E’ la via che evita
deflagrazioni, compensa gli effetti economici della crisi sanitaria, supera le
disfunzioni dell’eurosistema. Perché ancora non la si percorre ?
Nella serata del
9 aprile, l’Eurogruppo ha partorito un accordo che nella migliore, anzi proprio
nella più sfrenatamente ottimistica delle ipotesi, è completamente inutile.
Abbiamo un SURE
(il meccanismo UE di gestione della disoccupazione) che è una partita di giro
tra soldi dati e messi dagli Stati, e che erogherà cifre (al netto di
contributi e garanzie) del tutto inadeguate.
Idem per il
potenziamento dei fondi BEI.
Non parliamo poi
del MES: l’utilizzo senza condizioni è reso possibile solo per i costi legati
alla crisi sanitaria. Assolutamente no per gli ammontari, enormemente superiori,
necessari a fronteggiarne le conseguenze economiche.
Quanto a un
meccanismo d’intervento comune con debiti mutualizzati, c’è un riferimento
molto vago e nessun impegno preciso. Non ho alcun dubbio che non si tradurrà
mai in niente di concreto e operativo. E’ sempre stata la tattica tedesca, del
resto: esprimere un vago possibilismo, non prendere nessun impegno definito, e
poi non fare nulla.
In sintesi: un
risultato inesistente (se il MES “condizionato” non verrà mai attivato) o
pessimo (in caso contrario).
L’Italia aveva,
e ha, strade diverse per fronteggiare l’impatto economico del Coronavirus ?
certo. E senza chiedere niente alla UE, dalla quale niente di utile arriverà
mai.
Le linee secondo
le quali occorre procedere sono le seguenti.
La BCE ha
deliberato un estensione del programma di QE che per l’Italia vale, pro-quota,
220 miliardi di lire.
Bene, l’Italia inizia
a emettere questi 220 miliardi e completa il programma, compatibilmente con l’esigenza
di non “ingolfare” il mercato, nei tempi più rapidi possibili.
Il rapporto
debito pubblico / PIL dell’Italia a fine 2020, secondo alcune stime recenti,
schizzerà a qualcosa tipo il 160% rispetto al 135% attuale, come effetto
combinato di un deficit (quindi crescita del numeratore) del 10% e di un calo
del PIL intorno, anche questo, al 10%.
Partivamo da 135
/ 100, arriviamo a 145 / 90 = 160% (161% per i pignoli… ma sono stime
approssimative, ordini di grandezza, non possono essere previsioni puntuali, a
questo stadio).
Tutto ciò
premesso, alla UE, come si diceva, non si
deve chiedere assolutamente nulla.
Occorre invece sviluppare
una serie di azioni di politica economica – investimenti e assunzioni nel
settore pubblico (nell’immediato, specialmente nella sanità), integrazioni di
redditi, spesa sociale, riduzione di tasse – emettendo CCF per alcune decine di
miliardi all’anno.
Questo, in
aggiunta alle azioni di “tamponamento” da attuare (il più rapidamente possibile:
soldi a cittadini in difficoltà e ad aziende che rischiano di chiudere) con i
220 miliardi di BTP.
I CCF non
rientrano nel debito pubblico secondo le definizione dei trattati (“Maastricht
Debt”) e non devono essere collocati sul mercato.
Ancora più
importante, i CCF non danno luogo a impegni di rimborso: quindi non è possibile
forzare lo Stato italiano al default
sui CCF.
L’Italia deve
avviare tutto questo, dichiarando fin da subito, unilateralmente, come impegno
non tanto o non solo nei confronti della UE, ma nei confronti dei mercati
finanziari, della comunità internazionale, dell’universo mondo, che
l’Italia non
darà luogo alla rottura dell’euro (non ne ha bisogno perché con i CCF ne
risolve le disfunzioni), e che
il rapporto
debito pubblico / PIL scenderà di cinque punti percentuali all’anno, rispetto
al livello di fine 2020. Dal 160%, caleremo quindi al 60% in vent’anni.
La riduzione
avverrà in primo luogo grazie al recupero del PIL, già nel 2021, per effetto
dell’essersi lasciati alle spalle (speriamo !) l’emergenza sanitaria.
E il recupero sarà
rafforzato delle azioni espansive attuate mediante i CCF.
Se mancherà
qualcosa al raggiungimento dell’obiettivo, si aumenteranno le emissioni di CCF
nella misura necessaria.
Non c’è da
temere (da parte dei partner europei)
un qualsiasi tipo di “indisciplina” nell’emissione dei CCF. I CCF non sono
soggetti a rimborso in euro e quindi non c’è nessun rischio di default da “tamponare” (in uno scenario
sfavorevole).
L’essenziale è
che i CCF che giungono a scadenza ogni anno rimangano una modesta frazione del
gettito fiscale lordo del settore pubblico (oltre 800 miliardi nel 2019).
Nel caso si
esageri, ci sarà uno svilimento di valore dei CCF in circolazione (troppi CCF
che rischiano di ingenerare “vischiosità” al momento di utilizzarli come sconti
fiscali). Ma quand’anche questo scenario si verificasse, sarà esclusivamente un
problema italiano.
Se tutto questo
è vero, se questo percorso è noto, perché la politica è silente ?
In realtà non lo
è del tutto. Anzi.
Una proposta di legge è stata depositata per la discussione in Senato da parte dei deputati M5S
Cabras e Trano (e firmata da 90 parlamentari).
I Minibot proposti
da Claudio Borghi della Lega sono anch’essi uno strumento di Moneta Fiscale
(come i CCF).
Un piano di salvezza nazionale che prevede, tra i vari strumenti, la Moneta Fiscale è stato
sottoscritto da 23 membri del parlamento (e da 20.000 cittadini).
La politica non
è silente, ma le voci di chi ha compreso la direzione in cui muoversi sono
avversate da interessi costituiti fortissimi. E le ragioni non sono difficili
da comprendere.
Il progetto CCF
(e/o altre varianti sul tema “Moneta Fiscale”) ridanno discrezionalità di
azione allo Stato.
Riducono,
quindi, l’influenza dei mercati finanziari.
E limitano lo
strapotere di un fortissimo sistema di interessi costituiti, tra loro collegati:
la UE, la BCE, gli Stati Nordeurozonici, i grandi gruppi finanziari e industriali.
Le resistenze
sono quindi enormi.
Ma la totale
emergenza del momento può, anzi deve, essere la leva per far rompere gli
indugi.