Un paio di giorni fa, è uscito sul Sole 24Ore un articolo di Guido Tabellini, che mi pare si
possa sintetizzare come segue. Non è possibile fare passi avanti nell’integrazione
economica dei paesi appartenenti all’Unione Monetaria, se l’Italia non attua azioni finalizzate a “ristabilire la fiducia reciproca”, in primo
luogo facendo scendere “il debito pubblico” che “ha raggiunto livelli che
mettono a repentaglio la stabilità finanziaria, non solo dell’Italia”.
Ora, quest’ultima
affermazione la si sente ripetere da quasi cinque anni, cioè dall’avvio di
politiche di austerità e di consolidamento fiscale che hanno prodotto una
pesantissima compressione di PIL e occupazione, nonché (a seguito dell’effetto
sul denominatore) un netto peggioramento
del rapporto debito pubblico / PIL.
Nell’articolo si afferma che “la Germania non si fida più del Sud Europa”. Può essere, ma mi
pare ancora più corretto dire che non solo il Sud Europa, ma l’Eurozona nel suo
complesso – o quantomeno una larghissima parte dei suoi cittadini – non si fida
più delle possibilità di successo delle politiche economiche su cui s’impernia la
governance dell’Unione Monetaria. E
questa mancanza di fiducia è ampiamente giustificata, peraltro, da quanto è
avvenuto soprattutto dal 2011 in poi.
D’altra parte che
forma potrebbero assumere queste azioni finalizzate a far scendere il debito
pubblico ?
Un intervento
fiscale restrittivo – in forma di tasse e/o tagli – significa la cancellazione
di quel minimo alito di crescita del PIL che, bene o male, l’Italia ha ottenuto
nel 2015, riproponendo le stesse dinamiche perverse che hanno pesantemente
danneggiato l’economia nazionale, soprattutto nel 2012 e nel 2013.
Un intervento una tantum sotto forma di una pesante
imposta patrimoniale produrrebbe effetti analoghi.
Un'alternativa è un
grosso piano di dismissione di attivi pubblici. Che, comunque, implica lo
spossessamento (probabilmente a condizioni sfavorevoli) di patrimonio statale,
ed avrebbe senso solo se si accompagnasse a concessioni sul fronte dell’attuazione
di azioni fiscali espansive – alcuni punti di incremento del deficit pubblico
per qualche anno, in altri termini. Non credo che ci sarebbe alcuna apertura,
al riguardo, da parte delle autorità UE / UEM.
Tutt'altro effetto avrebbe, invece, emettere titoli
fiscali (Certificati di Credito Fiscale, CCF) utilizzabili per ridurre
pagamenti altrimenti dovuti alla pubblica amministrazione (per tasse, imposte o
per qualsiasi altra causale) a partire da una data futura prestabilita – per esempio
due anni dopo l’assegnazione originaria.
E assegnare gratuitamente
i CCF a cittadini e aziende, per integrare redditi, incrementare spesa sociale,
cofinanziare investimenti di pubblica utilità, ridurre il costo del lavoro
lordo che grava sulle imprese, eccetera.
Il CCF è un titolo
che non “mette a repentaglio” la stabilità finanziaria del paese emittente, in
quanto non ha natura debitoria: non deve essere rimborsato in euro, in altri termini.
E’ vero che, nel
momento in cui giunge a scadenza, il CCF ceteris
paribus riduce (nella misura in cui viene utilizzato dal possessore) le
entrate fiscali dello stato emittente. Ma nel frattempo l’economia è ripartita
(perché il CCF ha valore fin dal momento in cui viene emesso, in quanto dà
diritto a un beneficio futuro ma certo, e costituisce quindi un effettivo
accrescimento di reddito e potere d’acquisto per chi lo riceve). Si producono
quindi aumenti di PIL e di gettito sufficienti a compensare (a scadenza) l’utilizzo
dei CCF.
Un’azione di
questo tipo consente all’Italia, credibilmente
e plausibilmente, di assumere l’impegno
a mantenere in pareggio, in ogni singolo
anno, le entrate e uscite pubbliche (intese come euro incassati ed euro
pagati).
Il successo dell’azione
è supportato, in primo luogo, dall’ampio livello di capacità produttiva
inutilizzata dell’economia italiana. Il PIL reale 2015 è 9% inferiore a quello del 2007, il che
equivale a 150 miliardi di minor prodotto e probabilmente a circa 70 di minor
gettito. E’ assurdo pensare che, ripristinando adeguati livelli di domanda, l’Italia
non possa tornare, in qualche anno, almeno
ai livelli di PIL reale conseguiti nove
anni fa. E questo implica, ovviamente, anche riassorbire la disoccupazione
e mettere fine alla crisi.
Se poi qualche
evoluzione congiunturale meno favorevole del previsto mettesse in dubbio il
conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica in singoli anni, possono
essere comunque attuate una o più delle seguenti azioni compensative.
Su base volontaria,
possono essere proposte, ai titolari di CCF che giungono a scadenza, posticipazioni di data di utilizzo, in cambio di incrementi nel valore facciale
dei CCF stessi (in pratica, un tasso d’interesse pagato in “moneta fiscale”).
Sempre su base
volontaria, il Ministero dell’Economia può emettere “CCF di lunga scadenza” per
rifinanziare, o anche per riacquistare in anticipo, titoli di debito pubblico
che andrebbero altrimenti rimborsati in euro.
Nell’eventualità (molto
improbabile) che tutto quanto sopra non sia sufficiente, possono essere introdotte
tasse da pagare in euro, ma compensate da erogazioni di CCF al contribuente;
oppure determinate quote di spesa pubblica possono essere sostenute in CCF e
non in euro.
In sintesi, il
successo del progetto CCF è ottenuto in primo luogo rimettendo al lavoro le
risorse produttive inutilizzate del sistema economico italiano.
Se questo non
bastasse, si fa leva (su base volontaria o, molto al limite, forzosa) sull’alto
livello di risparmio privato esistente in Italia.
Poiché l’Italia non
ha mai accumulato alti deficit commerciali, la sua posizione finanziaria netta
sull’estero è solo modestamente negativa (25% circa del PIL). Non sorprende
quindi che a fronte dell’alto debito pubblico esista molto risparmio privato. In
effetti, si spiega tutto in termini di partita doppia.
Il meccanismo sopra
delineato fa leva sul risparmio privato (ove mai non bastasse il recupero di
capacità produttiva oggi inutilizzata) per garantire il debito pubblico: ma non abbattendo il primo per pagare il
secondo (con conseguenze depressive sulla domanda), bensì convertendo titoli di
debito (da rimborsare in euro) in titoli fiscali (non soggetti a rimborso).
Va anche notato
che se si “esagera”, cioè se si emettono quantità eccessive di CCF, il rischio
è quello dello svilimento di valore del CCF nazionale, non dell’euro. Gli
effetti di una politica eccessivamente espansiva, in altri termini, ricadono
sul paese che la attua, non sugli altri membri dell’Eurozona.
Può darsi che
esistano alternative per sbloccare lo stallo in cui l’economia italiana e la governance dell’Eurozona si sono venute
a trovare. Io, però, in tutta franchezza, non ne vedo (e infatti l'articolo di Tabellini non le indica). Salvo una forte azione di Helicopter Money da parte della BCE: ma è un’ipotesi fuori dal controllo del governo italiano.