domenica 25 aprile 2021

Cronistoria della Moneta Fiscale - aggiornamento aprile 2021

A cura di Francesco Chini e Thomas Vaglietti, i passaggi più significativi del progetto Moneta Fiscale / CCF, aggiornamenti alla data odierna. A questo link.

venerdì 23 aprile 2021

I keynesiani mainstream e la MMT


Ho letto con molto interesse questo articolo di Thomas Palley, pubblicato pochi mesi fa (fine 2020). Come indica il titolo, “What’s wrong with Modern Money Theory: macro and political restraints on deficit-financed fiscal policy”, si tratta di una disamina critica della MMT.

L’autore è un economista di impostazione keynesiana e di orientamento politico progressista. Pur condividendo le finalità generali di quanto gli economisti MMT propongono, Palley ritiene però sostanzialmente errata la base teorica della MMT.

L’articolo è interessante in quanto costituisce una sintesi, molto articolata, delle critiche alla MMT così come espresse da commentatori che non sono sospettabili di pregiudizi ideologici negativi nei confronti della MMT stessa (o più precisamente nei confronti delle sue finalità). Critiche, quindi, di natura essenzialmente tecnica e concettuale.

Come ho detto in altre sedi, mi riconosco al 95% nel pensiero MMT. Confutare le critiche di Palley mi pare un esercizio utile in quanto si tratta, in sostanza, delle medesime argomentazioni che spingono i governi e le istituzioni sovranazionali ad adottare un approccio ancora decisamente troppo timido nel contrastare i problemi dell’economia anche (ma non solo) in seguito alla crisi pandemica. Troppo timido, purtroppo per noi, soprattutto nel caso dell’Eurozona e in particolare dell’Italia.

Qui di seguito, i punti salienti (a mio avviso) dell’articolo di Palley, e le mie controdeduzioni.

Al capitolo 3.2.1 Palley afferma che “government is likely to face financial market blowback if financial markets believe it is engaging in excessive money issue. In particolar, long-term interest rates will tend to rise if financial market participants anticipate risks of future financial turmoil or higher future inflation… consequently, inflationary bias in MMT’s reliance on money-financed deficits will creep into present financial market conditions long before full employment”. Concetto rafforzato poco più avanti: “if private agents deem the bond rate too low given inflation expectations created by money-financed deficits, the government bond market will shrivel, in the sense of fewer private agents being willing to buy government bonds. More importantly, bond market repression does not prevent interest rates rising in private credit markets, and they may even overshoot owing to unfavorable expectations caused by money-financed fiscal policy”.

Queste argomentazioni sono in parte circolari e in parte autocontraddittorie. La prescrizione MMT è di espandere i deficit pubblici solo fino al livello in cui l’inflazione non si innesca, e di fermarsi a quel punto. Se le politiche dell’autorità pubbliche sono orientate in tal senso, le “aspettative d’inflazione” (generate non è chiaro da cosa) non troveranno riscontro nella realtà. Inoltre, il problema del “minor numero di operatori privati interessati a comprare titoli di Stato” non si porrà semplicemente perché non c’è necessità di emettere titoli a fronte del deficit (appunto perché si parla di “money-financed deficits”). E il rischio di “interest rates rising in private credit markets” non sussiste perché l’istituto di emissione può regolare a piacimento il tasso di rifinanziamento offerto alle banche (e volendo anche al pubblico), nonché controllare come preferisce la curva dei tassi d’interesse sui titoli di Stato (se proprio, ma non è affatto necessario, decide di emetterli). I tassi sul credito privato quindi dovrebbero crescere in funzione di un’aspettativa d’inflazione futura e qui l’argomento diventa appunto circolare: la MMT prescrive di limitare l’inflazione (se no non è MMT) ma il mercato alza i tassi reali (sul credito privato) perché non crede che verrà realmente attuata.

In definitiva l’argomentazione si riduce a “le aspettative d’inflazione saliranno perché lo dico io, che so come la pensano i mercati”. Non proprio molto scientifica né affidabile (non mi risulta che Palley sia diventato multimiliardario investendo sui mercati finanziari). E non stupisce quindi che Palley contraddica se stesso esattamente nel paragrafo successivo affermando che “increases in the money supply can also potentially cause asset price bubbles”. In altri termini, poche righe dopo essersi preoccupato per il potenziale incremento dei tassi reali, Palley si spaventa per il rischio di bolle di mercato finanziario create dal denaro facile. Quindi questa MMT deprime il mercato creando alti tassi reali o lo destabilizza producendo bolle ? non è che magari, al contrario, lo stabilizza proprio perché prescrive di raggiungere il pieno impiego mantenendo, nello stesso tempo, l’inflazione sotto controllo ?

Al capitolo 3.2.2 si legge poi che “expansionary budget deficits bleed into the trade deficit via their impact on income and the demand for imports. The deterioration of the trade deficits then tends to depreciate the exchange rate… Exchange rate depreciation can then cause inflation, which further aggravates the depreciation problem”.

Questa affermazione:

ignora che la MMT propone deficit di bilancio espansivi solo in presenza di sottoutilizzo delle risorse produttive e fintantoché non si verifichi innesco di inflazione;

trascura che la svalutazione del cambio tende a espandere le esportazioni e a sostituire le importazioni con produzioni interne, quindi migliora i saldi commerciali esteri - il che pone un limite alla svalutazione medesima;

non considera che la svalutazione non si trasla in inflazione finché le risorse produttive non sono prossime al pieno utilizzo;

non prende in considerazione la possibilità (prevista tra l’altro nel progetto CCF, di cui anzi è una dei capisaldi) di utilizzare come fattore compensativo delle maggiori importazioni nette non la svalutazione del cambio bensì la riduzione del cuneo fiscale a vantaggio delle aziende locali.

Poco più avanti si legge che “Keynesian macroeconomics emphasizes international constraints, and they are summarized in models via the idea of a balance of payment constraint. However, owing to its US-centric focus, MMT largely ignores such problems which are a first-order constraint on economic policy in many countries”. Questa è in effetti a mio parere l’unica critica realmente significativa agli autori MMT. Può però essere affrontata e superata inserendo nel framework MMT un vincolo di equilibrio dei saldi commerciali esteri finanziati in moneta straniera. Torno su questo tema (che ho trattato in altri due post, questo e questo) più avanti.

Curiosa poi l’affermazione di Palley che “a floating exchange rate has its own adverse financial and inflation complications”. Le esperienze di rotture o di pesantissime disfunzioni dei sistemi di cambi fissi (SME 1992, Argentina 2001, crisi dell’Eurosistema solo per citare i casi più recenti e significativi, ma un elenco completo coprirebbe tutta la storia economica del mondo…) indicano che gli assetti rigidi producono guai decisamente peggiori rispetto a quelli flessibili.

Al capitolo 3.2.4, leggiamo che “a government that is concerned about growth and future living standards will be concerned about budget deficits and their implications for interest rates, which in turn means it is financially constrained and concerned about bond market sentiments”. Citofonare Giappone per farsi raccontare come l’accumulo di un debito pubblico pari al 260% del PIL non abbia avuto alcun effetto di incremento dei tassi d’interesse.

Poi, lo sfondone tecnico e concettuale peggiore di tutto l’articolo: “if the demand for wealth is finite and government financial obligations are net wealth, governments deficits can crowd-out private capital accumulation by increasing the supply of government wealth that must be held in private portfolios”. Perché mai la “demand for wealth” dovrebbe essere finita non è dato saperlo. Quello che è certo (per chi conosce i saldi settoriali) è che i deficit pubblici aumentano il risparmio finanziario privato in termini nominali e peraltro (se non innescano inflazione, come la MMT prescrive di NON fare) anche reali. Il settore privato si troverà con più moneta (o più titoli di Stato) in tasca, senza che le attività finanziarie private debbano per questo diminuire neanche di un centesimo. Per cui, dove sta il crowding-out ?

Al capitolo 3.3, Palley attacca poi la MMT in quanto “it assumes taxes can be abruptly and precisely raised at full employment to contain excess demand, when the reality is taxes are politically contested and difficult to raise. Long ago [Milton] Friedman argued that fiscal policy was impractical for “fine-tuning” stabilization policy owing to inside (decision) and outside (implementation) lags”. Questa è una delle ragioni per cui Friedman sosteneva la maggiore efficacia della politica monetaria rispetto a quella fiscale per stabilizzare il ciclo economico. Il problema è che la politica monetaria perde trazione quando i tassi d’interesse sono prossimi a zero (ulteriori riduzioni “spingono la corda invece di tirarla”, secondo la nota metafora di Keynes).

I ritardi di implementazione della politica fiscale sono sicuramente un tema importante ma la risposta non è fare a meno della politica fiscale, ma potenziare il ruolo degli “stabilizzatori automatici”, cioè degli strumenti fiscali che svolgono una funziona anticiclica quando il livello di domanda aggregata si discosta da quello di pieno impiego. Ne esistono già parecchi – tra cui i sussidi di disoccupazione, la cassa integrazione, le imposte progressive sul reddito – ma un’architrave della MMT consiste appunto nell’introdurne uno molto più potente: il Job Guarantee Program (di cui nel seguito).

Alla nota 20 tra l’altro Palley fa notare che “the aversion to raising taxes is one reason why monetary policy is the preferred instrument of fine-tuning stabilization policy. Just as monetary policy is delegated to central banks to facilitate policy decisionmaking, so too tax policy could be delegated to a board of tax experts, but that would be a profoundly undemocratic turn”. Su quest’ultima affermazione sono d’accordo, ma questo vale anche per la politica monetaria, ed è in effetti un’ottima ragione per riportare le banche centrali sotto il controllo democratico dei parlamenti (e per sottoporvi anche il “board of tax experts”, se si ritenesse opportuno crearne uno).

Capitolo 3.5: Palley afferma che “taxes are needed to pay for ongoing programs, and money-financed deficit spending is at best a temporary free lunch”. No: i mezzi di pagamento in circolazione nel sistema economico devono crescere nel tempo perché il PIL potenziale cresce in termini reali (per i miglioramenti di produttività) e ancora di più in termini nominali (se l’inflazione ottimale non è ritenuta essere zero ma ad esempio il 2% a cui puntano le principali banche centrali). E se i mezzi di pagamento devono crescere nel tempo, i vari Stati devono mediamente avere un deficit di bilancio (questa infatti è da secoli la condizione normale delle economie). Diversamente, come si spiega qui, occorrerebbe fare affidamento solo sulla crescita del credito privato (che è prociclica e quindi destabilizzante), salvo per i paesi che generano massicci surplus commerciali verso l’estero (mettendo però in difficoltà altri che per evidenti ragioni algebriche devono allora essere in deficit).

Al 3.6, Palley ritorna sul tema della “US-centric nature of MMT’s theorizing”. Qui come accennavo prima la critiche agli autori MMT sono in parte giustificate nel senso che il tema dei vincoli di saldi commerciali finanziati da debito in moneta estera deve essere maggiormente approfondito e integrato nella struttura base della MMT. Va comunque notato che esistono paesi che finanziano senza problemi deficit commerciali persistenti pur non trattandosi di “countries whose currencies serve as international reserve currencies”. E’ il caso dell’Australia, che ha generato deficit commerciali per quarant’anni consecutivi, tra il 1980 e il 2019, ha prodotto una Net International Investment Position negativa per il ragguardevole livello del 50% del PIL, ma l’ha sostanzialmente finanziata emettendo debito in dollari australiani.

Ultimo punto di sostanza, le critiche al Job Guarantee Program di cui al capitolo 4. Qui basta notare che secondo Palley “one downside is the cost of JGP, which could displace other needed programs (though MMT denies that by assumption, because it asserts government is financially unconstrained)”. No: il JGP non impedisce di sviluppare altri programmi d’intervento pubblico ma non perché “government is financially unconstrained” bensì perché il JGP mette al lavoro risorse produttive, altrimenti dette persone, che in quel momento vorrebbero essere attive ma non trovano impiego nel settore privato (o in altri programmi pubblici). Nel momento in cui l’economia riparte e il settore privato riassorbe le persone temporaneamente impiegate nel JGP, il JGP si svuota (svolgendo anche, come detto in precedenza, un potentissimo effetto fiscale anticiclico – e svolgendolo automaticamente).

In conclusione, la MMT regge benissimo la “critica di Palley”, così come in generale le critiche che gli muovono gli economisti progressisti mainstream (quelli che a me piace chiamare “keynesiani da salotto”). Replicare a queste critiche con argomenti solidi e ben sviluppati però è importantissimo perché gli economisti progressisti mainstream vanno considerati una sorta di “fuoco amico”. In teoria hanno le stesse finalità di chi sostiene la MMT, in pratica offrono argomenti a sostegno dei policymakers che frenano l’adozione degli interventi di politica economica necessari per superare la crisi.

lunedì 19 aprile 2021

Video: la MMT e i Buoni di Sconto Fiscale

Un lungo (due orette...) e spero interessante dibattito organizzato da Economia Italia, in collaborazione con Sottosopra.

Nella prima mezz'ora Francesco Chini presenta i capisaldi della MMT (il pdf della sua presentazione lo trovate a questo link).

Segue un confronto (direi vivace) tra me e Matteo Fatale, con interventi del moderatore Umberto Bertonelli.


Il video è reperibile anche via link, qui.

sabato 17 aprile 2021

Gli euroausterici e la Total Factor Productivity

 

Come noto a chi segue questo blog, gli euroausterici sono una setta di commentatori economici che negano a oltranza, a dispetto di qualsiasi evidenza contraria, che la stagnazione economica italiana abbia qualcosa a che vedere con l’euro, con le regole di funzionamento dell’eurozona e con le massicce dosi di austerità fiscale prescritte all’Italia prima per entrare a far parte del club della moneta unica, e poi per rimanerci.

La stagnazione italiana nasce da moooooolto prima, secondo loro. Tipo venti o trent’anni in anticipo rispetto al fatidico 1° gennaio 1999, data di nascita dell’euro.

Come si concilia tutto ciò con il fatto che il PIL procapite italiano, fino alla seconda metà degli anni Novanta, teneva il passo o addirittura guadagnava terreno rispetto alle medie UE15 ?


Elementare Watson, ci fa sapere il baldo euroausterico. In realtà è dal 1970 che la Total Factor Productivity è stagnante se non in declino.



Eccolo, eccolo, lo smoking gun ! ecco la causa profonda del declino economico italiano, svelata al mondo !

Oddio, ma cos’è questa Total Factor Productivity ?

La Wikipedia italiana ci viene in soccorso fornendo la seguente definizione: trattasi della “parte residua di output eccedente gli input di lavoro e capitale”. Di conseguenza “misura, generalmente, il grado di efficienza economica”.

Però ci mette anche alcune pulci nelle orecchie. Nel paragrafo “critiche alle TFP” si legge infatti che “già Abramowitz notava come in realtà il residuo così calcolato era alla fine il risultato non solo del cambiamento tecnologico e del miglioramento dell’efficienza produttiva, ma anche di una serie di possibili errori, come quelli di misura, quelli derivanti da aggregazione e quelli di errata specificazione del modello”. In definitiva risulta essere solo “la misura della nostra ignoranza”.

E in effetti, se è vero che la TFP italiana è piatta se non declinante dal 1970, com’è possibile che invece la produttività del lavoro tra il 1970 e la fine degli anni Novanta sia invece cresciuta ? e parecchio ?



(bloccandosi poi, guarda caso, in corrispondenza dell’euroaggancio… per ragioni che trovate commentate e analizzate in questo post).

L’euroausterico ha la risposta pronta. La crisi dell’economia italiana è stata per una trentina d’anni mascherata dal massiccio utilizzo di indebitamento. L’Italia non riusciva a stare il passo dal punto di vista di tecnologia e organizzazione produttiva, e “copriva” questo problema espandendo il debito. Quale debito ? ma il debito pubblico ovviamente, salito nel trentennio 1970-2000 dal 50% al 110% del PIL.

Il che equivale a dire che l’Italia riceveva ingenti risorse finanziarie che in qualche modo stimolavano la crescita del PIL, ma senza minimamente recuperare efficienza, fino al momento in cui “è arrivato il conto da pagare” (una delle frasi a effetto preferite dagli euroausterici).

Tutto chiaro ?

Mica tanto.

L’argomento crolla sull’affermazione che “l’Italia riceveva ingenti risorse finanziarie”. Se questo fosse il caso, l’Italia avrebbe sistematicamente generato grossi deficit nel saldo delle partite correnti. In altri termini, le esportazioni di beni e servizi e gli incassi per redditi finanziari e trasferimenti dall’estero avrebbero dovuto essere nettamente e sistematicamente inferiori alle corrispondenti voci di import e di pagamenti.

Il deficit nel saldo delle partite correnti corrisponde, ci insegna la partita doppia, a capitali che arrivano dall’estero a titolo di finanziamento o di investimento. Per poter spendere più di quanto produci, in altri termini, ti indebiti, o vendi pezzi di attività economiche nazionali a residenti esteri. Questo debito e queste vendite sarebbero risorse finanziarie esterne. E questo genererebbe un “conto” che prima o poi ti potrebbe venir chiesto di “pagare”.

Ma dando un’occhiata ai dati storici 1970-2000, relativi appunto al saldo delle partite correnti in percentuale del PIL, non si nota nulla di tutto questo.

Si notano invece oscillazioni tra saldi attivi e saldi passivi, con punte negative in corrispondenza delle crisi petrolifere del 1973 e del 1979 ma anche con un lungo e significativo periodo di surplus dopo la rottura della SME.

E infatti (fonte Eurostat) la Net International Investiment Position, il saldo netto tra investimenti e attività finanziarie italiane all’estero (da un lato), e le corrispondenti voci negative per flussi di non residenti verso il nostro paese (dall’altro) era, al 31.12.1998, in sostanziale equilibrio (-9,1% del PIL). Va tenuto conto che la NIIP di singoli paesi può tranquillamente raggiungere livelli compresi tra il 50% e il 100% del PIL. I dati più recenti evidenziano, ad esempio, -27% per la Francia, -66% per gli USA, -84% per la Spagna, -106% per il Portogallo, -176% per la Grecia.


Per cui, dove si vedono questa “droga finanziaria”, questi massicci capitali affluiti in Italia, che poi avrebbero creato il “conto da pagare” ?

Semplicemente non esistono.

Gli euroausterici fanno come di consueto una tremenda confusione tra debito pubblico e debito estero. La NIIP italiana all’ingresso nell’euro non era assolutamente a livelli passivi anomali (oggi è addirittura leggermente positiva).

Certo, lo Stato italiano generava deficit PUBBLICI e li finanziava con debito PUBBLICO. Avrebbe potuto, in parte o totalmente, monetizzarli, ma dal 1981 (divorzio Tesoro – Banca d’Italia) si è deciso di non farlo.

Ma a fronte del debito pubblico, i residenti italiani accumulavano risparmio finanziario privato. Era in buona sostanza una partita INTERNA al paese. Non c’era nessuna “droga” da risorse finanziarie provenienti dall’estero, nessun “conto” che prima o poi qualcuno avesse titolo a presentare.

C’è stata invece la scellerata decisione di entrare in un sistema monetario disfunzionale e di sottoporsi a politiche di compressione della domanda interna nonché a regole procicliche, che hanno prima (fino al 2008) rallentato la crescita italiana, poi (austerità inflitta al nostro paese a partire dal 2011) impedito di recuperare gli effetti della crisi finanziaria mondiale conseguente al fallimento Lehman.

E speriamo di non vivere un ulteriore incubo se errori analoghi venissero ripetuti post termine emergenza Covid.

Tornando agli euroausterici, la sintesi è molto semplice. Il loro è un processo di arrampicamento sugli specchi, finalizzato a negare di non aver capito nulla della crisi economica italiana – né a livello di diagnosi né di prescrizione dei rimedi.

Si appigliano quindi all’unico indicatore che sembra dar loro qualche credito – la fumosissima e inaffidabile TFP – per sviluppare una tesi che crolla miseramente a un’analisi minimamente più approfondita.

 


domenica 11 aprile 2021

Moneta Fiscale, ristori e rilancio dell’economia


Sull’utilità o meno dei lockdown per risolvere la crisi pandemica si può discutere. Ma è inconcepibile continuare ad attuarli senza compensare adeguatamente cittadini e aziende che subiscono pesantissimi danni economici senza averne minimamente colpa. 

Le agitazioni di piazza di questi ultimi giorni sono da condannare quando e se sfociano in violenze, ma esprimono un malessere totalmente comprensibile e sono indici di tensioni a cui è folle non dare risposte adeguate.

Le regole disfunzionali dell’eurosistema hanno impedito di intervenire con sostegni forti e tempestivi, come quelli introdotti in tante altre economie avanzate – Asia, Nord America, paesi europei extra UE ed extra eurozona.

Il principale strumento d’intervento predisposto dalla UE – il Next Generation Fund – è stato approvato un anno fa ma non ha ancora erogato un centesimo, vittima di complicazioni e pastoie nel suo processo di approvazione da parte di 27 parlamenti. E’ comunque del tutto insufficiente nella dimensione e pesantemente vincolato e condizionato. Se mai partirà, rischia di produrre più danni che benefici.

Il nostro gruppo di ricerca da anni propone una soluzione – la Moneta Fiscale – che oggi ancora più di prima è uno strumento con enormi potenzialità per affrontare gli effetti combinati della crisi sanitaria e della crisi economica.

In realtà già dal maggio 2020 un suo primo embrione è stato introdotto con il DL Rilancio, nella forma dell’ecobonus 110% per le riqualificazioni immobiliari.

L’interesse suscitato nel comparto è stato enorme. Un test quindi di grandissima validità.

Ma solo di un test per il momento si parla. Smuoverà forse un miliardo di interventi. Le cifre necessarie per sostenere e poi per rilanciare l’economia italiana sono di altri ordini di grandezza – decine, centinaia.

La Moneta Fiscale si crea con l’emissione di crediti fiscali, utilizzabili in compensazione per ridurre pagamenti altrimenti dovuti al settore pubblico, e liberamente negoziabili e scambiabili.

Questo strumento – di cui appunto l’ecobonus 110% costituisce un esempio - va esteso a un ventaglio amplissimo di fattispecie. Sostegni a chi ha subito danni dai lockdown ma anche integrazioni di redditi ai lavoratori sia dipendenti che autonomi, riduzione del cuneo fiscale a beneficio delle imprese, stimolo agli investimenti privati, rilancio degli investimenti pubblici.

I meccanismi di emissione devono essere semplificati al massimo e va predisposta una piattaforma di scambio per far circolare tra privati la Moneta Fiscale.

Sono sicuramente possibili emissioni fino a un massimo di 100-150 miliardi annui. Il valore della Moneta Fiscale è garantito, in una rapporto sostanzialmente alla pari con l’euro, purché gli ammontari annui rimangano una modesta frazione del prelievo lordo del settore pubblico (che tra tasse, imposte e contributi si aggira intorno agli 800).

In pratica la Moneta Fiscale fornisce allo Stato italiano una modalità ulteriore di finanziamento rispetto all’emissione di debito pubblico in euro.

La Moneta Fiscale rende in effetti possibile sostenere e rilanciare l’economia, nello stesso tempo riducendo costantemente il rapporto tra debito pubblico (da rimborsare in euro, quindi soggetto a rischio di default) e PIL.

Di fronte a questa proposta, ci siamo spesso sentiti argomentare che è un primo passo per lo scioglimento dell’euro, se non addirittura per porre fine all’Unione Europea.

La proposta non nasce con quelle finalità. Ha lo scopo di superare le pesantissime disfunzioni di un sistema di gestione economico-monetaria ormai criticato da tutti.

La proposta “europeista” alternativa è di completare l’eurosistema con l’unione di bilancio, con l’unione fiscale, con un sistema di trasferimenti tra Stati, eccetera.

Il problema è che non esiste minimamente il consenso politico per tutto questo, e non c’è nessuna possibilità che si crei né nell’immediato né per molti anni ancora.

L’Unione Europea non può impedire agli Stati di attrezzarsi autonomamente per gestire e superare problemi che, nella sua conformazione attuale, la UE medesima non è in grado di risolvere.

Il modo più sicuro per bloccare qualsiasi possibilità di integrazione politica in realtà è proprio quello di NON risolvere le crisi, perché si nega autonomia agli Stati ma nello stesso tempo non si riesce a dotare Bruxelles di strumenti d’intervento adeguati.

Per questa via, si perpetua una situazione di stallo che non porta a nulla se non ad esacerbare le pesantissime difficoltà che oggi affliggono milioni di persone.

La politica dirà se siamo sulla strada per creare gli Stati Uniti d’Europa – o meno. Di certo, lasciare irrisolta la situazione attuale crea solo negatività, che non aiutano né gli euroentusiasti né gli euroscettici.

venerdì 9 aprile 2021

L’equivoco sull’inflazione “da costi”

 

Da qualche settimana si sente parlare di un possibile pericolo inflazionistico derivante dall’incremento di prezzo di materie prime e input produttivi vari (semilavorati, componenti, noli, trasporti eccetera).

L’ipotesi, che intuitivamente potrebbe apparire fondata, è che l’aumento di una serie di costi di produzione “costringerà” le aziende a scaricarli a valle, incrementando quindi i prezzi applicati al consumatore finale.

Questa argomentazione trascura però un elemento fondamentale. L’inflazione MEDIA E GENERALE non parte se c’è carenza di potere d’acquisto disponibile per il consumatore finale. Se determinati input produttivi salgono di costo ma il potere d’acquisto complessivo rimane debole, o comunque non si accresce, i produttori vedono i loro margini comprimersi, ma i prezzi al consumo non salgono. Semplicemente, non c’è spazio per farli salire.

Tutto ciò, nella media. Poi si può argomentare che

il produttore di un bene o servizio insostituibile o difficilmente sostituibile,

dotato di una posizione monopolistica o comunque con forte potere di mercato,

è comunque in grado di alzare i SUOI prezzi (anche se c’è da chiedersi perché non l’abbia già fatto prima, se detiene una posizione così forte).

Ma se il potere d’acquisto TOTALE non aumenta, QUEI beni e servizi aumenteranno di prezzo. Quelli, non altri - che al contrario, nella media DIMINUIRANNO.

L’inflazione MEDIA sui prezzi al consumo, quindi, NON riparte in modo significativo se il potere d’acquisto del consumatore non aumenta. Anche se si verificano incrementi di costi di produzione. E en passant, anche in presenza di una svalutazione (per la quale valgono considerazioni analoghe).

In sintesi, l’inflazione non si verifica se non in presenza di un eccesso di potere d’acquisto in circolazione rispetto alla capacità produttiva del sistema economico. L’inflazione “da costi”, nel senso di dovuta a puri e semplici incrementi di prezzo degli input produttivi, non esiste.

 

mercoledì 7 aprile 2021

Giappone

A tutti quelli che dicono "ah ma nonostante il deficit spending e il debitone il Giappone non cresce", ecco qui.



lunedì 5 aprile 2021

Come “funziona” la UE

 

La vicenda vaccini – argomentavo qualche giorno fa su twitter - è la prova di come “funziona” la UE.

Molto semplice. La UE impedisce agli Stati membri di fare tutta una serie di cose, per poi scoprire che non è in grado di farle lei al loro posto.

Nel caso della vicenda vaccini, appunto, impone di centralizzare su di sé il negoziato d’acquisto con le case farmaceutiche che li producono. E poi gli approvvigionamenti non arrivano perché si è tirato sul prezzo, gli impegni di consegna non erano blindati, eccetera.

Tutto questo, quando gli Stati erano perfettamente in grado di procedere ognuno per sé, e anzi si stavano attivando (prima di essere stoppati).

“La UE impedisce agli Stati membri di fare tutta una serie di cose, per poi scoprire che non è in grado di farle lei al loro posto”, dicevo: con l’eccezione dell’euro. In questo caso siamo in presenza di un progetto che la UE in effetti è riuscita a mettere in atto – piccolo dettaglio: con risultati catastrofici.

Ma in effetti a ben vedere anche l’euro rientra nella casistica “vaccini”. Anche in questo caso, si sono sottratte agli Stati tutta una serie di strumenti di autogoverno – relativi alla sfera economica, nella fattispecie - allo scopo di trasferirli a un’entità esterna.

E anche in questo caso si è scoperto che la UE segue principi e regole privi di qualsiasi logica e razionalità, senza peraltro riuscire a correggerli e a renderli funzionali, neanche dopo anni e anni di effetti deleteri.

Tanto è vero che in presenza di un’emergenza – la crisi Lehman del 2008, la pandemia del 2020 – il massimo che la UE riesce a fare, l’unica cosa di una qualche utilità, è sospendere le regole che lei stessa si è data.

Questa è la UE. In sintesi: un progetto catastroficamente fallito.

 

giovedì 1 aprile 2021

UE, smettiamo di dire che “serve solidarietà”

 

Fare appelli alla “solidarietà” all’interno dell’Unione Europea è quanto di più sterile si possa concepire.

Non giusto o sbagliato, non è questo il punto. Sterile.

E’ sterile perché la solidarietà tra Stati membri della UE non esiste.

Ma ancora di più perché non è affatto necessaria.

Necessario è invece che ogni paese possa perseguire politiche di pieno impiego delle proprie risorse produttive, in primo luogo promuovendo il massimo livello di occupazione, purché non si inneschino livelli eccessivi di inflazione all’interno del paese.

Finché l’innesco dell’inflazione non è un problema, i debiti pubblici possono essere pienamente garantiti dalla BCE, salvaguardando il vincolo dei trattati a preservare il valore della moneta comune.

In alternativa, ogni paese può emettere il proprio strumento di Moneta Fiscale nazionale, i propri CCF.

Solidarietà vuol dire trasferimenti finanziari. I nordeurozonici non lo accetteranno mai.

Basta, quindi, con questo vuoto appello a una solidarietà che da un lato non esiste, dall’altro non è nemmeno necessaria. Invocare una cosa che non c’è e non serve ha solo la conseguenza (voluta ?) di non cambiare nulla e di non risolvere nulla.