Paul Krugman
torna sull’argomento, con alcune considerazioni che si collegano a quanto s’era
detto qui, e ad altre che potrete leggere nel libro.
In sintesi: il Quantitative
Easing consiste nell’acquisto, da parte della Banca Centrale, di titoli di
Stato e attività finanziarie, per immettere liquidità nell’economia nelle
situazioni in cui i tassi d’interesse praticati dalla BC al sistema bancario
sono scesi pressoché a zero, ma questo non basta a uscire da una situazione di
trappola della liquidità e di depressione.
Krugman ha
ragione a sostenere che il QE è figlio delle critiche della scuola monetarista di
Milton Friedman alle politiche keynesiane. In pratica la posizione monetarista è: la politica fiscale
(sostegno alla domanda mediante incremento della spesa o riduzione delle tasse)
non è indispensabile e neanche opportuna, la politica monetaria è sufficiente a
stabilizzare l'economia.
Normalmente una
situazione di economia debole si gestisce abbassando i tassi d’interesse da
parte della BC; se non è sufficiente ecco che entra in azione il QE. Che quindi
svolge le funzioni, per così dire, di una “super-riduzione dei tassi”.
In realtà questo
non è affatto sufficiente. Per quanto la BC si dia da fare a sostenere il
valore di un ampio ventaglio di attività finanziarie, e quindi a ridurre i
tassi d’interesse su tutte queste attività, la propensione alla spesa del
pubblico (consumatori e aziende) aumenta ben poco perché il clima generale è
depresso e pessimistico.
Se l’economia è
depressa, se c’è un forte livello di disoccupazione, se non si riesce a uscire
dalla trappola della liquidità, serve un’azione diretta di sostegno alla
domanda.
Una cosa,
rispetto alle argomentazioni di Krugman, è giusto aggiungerla. Le critiche
monetariste alla politiche di sostegno della domanda attuate nel secondo
dopoguerra partivano da una constatazione corretta. Per motivi, diciamo così,
di “marketing politico”, ci si era appellati a Keynes per promuovere interventi
di “deficit spending” in periodi in cui l’economia non era depressa.
Questo non è
keynesismo. E’ riallocazione della spesa. Se faccio deficit (nel senso che
aumento il delta tra spesa e tasse, aumentando la prima o abbassando le
seconde) con l’economia in una situazione di domanda e occupazione normale, non
ottengo benefici diretti sulla domanda e sul PIL totali.
Se finanzio il
deficit con moneta, aumenta l’inflazione. Se lo finanzio con debito, aumento i
tassi. In un modo o nell’altro, il sostegno alla domanda si vanifica perché “spiazza”
altre forme di spesa.
Ma i
monetaristi, partendo da una critica corretta (la politica fiscale è
scarsamente efficace nello stimolare la domanda quando l’economia non è depressa),
hanno finito per formulare un’asserzione sbagliata (la politica monetaria è
sempre e comunque l’unica che serve).
Modeste
oscillazioni del ciclo economico possono essere “normalizzate” con aumenti o
diminuzioni dei tassi d’interesse, e in generale delle condizioni di accesso al
credito (politica monetaria).
Ma quando si
verifica uno dei rari eventi di depressione economica, di trappola della
liquidità, la politica monetaria diventa molto poco efficace, e anche la “super-facilitazione
del credito” mediante QE non ottiene gli effetti necessari sulla domanda.
Rari eventi,
dicevo: gli anni Trenta sono stati un caso, oggi ne abbiamo un altro. E’ questa
la situazione a cui si riferiva Keynes. E per uscirne (anche rapidamente) la
soluzione rimane quella che proponeva lui: politiche di sostegno della domanda.