Insieme a
Stefano Sylos Labini, ho conosciuto Jean-Paul Fitoussi soltanto a fine 2021: pochi
mesi, ma di intensissima interazione e confronto sul nostro Progetto Moneta
Fiscale, che ha attratto il suo interesse in maniera sempre più accentuata via
via che lo approfondiva.
Perché il
Progetto aveva catturato il suo interesse ? perché ne aveva percepito le
valenze per risolvere le disfunzioni della moneta unica europea e per
trasformare l’Eurozona in un’area di sviluppo economico condiviso e solidale.
Moneta Fiscale è
qualsiasi titolo o attività che possa essere utilizzato dal detentore per
compensare obbligazioni finanziarie dovute al settore pubblico. È quindi un
diritto a uno sconto fiscale, e può essere scambiato per ottenere beni, servizi
o un corrispettivo finanziario, da controparti che lo accettino su base
volontaria. Il settore pubblico nazionale si impegna ad accettarlo in
compensazione (come sopra definita) ma non ad effettuare pagamenti in cash.
Per comprendere
la logica del Progetto occorre sgombrare il campo da alcune affermazioni
insensate che purtroppo ancora orientano (per fortuna meno che in passato) il
dibattito economico. In particolare, si sente tuttora dire che il deficit e il
debito del settore pubblico sono “gravami” per l’economia.
L’affermazione è
sbagliata, per la ragione fondamentale che il deficit è l’eccesso della spesa
del settore pubblico rispetto al prelievo fiscale. Questo eccesso di spesa, per
evidenti ragioni contabili, si tramuta in saldo positivo a disposizione del
settore privato. Se il pubblico spende più di quanto tassa, il privato riceve
più di quanto paga: incrementa quindi i suoi redditi e i suoi risparmi.
Il deficit
pubblico PUO’ rappresentare un problema ma SOLO in presenza di una di queste
due situazioni: l’immissione di potere d’acquisto nell’economia crea (a) livelli
di inflazione indesiderata, OPPURE (b) scompensi nei saldi commerciali esteri
(il potere d’acquisto immesso dal settore pubblico defluisce verso l’estero).
L’Italia ha
adottato feroci politiche di austerità nonostante NON soffrisse di nessuna di
queste due situazioni: l’inflazione fino al 2021 è stata inferiore alle medie
dell’Eurozona nonché ai target BCE; la NIIP (Net International Investment
Position) è positiva; i saldi commerciali con l’estero sono stati, dal 2014 al
2021, eccedentari per 40-60 miliardi annui.
In tutti questi
anni, in altri termini, maggiori deficit pubblici avrebbero generato un
ARRICCHIMENTO per il paese. Avrebbero messo a disposizione del settore privato
nazionale capacità di spesa senza alzare l’inflazione a livelli indesiderati
(anzi, casomai l’avrebbero avvicinata ai target BCE), e senza creare scompensi
nei conti con l’estero.
Quanto al debito
pubblico, un paese che emette la sua moneta non ha bisogno di emettere debito
per finanziare il deficit. Spende, semplicemente, accreditando le controparti
tramite i suoi conti correnti presso l’istituto di emissione.
In questo modo
immette risparmio finanziario nell’economia. L’emissione di debito pubblico è
un servizio offerto al settore privato per impiegare, in un investimento a
basso rendimento ma sostanzialmente privo di rischio, il risparmio stesso. Non
ha però una necessità logica; è un evento successivo, potrebbe anche non aver
luogo.
La gravissima
disfunzione dell’euro consiste proprio nell’aver spossessato gli Stati membri
dalla possibilità di effettuare spesa pubblica netta senza passare tramite il
collocamento di debito presso i mercati finanziari; e di averli costretti ad
emettere debito in una moneta di cui nessuno Stato ha il controllo.
Gli Stati hanno
quindi dovuto utilizzare, come canale di finanziamento dei deficit, un debito
che incorpora un rischio di default che in circostanze normali (emissione di
moneta sovrana) non sarebbe esistito.
Disfunzione
pesantissima, che impedisce, in varie circostanze, agli Stati di effettuare
politiche economiche anticicliche. Ne segue il rischio – già visto in passato –
di aggravare in modo disastroso situazioni di difficoltà che adeguate politiche
anticicliche avrebbero consentito di superare rapidamente.
L’Unione Europa
ha modificato la sua attitudine nei confronti della gestione della finanza
pubblica degli Stati membri, perlomeno rispetto a quanto avvenuto durante la
crisi dei debiti sovrani (2011-3).
Allora, si
chiedeva agli Stati in difficoltà di attuare contemporaneamente riforme
economiche e di ridurre i deficit pubblici. Le politiche di “consolidamento
fiscale” hanno invece pesantemente aggravato la crisi, provocando cadute di PIL
e accrescendo, in luogo di diminuire, il rapporto tra debito pubblico e PIL
medesimo.
La UE ha
riconosciuto l’errore. Il Piano Nazionale di Resilienza e Ripresa (PNRR),
precondizione per l’accesso ai fondi del NextGenerationEU (NGEU), non prescrive
riforme “e” austerità”, ma riforme “insieme a” politiche espansive.
Il problema è
che la dimensione del NGEU, spesso definita “immensa”, “ciclopica”, “oceanica” e
via iperboleggiando, è in realtà carente.
I mezzi
finanziari messi a disposizione all’Italia vengono stimati in circa 200
miliardi. Di questi, tuttavia, 120 sono finanziamenti e incidono sul deficit:
non rappresentano quindi soldi in più immessi nell’economia ma solo una fonte
di approvvigionamento alternativa rispetto all’emissione di titoli di Stato.
Gli altri 80
miliardi, cosiddetti “grants” o “contributi a fondo perduto”, a fondo perduto
in realtà non sono, in quanto dovranno essere compensati da futuri versamenti o
tasse. Almeno temporaneamente, danno comunque un beneficio: ma insufficiente, tenuto
conto che verranno resi disponibili nell’arco di 4-5 anni.
Draghi stesso è consapevole
dell’insufficienza del PNRR. In più occasioni ha affermato che il Patto di
Stabilità e Crescita (PSC) non potrà essere riattivato in forma invariata. Ma
le posizioni degli Stati membri sono antitetiche. I mediterranei vogliono un
PSC più flessibile ed espansivo; i paesi del Nord ne chiedono il ripristino in
termini invariati, se non più rigidi e restrittivi.
I paesi del Nord
temono che un eccesso di debito pubblico di altri Stati membri possa dar luogo
a eventi di default o alla spaccatura della moneta unica. Non accettano però un'illimitata e incondizionata garanzia da parte della BCE.
Il compromesso
politicamente perseguibile consiste nel mantenere l’impegno alla riduzione del
rapporto debito pubblico / PIL degli Stati, tenuto conto che il debito pubblico
di riferimento NON include la Moneta Fiscale.
La Moneta
Fiscale potrà quindi essere utilizzata per attuare le politiche espansive
necessarie al raggiungimento e al mantenimento del pieno impiego delle risorse
produttive del paese.
La Moneta
Fiscale non comporta impegni di pagamento da parte dello Stato emittente, che
quindi non potrà mai essere forzato da situazioni di mercato finanziario ad
andare in default. L’impegno di accettazione (per compensare obblighi
finanziari verso lo Stato emittente stesso) potrà sempre essere onorato.
Un'eventuale “indisciplina”
di uno Stato (eccesso di emissione di Moneta Fiscale) al massimo depaupererà il
valore della Moneta Fiscale di quello Stato, perché circoleranno più titoli di
quanti se ne riesca a utilizzare nelle scadenze prestabilite. Ma questa eventualità
(peraltro del tutto improbabile) non avrà un riflesso sull’assetto generale
dell’eurosistema né forzerà la BCE o gli altri a dover intervenire per
preservarne la stabilità. Resterà un problema interno allo Stato in questione.
La Moneta
Fiscale potrà essere utilizzata sia per finanziare interventi di spesa pubblica
(pubblico impiego, spesa sociale, investimenti, sostegno ai redditi) che per
ridurre il carico fiscale effettivo (senza necessariamente ridurre tasse o imposte,
bensì erogando Moneta Fiscale al contribuente).
La Moneta
Fiscale può inoltre essere utilizzata come mitigante dell’inflazione, ritornata
a essere un problema in seguito al dissesto delle catene di fornitura di
materie prime e componenti, prodotto dalla ripartenza post Covid e aggravato
poi dalla crisi ucraina.
Erogazioni di
Moneta Fiscale agli utilizzatori di energia, carburanti, prodotti alimentari
allevierebbero grandemente i problemi che oggi affliggono imprese e consumatori
(e in maniera particolarmente sensibile le fasce sociali disagiate).
Una parte delle
erogazioni di Moneta Fiscale potrà inoltre essere effettuata a beneficio dei
datori di lavoro, riducendo il peso effettivo del cuneo fiscale. Le produzioni
italiane diventeranno così più competitive, evitando che parte dell’effetto
espansivo del progetto Moneta Fiscale si disperda in peggioramento dei saldi
esteri.
Non occorre che
BCE, UE o Stati membri forniscano garanzie addizionali. Si saranno create le
condizioni per ridurre, gradualmente ma costantemente, il peso del debito a
rischio di default rispetto a un PIL finalmente in crescita stabile. La constatazione
che le macrodisfunzioni del sistema sono state finalmente risolte è adeguata
per rassicurare i detentori del debito pubblico che il sistema è diventato,
finalmente, stabile e affidabile.
Il progetto
Moneta Fiscale è stato criticato da alcuni commentatori in quanto, si afferma,
non c’è certezza che l’espansione economica prodotta dalla disponibilità di
maggior potere d’acquisto produca PIL e quindi gettito fiscale lordo in misura
corrispondente agli sconti fiscali, via via che questi diventano utilizzabili.
Il motivo è che l’effetto
espansivo è governato dai cosiddetti “moltiplicatori fiscali”, sulla cui
dimensione (come su qualsiasi manovra di politica economica) a priori si
possono formulare ragionevoli ipotesi, non previsioni precise al centesimo.
Va però chiarito
un equivoco: non occorre che questa equivalenza perfetta si verifichi, perché
un eventuale ammanco potrebbe facilmente essere compensato incrementando
gradualmente nel tempo le emissioni di Moneta Fiscale.
Ad esempio, la formulazione
originaria del Progetto prevede che gli sconti fiscali che diventano via via
utilizzabili (con un differimento temporale di due anni rispetto all’emissione)
arrivino gradualmente a 100 miliardi di euro annui.
Gli incassi
totali lordi del settore pubblico italiano sono dell’ordine di 800, e saliranno
con l’espansione del PIL nominale. Emettere qualcosa più di 100 nell’anno in
cui 100 di sconti fiscali vengono utilizzati significa che continuerà a esistere
un’enorme differenza tra Moneta Fiscale in circolazione e incassi lordi del
settore pubblico. Il rischio che le emissioni di Moneta Fiscale raggiungono
livelli tali da svilirne il valore è, in pratica, infinitesimale.
La Moneta
Fiscale non è un meccanismo per rompere l’euro. Risolvendone le disfunzioni, ne
garantisce in effetti la continuità, oggi periodicamente revocata in dubbio.
Non è uno
strumento sostitutivo, ma integrativo dell’euro. Il Progetto prevede che la
circolazione di Moneta Fiscale in Italia possa raggiungere qualche centinaio di
miliardi, mentre il valore totale delle attività finanziarie detenute dal
settore privato nazionale è dell’ordine di 5.000 circa.
Sono queste le
considerazioni che a nostro parere rendono il Progetto Moneta Fiscale un
passaggio cardine per rimettere in carreggiata l’economia italiana e l’assetto
dell’Eurozona. Jean-Paul Fitoussi ne ha compreso le valenze e ci ha incoraggiati
nel nostro sforzo di elaborazione e di proposta.
L’ha fatto
perché era un grandissimo economista e uno splendido essere umano. Perché il
suo desiderio era che il nostro continente riprendesse la strada di uno
sviluppo economico armonico, solidale, inclusivo, rispettoso della coesione
sociale.