martedì 28 giugno 2016

Brexit



Fossi un cittadino britannico, avrei votato per l’uscita, per una ragione molto semplice: il progetto di integrazione UE è fallimentare, e anche se il Regno Unito – grazie al fatto di essere fuori da Maastricht, da Schengen e dal Fiscal Compact – subisce le conseguenze di questo fallimento in misura molto inferiore rispetto (per esempio…) all’Italia, non vedo l’utilità di rimanere associati a una costruzione in pieno sfaldamento.

Detto questo, posso capire che sulla base di valutazioni strettamente opportunistiche e di breve termine la scelta del Remain fosse difendibile. Ridefinire un sistema di accordi commerciali, di circolazione delle persone e di cooperazione economica è complesso e richiede tempo. Sono convinto che verrà fatto senza particolari effetti distorsivi né inefficienze (rispetto alla situazione odierna, quanto meno). Però si poteva sicuramente valutare – e molti Remainers senz’altro avranno ragionato così – che in termini di stretta convenienza, per il Regno Unito le ricadute negative di essere nella UE (ma non in Maastricht, non in Schengen, non nel Fiscal Compact) non giustificassero le complicazioni del passaggio Brexit.

Tuttavia, pur rispettando queste argomentazioni, avrei votato Leave perché dover affrontare alcune complicazioni non giustifica - come alternativa - accettare di ridurre spazi di democrazia – e la UE è un’istituzione la cui antidemocraticità si definisce sempre più chiaramente.

Dal punto di vista di chi nella UE ci rimane, e in particolare dell’Italia e degli altri Stati membri dell’Eurozona, sarebbe auspicabile che il Brexit fosse un punto di svolta per correggere le paurose disfunzioni dell’Eurozona: patti di stabilità, Fiscal Compact, regolamentazione bancaria eccetera. Francamente non me lo aspetto. L’incapacità di Bruxelles, di Berlino e di Francoforte  di comprendere e correggere l’impostazione del sistema è stata fin qui totale, e segnali di ripensamento non ne vedo.

Gli scenari di possibile soluzione del problema mi sembrano essere i due seguenti. Azioni unilaterali di singoli Stati, che correggano l’inefficienza del sistema senza sfasciarne l’architettura: e in merito al tema euro, il progetto CCF è in grado di ottenere questi risultati.

Oppure, la UE che perde altri tasselli – Francia, Olanda, Italia, Austria, paesi dell’Est ? – avviando, nei fatti, un processo di scioglimento. Al termine del quale una cosa che si chiama UE potrebbe anche continuare a esistere, ma limitata a un sistema di accordi commerciali e di cooperazione economica. La vecchia CEE, per intenderci.

giovedì 23 giugno 2016

Utili esercizi di traduzione

Tradurre nel modo più accurato possibile una citazione di John Maynard Keynes è un esercizio che raccomando. Tradurre richiede di riflettere in modo approfondito sul significato di ciò che si legge – altrimenti è impossibile renderlo in un’altra lingua con la necessaria precisione e significatività.

Inoltre, la prosa di JMK era elegantissima. Un esempio è questo. Un altro, qui di seguito.


“Too large a proportion of recent “mathematical” economics are mere concoctions, as imprecise as the initial assumptions they rest on, which allow the author to lose sight of the complexities and interdependencies of the real world in a maze of pretentious and unhelpful symbols”.

“Una quota troppo ampia della recente economia “matematica” è un semplice intruglio, impreciso tanto quanto le supposizioni iniziali su cui si basa, che permette all’autore di perdere di vista le complessità e le interdipendenze del mondo reale in un labirinto di simboli pretenziosi e inutili”.


Keynes non diceva tutto questo per inattitudine a maneggiare numeri e simboli. Era laureato in matematica, non in economia.

Si rendeva tuttavia conto che i dati quantitativi sono un elemento essenziale per comprendere le “complessità e interdipendenze del mondo reale”; ma, nello stesso tempo, le relazioni che li collegano non richiedono, per essere comprese, strumenti matematici raffinati quanto quelli abitualmente utilizzati dalle scienze fisiche. Al contrario, la complessità del modello analitico rischia di danneggiare, in luogo di agevolare, la comprensione del fenomeno economico sottostante.


Per questa ragione, l’utilizzo dell’analisi infinitesimale in articoli o testi di economia mi crea diffidenza. E ancora di più me ne creano conclusioni basate su modelli analitici, se non si prestano a essere tradotte in un linguaggio discorsivo e allo portata di individui di media cultura, purché discretamente volonterosi di applicarsi al tema.

martedì 21 giugno 2016

CCF: ripartizione delle assegnazioni e delle clausole di salvaguardia



Le emissioni di CCF potranno essere suddivise in modo da far leva su vari fattori di espansione della domanda interna e di miglioramento di competitività del sistema produttivo italiano.

Su una dimensione totale a regime di 120 miliardi annui si può ipotizzare una ripartizione del tipo seguente:

IR = Integrazione di redditi da lavoro, 40 miliardi annui.
CF = Assegnazioni alle aziende a riduzione del cuneo fiscale, 40 miliardi annui.
SS = Interventi di spesa sociale, 20 miliardi annui.
IO = Investimenti e opere di pubblica utilità, 20 miliardi annui.

La parte destinata alle aziende, a titolo di riduzione del cuneo fiscale (CF), si traduce in una riduzione dei costi di lavoro dipendente pari al 9% circa, tenuto conto che tali costi equivalgono oggi all’incirca a 450 miliardi annui.

Questa riduzione corrisponde a un beneficio della stessa percentuale per il CLUP medio delle aziende italiane, e quindi a un incremento di competitività. Si ottiene il risultato di incentivare le esportazioni e anche di far recuperare quote di mercato interno ai produttori domestici.

Le assegnazioni di CCF, in ogni singolo anno, daranno luogo, ceteris paribus, a riduzioni di gettito fiscale a due anni di distanza. Ipotesi cautelative sull’espansione di PIL reale e nominale conseguenti alla maggiore circolazione di potere d’acquisto e al recupero di competitività delle aziende, consentiti dal progetto CCF, portano a stimare che la crescita di gettito prodotta dalla ripresa sarà superiore al calo dovuto all’utilizzo dei CCF.

E’ comunque possibile introdurre un sistema di clausole di salvaguardia che preveda azioni compensative da attuare solo se, e nella misura in cui, l’effetto espansivo dei CCF su PIL e gettito sarà inferiore alle attese.

A titolo di esempio, le clausole di salvaguardia potrebbero agire su:

IVA = aliquote IVA, fino a un massimo di 56 miliardi annui.
IMU = imposte sugli immobili, fino a un massimo di 32 miliardi annui.
RS = revisioni di spesa, fino a un massimo di 32 miliardi annui.

E la ripartizione temporale degli interventi potrebbe essere la seguente

TI = totale interventi espansivi mediante assegnazioni di CCF
TU = totale utilizzi CCF effettuati dagli assegnatari
CDS = massima attivazione possibile delle clausole di salvaguardia


                    2017  2018  2019  2020  2021  2022 e successivi

IR                10      20      30      40      40      40
CF               10      20      30      40      40      40
SS               5        10      15      20      20      20
IO               5        10      15      20      20      20

TI                30      60      90      120    120    120
TU                                 30      60      90      120

IVA                                 14      28      42      56
IMU                                8        16      24      32
RS                                  8        16      24      32

CDS                               30      60      90      120

L’eguaglianza TU = CDS in ogni singolo anno garantisce la totale compatibilità del progetto CCF con i vincoli di bilancio previsti da normative, trattati e regolamentazioni UE.

venerdì 17 giugno 2016

“Moneta fiscale”: le disfunzioni dell’euro sono risolvibili

L’uscita “secca” dall’euro è un’opzione molto difficile da percorrere, e questo sta diventando evidente anche agli schieramenti politici che, con ragioni molto fondate, criticano l’attuale conduzione economica dell’Eurozona. Non è chiaro come potrebbero essere gestite le tensioni e l’instabilità che si produrrebbero sui mercati finanziari nell’imminenza di un “break-up”. A maggior ragione se la decisione fosse sottoposta a un referendum preventivo, che ha tempi non brevi di attuazione e incertezze in merito al risultato finale.

La “moneta fiscale” supera questi problemi perché consente di creare potere d’acquisto e liquidità complementare rispetto all’euro, senza mettere in atto rotture.

La “moneta fiscale” potrebbe essere introdotta sotto forma di Certificati di Credito Fiscale (CCF), titoli utilizzabili per ridurre pagamenti dovuti alla pubblica amministrazione (tasse, imposte, contributi eccetera) a partire da una certa data futura: per esempio, due anni dopo l’emissione.

Il M5S ha già presentato un progetto di legge (elaborato a cura del deputato Girolamo Pisano) per una prima applicazione dei CCF, in particolare rivolta ai settori delle ristrutturazioni e dell’edilizia sostenibile. Ma i CCF possono costituire la base di un progetto di rilancio economico molto più ampio.

I CCF possono, infatti, essere assegnati gratuitamente a lavoratori e pensionati per integrare i loro redditi, e alle aziende per ridurre i costi di lavoro lordi e migliorarne immediatamente la competitività. Potrebbero inoltre finanziare iniziative di spesa sociale quali il reddito di cittadinanza, nonché investimenti e opere di pubblica utilità.

I CCF sono un credito tributario non pagabile in euro, e ai sensi dei regolamenti Eurostat non costituiscono indebitamento. A differenza di BOT e BTP, non vengono emessi per raccogliere denaro che deve essere restituito alla scadenza. Non interferiscono quindi, al momento dell’emissione, con i parametri imposti dai trattati e dalle normative europee.

Per chi li riceve, peraltro, i CCF hanno valore immediato, perché costituiscono un diritto patrimoniale (diritto a beneficiare di sconti d’imposta) di importo finale certo. Il ricevente li può quindi convertire in euro vendendoli sul mercato finanziario come un normale titolo di Stato, o anche utilizzarli come corrispettivo per acquisti di beni e servizi con controparti disposti ad accettarli.

L’assegnazione di CCF stimola quindi una forte ripresa dell’occupazione e del PIL, che produrrà anche maggiori entrate fiscali lorde, più che sufficienti a compensare la perdita di gettito prodotta dai CCF stessi quando giungeranno a scadenza e cominceranno a essere utilizzati. In tal modo, l’Italia può rimettere in modo l’economia e, nello stesso tempo, avviare una rapida riduzione del rapporto debito pubblico / PIL.

La “moneta fiscale” è una strada molto più semplice e meno traumatica dell’uscita “secca” dall’euro. Potrebbe andare nel tempo a sostituire totalmente l’euro, creando le condizioni per un’uscita “morbida”; ma potrebbe anche costituire uno schema permanente, adottato anche da altri paesi dell’Eurozona, per riavviare la crescita dell’occupazione e del PIL, risolvere finalmente la crisi economica, e sgombrare il campo dai rischi impliciti nell’attuale struttura disfunzionale dell’Eurosistema.