lunedì 29 maggio 2023

Sul limite di debito pubblico USA

 

Naturalmente (il contrario sarebbe follia pura) l’accordo sull’innalzamento del limite di debito pubblico USA è stato trovato. Comporterà tuttavia alcuni tagli di spesa sociale, ben poco opportuni, che l’amministrazione democratica dovrà concedere ai repubblicani.

Sarebbe molto utile che il limite venisse semplicemente rimosso, una volta per tutte. Ma pare che nessuno dei due partiti USA voglia assumersi la responsabilità di eliminare questa presunta forma di controllo dell’indebitamento nazionale, forse perché teme le strumentalizzazioni politiche che ne seguirebbero (strumentalizzazioni di cui tendono a rendersi responsabili, per la verità, i repubblicani, non i democratici, almeno a quanto mi risulta).

Il problema nasce quando uno dei due partiti (di solito i democratici quando sono al governo, appunto) approva un budget espansivo e nel frattempo si verificano in contemporanea due cose: il partito al governo perde la maggioranza in parlamento in seguito alle elezioni di medio termine (cosa abbastanza frequente), e l’anno dopo si va a sbattere contro il limite.

Basterebbe, in definitiva, che in presenza di tali (potenziali) condizioni, il partito che approva il budget fiscalmente espansivo in contemporanea alzasse anche il limite di debito pubblico, almeno quanto basta per non avere problemi fino alle elezioni successive.

Perché non venga fatto mi riesce misterioso. Ma la finanza pubblica è una materia semplice, piena però di misteri in merito a come viene descritta e interpretata dai media, dalla pubblica opinione e in ultima analisi anche dai decisori politici.

Un mistero il perché non si capisca che emettere debito pubblico non è affatto necessario.

Un mistero il perché sfugga che la condizione naturale degli stati è il deficit, non il pareggio o il surplus del bilancio pubblico.

Un mistero il perché non si comprenda che, di conseguenza, se si pretende di finanziare il deficit emettendo titoli, l'ammontare in circolazione di questi titoli, quindi il debito pubblico, nel tempo non può che aumentare.

Un mistero il perché ci si preoccupi della solvibilità di uno stato che emette la moneta in cui s’indebita, anzi, in cui s’”indebita”.

Certo, la confusione su questi argomenti viene alimentata da soggetti a cui torna comodo che esista. Ma suvvia, basta poco sforzo per capire come stanno in realtà le cose.

Sforzo che tuttavia solo una minoranza, crescente ma ancora minoranza, della popolazione, a tutt’oggi è arrivata a mettere in atto. Capisco che la persona media abbia altri pensieri per la testa, riassumibili nel concetto di “pensare ai fatti propri e non a quelli che non si è in grado di cambiare”.

Però questo atteggiamento della collettività causa danni. Grossi.

 

venerdì 26 maggio 2023

Aggiornamento sui tassi USA

 

Un mesetto abbondante fa ho espresso il mio scetticismo in merito alla possibilità che i tassi d’interesse USA possano essere ridotti già nel 2023.

I mercati finanziari in questo mese si sono mossi nella direzione di convergere verso la mia previsione.

Il 19 aprile scorso, i rendimenti dei tassi sui titoli di Stato USA erano (su base annualizzata) il 5,26% a quattro mesi, il 4,84% a un anno, il 4,27% a due anni e il 3,97% a tre anni.

Oggi abbiamo il 5,47% a quattro  mesi, il 5,26% a un anno, il 4,52% a due anni e il 4,19% a tre anni.

Un incremento notevole, specialmente sulla scadenza annuale.

In parole povere, la previsione di abbassamento dei tassi rimane (la curva è declinante), ma il momento in cui è previsto l’inizio della discesa si sposta in avanti.

Confermo quanto detto un mese fa: sarei stupito di vedere riduzioni nei tassi d’intervento Fed prima del 2024, e per l’avvio della discesa punto sul secondo semestre (del 2024) molto più che sul primo.

domenica 21 maggio 2023

Cambi, transazioni commerciali e transazioni finanziarie

 

Parlavo non molto tempo fa di come la politica di controllo dei tassi adottata in Giappone, che schiaccia a zero o poco più i rendimenti dei titoli di Stato anche a lunga scadenza, contrariamente a quanto spesso si sostiene produce una certa debolezza del cambio, ma solo entro certi limiti. Non certo un deprezzamento esponenziale e irreversibile.

La ragione è semplice. Se la debolezza del cambio non innesca inflazione (e proprio l’esempio del Giappone prova una volta di più che questo non accade), la svalutazione trova un suo limite naturale nelle transazioni commerciali. Altrimenti detto, i beni e servizi prodotti all’interno del paese diventano così convenienti da innescare domanda estera. E la maggior domanda estera compensa la tendenza del risparmio interno a cercare maggiori rendimenti fuori dal paese.

Detto in altri termini, la tendenza del cambio a indebolirsi spinge i movimenti di capitale verso il deficit ma i saldi commerciali verso il surplus. C’è quindi un fattore di riequilibrio che ferma il declino del cambio ben prima che diventi esponenziale.

Spesso mi viene obiettato che data la facilità con cui è possibile muovere i capitali, le transazioni finanziarie sono complessivamente di importo multiplo, anche di decina o centinaia di volte, rispetto a quelle commerciali.

Ma quest’ultimo è un fattore in realtà irrilevante, perché l’ammontare totale delle transazioni finanziarie dipende delle attività di trading – c’è chi compra e c’è chi vende – che vanno appunto in entrambe le direzioni. Il saldo netto delle transazioni finanziarie è dello stesso ordine di grandezza del saldo netto delle transazioni commerciali, anche se il -100 delle prime può essere generato da -10.000 e +9.900 e il +100 delle seconde da +500 e -400.

E quello che conta è il saldo netto. Al limite la maggior velocità delle transazioni finanziarie può anticipare l’effetto di pressione al ribasso del cambio prima che avvenga il riequilibrio. Ma il riequilibrio, magari con un ritardo di mesi (non certo di anni) arriva.

 

giovedì 18 maggio 2023

La redditività di Fabio Fazio

 

Non ho mai assistito dall’inizio alla fine a una puntata di “Che tempo che fa”, e a essere sinceri la qualità dell’informazione fornita dal programma di Fabio Fazio mi lascia piuttosto perplesso. In particolare da quando ha pensato bene di spiegare l’economia al colto & all’inclita utilizzando, per parecchie emissioni, Carlo Cottarelli in qualità di espositore.

Segnalo comunque l’opportunità di riflettere su un’argomentazione “pro-Fazio”: quella secondo la quale la sua trasmissione generava redditività e quindi è stato, sul piano strettamente aziendale, un errore (da parte della RAI) privarsene.

La riflessione è necessaria perché sarà anche vero, come ho letto, che la trasmissione costava 10 milioni all’anno e produceva ricavi pubblicitari per 14.

Sarà anche vero, ma questi ricavi derivano da un’audience molto elevata: dovuta certamente all’apprezzamento di molti per la trasmissione, ma anche al fatto che andava in onda in un giorno e in un orario (domenica in prima serata) di punta per quanto riguarda gli ascolti.

I 14 milioni insomma non li faceva solo la produzione di Fazio, ma la combinazione trasmissione + fascia oraria / giorno della settimana.

E la prima serata di domenica è un “alimentatore di audience” che non arriva da Fazio, ma c’è a prescindere da lui, e resterà a disposizione della RAI.

Altrimenti detto, è senz’altro possibile che un altro programma veda calare di parecchio audience e pubblicità, ma costi anche molto meno. Per esempio, che produca 10 milioni di ricavi a fronte di 4 di costi (quattro milioni che sono comunque un bel po’ di soldi per realizzare un programma).

Forse sì e forse no. Ma questa analisi compete alla RAI, e solo sulla base di questa si può stabilire se, su base strettamente di conto economico, rinunciare a Fazio sia un cattivo affare o magari anche no.

 

martedì 16 maggio 2023

Moneta Fiscale e debito di Maastricht

 

Semplifichiamo e sintetizziamo il tema della Moneta Fiscale e del suo impatto sulla finanza pubblica.

Eurostat ha stabilito due principi (lasciamo perdere se giusti o sbagliati) molto chiari: la Moneta Fiscale aumenta il deficit quando viene emessa, ma non è debito pubblico (nel senso in cui il debito pubblico viene definito dal trattato di Maastricht).

I critici del progetto Moneta Fiscale ribattono: oggi non è debito, ma prima o poi la MF verrà usata per compensare tributi da pagare, quindi A PARITA’ DI ALTRE CONDIZIONI aumenterà il debito pubblico.

Certo: ma questo è un evento futuro, non attuale. Se il problema è far declinare il debito di Maastricht (in proporzione al PIL) siamo nel campo delle previsioni: la Moneta Fiscale aumenterà (in futuro) il debito A PARITA’ DI ALTRE CONDIZIONI, ma le “altre condizioni” NON sono pari, perché nel frattempo l’immissione di Moneta Fiscale nell’economia avrà stimolato PIL e gettito erariale lordo.

Quindi l’impatto sul debito va valutato tenendo conto degli effetti compensativi, e SOLO NEL CASO in cui questi effetti non fossero sufficienti, occorrerà IN FUTURO intervenire.

E qui entrano in gioco gli interventi previsti dalle clausole di salvaguardia non procicliche: sostituire spese in euro con spese in Moneta Fiscale, imporre tasse in euro compensate da Moneta Fiscale, allungare il periodo di utilizzabilità della Moneta Fiscale riconoscendo interessi, collocare titoli a lunga scadenza rimborsabili in Moneta Fiscale.

Finché il debito di Maastricht (in rapporto al PIL) scende conformemente agli impegni presi in sede UE, nel caso anche mediante l’utilizzo delle clausole di salvaguardia, non c’è nessun problema – e nessun motivo per cui la commissione UE si debba intromettere, chiedendo tagli o tasse o altri interventi restrittivi.

Se poi un paese esagererà nell’emettere Moneta Fiscale, creandola in eccesso rispetto al gettito lordo, svilirà il valore della SUA Moneta Fiscale nazionale. Ma non quello dell’euro.

Casomai potrà essere opportuno coordinarsi con la BCE, assumendosi un impegno a non disallineare l’inflazione rispetto alla media dell’Eurozona.

Va comunque ricordato che la Moneta Fiscale può essere utilizzata anche per mitigare l'inflazione.

 

sabato 13 maggio 2023

Un equivoco sull’impatto inflazionistico dei deficit

 

Credo sia opportuno chiarire un equivoco in cui spesso si cade parlando del deficit pubblico e del suo impatto sull’inflazione

L’equivoco è pensare che il deficit abbia un impatto inflazionistico se è realizzato emettendo moneta, impatto che invece non esisterebbe, o sarebbe inferiore, in caso di emissione di titoli di Stato.

Dimostra di non avere le idee chiare su questi temi perfino un premio Nobel come Paul Krugman, e lo si comprende dall’affermazione che vedete qui di seguito.

“La Federal Reserve può, e lo farebbe, sterilizzare qualsiasi impatto sulla base monetaria vendendo titoli di Stato – in modo che, in termini monetari, il coin sarebbe semplicemente un mezzo alternativo per attuare un finanziamento perfettamente normale”.

Krugman sta qui parlando di come superare lo stallo che periodicamente (e anche in queste settimane) si produce negli USA a seguito del debt ceiling, la soglia di debito pubblico che il governo si impegna a non superare in assenza di un’autorizzazione parlamentare. Una normativa insensata perché il valore monetario del debito nel tempo aumenta. Il limite viene periodicamente spostato in alto, ma quando il parlamento è controllato da un partito e il presidente è dell’altro (come oggi) spesso e volentieri la revisione è il pretesto per richiedere concessioni che creano un clima di incertezza, e anche di tensione sui mercati finanziari.

Una soluzione possibile è che il governo emetta un trillion dollar coin, una moneta commemorativa di importo facciale gigantesco, che verrebbe depositata presso la banca centrale. Il governo avrebbe così un deposito bancario da cui attingere senza bisogno di emettere titoli.

Questa manovra è, almeno sulla carta, possibile, perché la legge consente al governo USA di emettere monete commemorative ma non ne fissa alcuna soglia massima di valore…

Krugman afferma che questo aumenterebbe la base monetaria, cioè la quantità di depositi bancari esistenti, ma non ci sarebbe da preoccuparsi degli effetti sull’inflazione perché la Fed ritirerebbe moneta dalla circolazione vendendo una parte dell’enorme portafoglio di titoli di Stato in suo possesso (quello acquistato durante gli anni del quantitative easing).

In realtà, Krugman fornisce una soluzione (la “sterilizzazione” della base monetaria) a un problema inesistente.

Il motivo per il quale lui, come tanti altri, pensa che deficit sia più inflazionistico se attuato emettendo moneta, è che la moneta si spende, i titoli no: i titoli sono una forma di impiego del risparmio privato.

Ma il punto che sfugge è che il deficit pubblico incrementa SEMPRE il risparmio privato, perché se lo Stato spende più di quando preleva in tasse (cioè se esiste un deficit pubblico) il settore privato incassa più di quando paga.

In parte la generazione di risparmio privato si può produrre all’estero se il deficit peggiora i saldi commerciali e la bilancia dei pagamenti, ma questo è un altro tema.

Dato ciò, non è la quantità di moneta in circolazione che incrementa la spesa e (potenzialmente) l’inflazione, ma l’incremento di reddito e di ricchezza del settore privato.

Che questo incremento di ricchezza sia poi detenuto dal settore privato sotto forma di moneta o di titoli è solo un’alternativa di impiego di una ricchezza finanziaria che è comunque sempre quella.

La moneta viene emessa e qualcuno quindi spenderà di più. Magari il ricevente comprerà titoli, o li comprerà il beneficiario di secondo livello, o di terzo – quarto – quinto della spesa. Ma tutti questi soggetti percepiranno di essersi arricchiti, ed è la verità.

Se chi riceve moneta decide di comprarci titoli, sarà comunque più propenso a spendere i saldi monetari di cui dispone, perché il titolo di Stato è un equivalente monetario, prontamente liquidabile, e perché le sue disponibilità totali sono aumentate.

Del resto, se vi alzassero lo stipendio di diecimila euro all’anno pagandovi in BTP, sareste più propensi a spendere o no ? certo che sì. Anche se magari i BTP ve li tenete, ma decidete di utilizzare di più i vostri saldi monetari

Oppure, se non avete saldi monetari o ne avete troppo pochi, i BTP li vendete per spendere, ma la moneta rimane in circolo e il sistema (nel suo complesso) riceve, quindi i soldi che servono per comprare i BTP che vendete voi.

Detto altrimenti, il trillion dollar coin se mai ne esisterà uno, o più in generale qualsiasi deficit pubblico attuato emettendo moneta, non ha nessun effetto inflazionistico diverso da quello che si avrebbe se fossero emessi titoli. Senza bisogno di “sterilizzare” nulla.

 


domenica 7 maggio 2023

L’insensata demonizzazione delle PMI

 

Un altro tema di cui ho parlato tempo addietro, e un altro luogo comune duro a morire: la presunta inefficienza causata all’economia italiana da una dimensione media delle aziende inferiore agli standard degli altri paesi.

Vero, le piccole aziende tendono a essere meno “produttive” delle grandi, se la produttività è misurata in termini di valore aggiunto per addetto. Vero, gli investimenti tecnici tendono a essere inferiori (sempre rispetto alle grandi) in proporzione al fatturato aziendale, o ad altri indicatori dimensionali.

Quello che viene regolarmente trascurato è che il valore aggiunto è una misura di redditività (non di produttività fisica), ma una misura di redditività LORDA. Si tratta delle disponibilità economiche (ante imposte) che l’azienda genera e che devono remunerare il lavoro E IL CAPITALE IMPIEGATO.

E tra l’altro è una misura di redditività ante ammortamenti. Significa che il valore aggiunto deve anche coprire l’usura di impianti e macchinari, che devono essere costantemente e adeguatamente rinnovati e sostituiti: altrimenti l’azienda ha una vita residua di pochi anni.

Le grandi aziende tendenzialmente sono più capital intensive delle piccole, e la ragione è intuitiva. Grossi investimenti a parità di dimensione tendono a tagliar fuori le piccole aziende imprenditoriali, che si concentrano in attività che possono essere avviate e sviluppate con risorse finanziarie e accesso al capitale limitati.

Non è quindi affatto detto che una grande azienda, con grossi fabbisogni d investimenti per addetto, abbia più soldi a disposizione per remunerare il lavoro (altrimenti detto, per pagare stipendi più alti).

Non è affatto detto che cresca più velocemente. Non è affatto detto che contribuisca più delle piccole al benessere economico del paese.

E una prova molto chiara di queste ultime affermazioni sta nel fatto che PRIMA DELL’EURO e dei vincoli europrescritti, l’economia italiana cresceva, in produttività del lavoro e in reddito procapite, quanto se non più degli altri paesi europei occidentali. Nonostante la dimensione aziendale fosse in Italia, esattamente come oggi, inferiore alla media europea.

Aumentare la dimensione media delle aziende italiane, quand’anche si sapesse come fare, è la classica non soluzione a un non problema.

Salvo adottare politiche che intervengano sul tema VERO - far crescere di più l’economia, e quindi le dimensione delle aziende SIA PICCOLE CHE GRANDI, liberandosi della vera palla al piede dell’economia italiana: i vincoli dell’eurosistema.

Per esempio, con la Moneta Fiscale.


venerdì 5 maggio 2023

Pentimenti britannici ?

 

Non demordono, sui social network, i sostenitori della tesi che i cittadini del Regno Unito siano pentiti della Brexit. Motivo ? ne starebbero derivando danni inenarrabili all’economia.

Richiesti di fornire dati a supporto di questo presunto sfacelo economico, naturalmente non sono in grado di farlo: i dati macro dalla Brexit in poi non evidenziano alcun andamento del PIL britannico significativamente peggiore di quello dei principali paesi UE (se c’è qualche modesta differenza, tende anzi a essere a favore del Regno Unito).

L’ulteriore linea di “argomentazione” è “sì ma la gente è pentita, io conosco questo e quell’altro che stanno lì e dicono che è stato un errore”. Questa non vale la pena di commentarla perché siamo al livello del “mi ha detto mio cuggino” di Elio (quello delle storie tese).

Qualche commento meritano invece coloro che citano sondaggi di opinione. Ce ne sono, certamente, alcuni che rilevano una maggioranza di popolazione  dubbiosa sui benefici della Brexit. Ma i sondaggi vanno presi per quello che sono: stime, tra l’altro fortemente influenzate dal tipo di domanda che viene posta e dal come viene posta. Non risultati elettorali.

Sondaggi secondo i quali la maggioranza stava dalla parte dei remainers se ne sono visti, e parecchi, anche prima del referendum del 2016, delle elezioni europee del 2019 e delle elezioni politiche dello stesso anno. Dopodiché i leavers hanno vinto il referendum, il Brexit Party di Nigel Farage ha ottenuto un fortissimo livello di consensi alle europee e Boris Johnson ha vinto le politiche con una piattaforma di completamento della Brexit (poi infatti avvenuta a fine gennaio 2020).

C’è un’altra considerazione di cui comunque i sostenitori del pentimento albionico dovrebbero tenere conto. Se i cittadini britannici sono veramente, in larga misura, “pentiti”, perché nessuno dei due partiti maggiori sta inserendo il re-ingresso nella UE nel suo programma elettorale ?

Il sostegno – così come il non sostegno – alla Brexit erano e sono trasversali nell’elettorato. Sia i conservatori che i laburisti erano spaccati. Alla fine comunque la Brexit l’hanno attuata, e se la sono intestata, i conservatori. Se ci fosse questo massiccio pentimento di cui qualcuno si dice convinto, quantomeno i laburisti dovrebbero farne un cavallo di battaglia elettorale, giusto ?

E invece nulla di tutto ciò. Né il principale partito di maggioranza né quello di opposizione stanno facendo della Brexit, cioè del suo eventuale annullamento, un punto chiave di proposta politica.

Le opinioni dei singoli esistono, e meritano rispetto. La propaganda UE pure esiste, e merita molto meno rispetto. Ma il pentimento britannico come fatto politico non esiste. Se non appunto in quella certa propaganda.

 

mercoledì 3 maggio 2023

Quello che non viene capito

 

Se è vero, come è vero, che la moneta è un bene pubblico, e se è vero, come è vero, che lo Stato deve essere il responsabile della sua emissione e della sua gestione, non c’è nessuna ragione per cui un deficit pubblico debba creare un rischio d’insolvenza per lo Stato medesimo.

Inoltre, se è lo Stato a creare moneta e a immetterla nell’economia, è perfettamente normale che la immetta in eccesso rispetto a quanto preleva in tasse, perché l’economia cresce nel tempo e quindi le grandezze sia reali che monetarie in circolazione DEVONO aumentare.

Il deficit pubblico è quindi la condizione normale dell’economia, e produce automaticamente risparmio privato: se lo Stato spende più di quanto tassa, il settore privato riceve più di quanto paga. Si tratta di una pura e semplice identità contabile.

È opportuno che al settore privato sia data la possibilità di depositare questo risparmio presso l’istituto di emissione statale, con un modesto tasso d’interesse (tendenzialmente allineato all’inflazione prevista), per dare la possibilità di mantenere inalterato il potere d’acquisto del risparmio medesimo, senza correre rischi.

Ma preoccuparsi di questo “debito dello Stato” è un non senso, perché è un “debito” rimborsabile nella moneta stessa che lo Stato emette.

Già oggi, del resto, anzi da sempre, le banche private possono depositare i loro eccessi di liquidità presso l’istituto di emissione. Sono le cosiddette riserve bancarie: che nessuno si sogna di considerare parte del debito pubblico.

Solo la separazione tra Stato ed istituto di emissione obbliga lo Stato a finanziare i propri deficit con moneta che non gestisce, creando dal nulla un potenziale problema di finanza pubblica che non ha nessun motivo logico o tecnico di esistere.

Questo è il tema che una parte troppo larga dell’opinione pubblica non comprende, e che deve invece arrivare a capire, per rendersi conto che il problema del debito pubblico è INVENTATO DAL NULLA.

Un’invenzione scellerata, perché crea all’economia problemi che non hanno ragione di esistere.

 

lunedì 1 maggio 2023

I “deficit gemelli”: un errore da matita blu

 

Il concetto dei “deficit gemelli” ha attraversato alcuni anni di grande popolarità durante la presidenza Reagan – si parla quindi di una quarantina d’anni fa – quando si verificò, negli USA, una contemporanea impennata del deficit pubblico e del deficit commerciale.

Per motivi mai ben chiariti, parecchi commentatori erano convinti, in quel periodo, che il doppio deficit preannunciasse non si sa bene quali cataclismi.

Oggi la popolarità di questo presagio di sciagura è decisamente inferiore (altri l’hanno sostituito), però l’idea ogni tanto ritorna a galla.

Qualche giorno fa, ad esempio, ho visto comparire su Twitter questo grafico, riferito ai paesi UE.


I due deficit vengono sommati, e per di più la didascalia recita external financing needs. La fonte del grafico tra l’altro è un’istituzione di ricerca di un certo prestigio, Oxford Economics.

Un’istituzione quindi che non dovrebbe commettere errori marchiani. E invece quella didascalia, e quindi il grafico stesso, lo sono.

Il deficit pubblico di per sé non comporta NESSUNA esigenza di finanziamento “esterno”. Ogni volta che il settore pubblico produce un deficit, cioè spende più di quanto preleva (con le tasse), si genera un surplus nel settore privato, che riceve più di quanto paga. Si tratta di un’identità contabile, che potremmo tranquillamente definire una tautologia.

Naturalmente il settore privato che beneficia di questo surplus può essere, almeno in parte, il settore estero e non quello nazionale. Altrimenti detto, l’eccesso di spesa può essere utilizzato per comprare beni e servizi esteri.

Ma se questo si verifica, il fenomeno è catturato dal deficit commerciale, o per essere più precisi, effettivamente, dal saldo delle partite correnti (un concetto più esteso che include anche i redditi degli investimenti e i trasferimenti unilaterali).

Un deficit delle partite correnti comporta, certo, un external financing need. Ma il deficit pubblico invece NO. O se vogliamo, solo per la parte che alimenta deficit di partite correnti – ma quella parte è giù catturata in QUEL saldo.

Sommare i due deficit quindi equivale a effettuare un doppio conteggio e a ottenere un risultato privo di senso.

Come privo di senso è il concetto stesso di “deficit gemelli”.