per quanto riguarda i titoli e i depositi di importo superiore, deve essere chiaro (ma fin dalla loro emissione, non cambiando il contesto normativo con effetti retroattivi) che si tratta di investimenti a rischio. Ma a quel punto, se il dissesto dell’istituzione finanziaria crea rischi sistemici, occorre attivare una procedura d’insolvenza che mette l’istituzione sotto il controllo della banca centrale (o del governo, supportato finanziariamente dalla BC medesima): si procede ad assicurare l’ordinato svolgimento dell’attività, e nel tempo si ripagano gli investitori nei limiti di quanto è possibile recuperare.

Se poi gli investitori non garantiti sono di dimensioni tali che il dissesto può creare rischi all’intero sistema economico (come avvenuto nel 2008) l’unica soluzione è un intervento fiscale espansivo che compensi gli effetti depressivi e deflattivi per l’economia, immettendo potere d’acquisto nel sistema economico.

Uno scenario di questo tipo andrebbe prevenuto a monte, evitando che un’istituzione finanziaria divenga “too big to fail”. Ma questo è un problema di regolamentazione e di vigilanza. Se regolamentazione e vigilanza si rivelano carenti, l’azione anticiclica del settore pubblico è ex post l’unica via che evita alla crisi finanziaria di trasformarsi in una depressione economica.

QUARTO, è assurdo ignorare, a dispetto di tonnellate di prove contrarie, gli effetti depressivi delle politiche di austerità e la conseguente esplosione dei crediti deteriorati.

Il catastrofico andamento dell’economia italiana dal 2011 in poi è direttamente imputabile all'aver reso ossequio alle “prescrizioni” UE, ricercando il contenimento del deficit pubblico quanto l’economia non aveva ancora, se non in parte minore, recuperato i danni della crisi finanziaria internazionale scoppiata nel 2008.

L’Italia si trova oggi con livelli di crediti deteriorati molto superiori alle medie dell’Eurozona esclusivamente per questo motivo. Le cose non stavano così né nel 2008 né nel 2011.

Un intervento che (come, almeno a giudicare dal suo tweet, Isabella Buffacchi avrebbe ritenuto corretto) avesse inflitto “perdite ai risparmiatori per proteggere i contribuenti” in realtà come visto ne avrebbe create, e di pesanti, a entrambi. Questo, dopo che sia i risparmiatori, che i contribuenti, che i cittadini italiani nel loro complesso, hanno subito pesantissime e immotivate conseguenze dall’imposizione di scellerate politiche procicliche. Politiche all’origine di fenomeni peraltro strettamente connessi: la caduta di produzione e occupazione, il peggioramento delle condizioni di vita di larghi strati di popolazione, e il deterioramento degli attivi del sistema bancario.

Adottare politiche di espansione della domanda è la via per risolvere entrambi i principali problemi, che sono lati della stessa medaglia: rilanciare l’economia e far ritornare in salute il sistema bancario.

Chiedersi “se debbano essere tutelati prima i risparmiatori, o prima i contribuenti” è per contro una domanda estremamente mal posta. L’intervento corretto – l’azione fiscale espansiva, che introduce potere d’acquisto e rilancia produzione e occupazione - è benefico per entrambi. Non è un problema di decidere a chi far subire i danni: si possono – e quindi si devono - evitare a tutti e due.