Conosco Alberto Forchielli da un po’ meno di trent’anni, quando lui era parecchio più giovane e
io stranamente pure. Io, fresco di laurea Bocconi, lavoravo all’Iniziativa
ME.T.A., una holding quotata che coordinava le partecipazioni non industriali
del Gruppo Montedison. Lui, fresco di MBA ad Harvard, faceva consulenza
strategica per conto di un’organizzazione internazionale, che annoverava Montedison
tra i suoi clienti.
E’ un bel po’ di
anni che non ci si vede, ma abbiamo frequenti contatti via social network.
Contatti affettuosamente battibeccanti. Leggo con molto interesse i suoi
commenti su temi di geopolitica e innovazione, argomenti su cui sono spesso e
volentieri pochissimo informato. Contesto con molto puntiglio le sue
esternazioni in materia di macroeconomia, argomento su cui invece ho opinioni
forse giuste, forse sbagliate, ma sicuramente molto precise, molto sentite – e,
generalmente, alquanto discordanti dalle sue.
Pochi giorni fa,
Romano Prodi – di cui Forchielli è stato a lungo uno stretto collaboratore –
raccontava in un articolo sul Messaggero che “usando l’esagerazione come
strumento didattico Alberto Forchielli, in un recente confronto televisivo…
affermava che l’Italia si va orientando verso una struttura simile a quella del
Messico, dove convivono tre diverse organizzazioni economiche. Una prima
formata da imprese eccellenti che sfidano i mercati internazionali, una seconda
che opera in un mercato informale, sfruttando le imperfezioni del mercato e
utilizzando mano d’opera scarsamente specializzata e ancora più scarsamente
garantita e remunerata. Infine una corposa parte del Paese vive nell’evasione
delle regole e nell’illegalità”.
Perché tutto
questo ? pochi paragrafi sopra Prodi ci informa in merito a “un dato molto
semplice ma sorprendente. La lunga crisi di produttività (e quindi di
efficienza) del nostro sistema produttivo e la contemporanea crisi mortale di
tante aziende sono state infatti accompagnate da un’ottima tenuta della nostra
bilancia commerciale, largamente attiva nel settore manifatturiero. Tutto
questo mette in rilievo che, pur nella scomparsa delle nostre grandi imprese,
abbiamo centri di eccellenza che, nonostante tutti i nostri limiti, si
affermano nei mercati internazionali, vincendo i concorrenti tedeschi, cinesi e
americani. Se, nonostante queste affermazioni, la produttività non aumenta,
questo significa che una parte troppo grande del nostro sistema economico non è
capace di trasformarsi e vive cercando nicchie di mercato interno che si vanno
sempre più restringendo, proprio per il cattivo andamento dei nostri consumi e
dei nostri investimenti e per la pervasività della globalizzazione”.
Ma cari Prodi e
Forchielli, e se la spiegazione fosse molto più semplice ? anzi se CI FOSSE una
spiegazione (quella sopra è una constatazione, che non spiega) ?
Dalla metà degli
anni Novanta in poi, le politiche fiscali italiane sono state costantemente
orientate in senso restrittivo. Prima per “centrare l’aggancio all’euro”, poi
per rimanere nei parametri imposti dall’Eurosistema – parametri che dal 2011 in
poi hanno subito un ulteriore, pesantissimo giro di vite, in un momento straordinariamente
inopportuno (in quanto le economie di quasi tutti i paesi occidentali non
avevano ancora recuperato gli effetti della crisi finanziaria del 2008).
Politiche
restrittive significa limitazione della spesa, aumento delle tasse, deflazione
salariale. E tutto questo punta nella medesima direzione: contrazione del
mercato interno. Stupisce, allora, che le aziende orientate all’export tengano
botta, mentre soffrono quelle che operano prevalentemente sul mercato domestico
? semplicemente, le prime lavorano dove c’è crescita, le seconde dove la domanda
viene costantemente calmierata.
E siccome di solo
export non si vive, nonostante dati di bilancia commerciale “sorprendentemente”
(secondo Prodi) positivi, PIL e occupazione non riescono a recuperare le
perdite del periodo 2009-2013. Il che comprime la redditività delle imprese e
le risorse per investire e per fare innovazione. Molto dura, per non dire
impossibile, che tutto questo non retroagisca negativamente sulla produttività.
“Entia non sunt
multiplicanda praeter necessitatem” affermava il noto economista postkeynesiano Guglielmo di Occam. Che, non letteralmente ma in pratica, significa che le
spiegazioni semplici di solito sono quelle giuste. Invece di teorizzare
l’”involuzione antropologica” della popolazione italiana (concetto spesso
evocato da Forchielli, non ho capito quanto seriamente: Prodi direbbe che è
un’altra “esagerazione utilizzata come strumento didattico”…) meglio, credo, prendere
atto che si vende, si cresce e si innova dove c’è domanda. Dove te la tolgono continuamente
da sotto il naso, contraendo il potere d’acquisto in circolazione, no.
Forse è meglio
partire dalla constatazione che l’aggancio all’euro è stata una cantonata
colossale presa del nostro paese: perché il debito pubblico – in moneta
nazionale e prevalentemente finanziato da risparmio interno – non era affatto il problema che veniva descritto. Mentre un sistema che impone costanti azioni
restrittive per “pagare” un debito che a questo punto è diventato realmente un problema (essendo espresso
in moneta che non emettiamo) ottiene vari risultati nessuno dei quali
particolarmente lusinghiero: comprime la crescita. Abbatte l’occupazione. E NON
permette neanche di pagare il debito - perché, com’è o dovrebbe essere noto a
tutti, il rapporto debito / PIL può calare se, e solo se, aumenta il
denominatore.
L’uscita dai
problemi dell’economia italiana passa da un’azione di rilancio della domanda,
principalmente dove manca: quindi, anche e soprattutto a partire dalla domanda
interna. Azione di rilancio possibile anche senza arrivare alla rottura
dell’euro, se si adottano strumenti appropriati.
A quel punto si risolverà, per inciso, un altro problema che “amareggia e sorprende” il professor Prodi (e credo pure il mio amico Forchielli): vedere che i ricavi delle cessioni di “molte
delle nostre più grandi e floride imprese” “non sono stati per niente investiti
nel fare progredire le nostre strutture produttive”.
Perché l’imprenditore italiano è – inevitabilmente
– prima imprenditore, e poi italiano. La liquidità la investe dove ci sono
incentivi adeguati. Che sono, prima di ogni altra cosa, domanda interna tonica
e fiscalità non eccessiva. Reintroduciamole e ci ritroveremo, in pochi anni, a
parlare non di “rischio messicanizzazione”, ma di un’economia italiana che è
tornata florida, dinamica, innovativa e creativa.