domenica 29 dicembre 2019

I “bravi” tedeschi che ci prestavano i soldi


Nei vari dibattiti twitter pre- e post-natalizi, mi sono imbattuto in una schiera di “euroausterici” che tra i motivi a favore della necessità / utilità, per l’Italia, di essere entrati nell’euro, citano i finanziamenti che varie organizzazioni sovranazionali e paesi esteri (soprattutto USA e Germania) hanno concesso negli anni Settanta al nostro paese.

Ecco vedete (è più o meno l’argomentazione), ai tempi della lira (in realtà, più esattamente, ai tempi degli shock petroliferi) eravamo costretti “ad andare dai tedeschi col cappello in mano, a mendicare soldi per pagare le importazioni”.

Le cose stanno, s’intende, molto diversamente. Se quei finanziamenti fossero serviti a pagare l’import, e dato che il loro ammontare corrispondeva ad alcuni mesi di acquisti dall’estero, saremmo stati costretti ad espandere costantemente il loro ammontare, fino ad arrivare a cifre abnormi e, con ogni probabilità, al default.

La verità è che la Germania, in omaggio alle sue consuete prassi mercantilistiche, cercava di opporsi alla rivalutazione del marco. E ci prestava soldi al fine di aumentare le riserve in valuta dell’Italia, in modo che potessimo immetterle nel mercato dei cambi e ritardare il più possibile il riallineamento valutario.

L’ultimo episodio di questo tipo si è verificato nel 1992. Per cercare di non uscire dallo SME (che era un accordo di cambi fissi) l’Italia (ma anche il Regno Unito, la Spagna e la Svezia) hanno bruciato decine di migliaia di miliardi (in lire) di riserve. Terminate le quali, lo SME è saltato.

Qualcuno mi ha ribattuto che se la spiegazione corretta fosse questa, la Germania invece di prestare soldi avrebbe potuto semplicemente emettere marchi e comprare lire (e sterline, e pesetas, e corone svedesi).

Ma figuriamoci se i tedeschi, con la loro fobia per l’inflazione, si sarebbero sognati di emettere marchi per comprare una moneta a rischio di svalutazione. Non l’hanno fatto nel 1992 (e si noti che in realtà la regolamentazione SME prevedeva che lo facessero: ma come si sa, la Germania è quel paese che fissa regole a cui gli altri si devono attenere. Quando tocca a loro, ti rispondono che “il Grundgesetz, l’interesse nazionale, prevale…”).

Negli anni Settanta hanno scelto la via dei finanziamenti, espressi in marchi e garantiti da oro. Finanziamenti che l’Italia ha peraltro integralmente ripagato. La Germania ha riavuto marchi, riscosso interessi e nel frattempo aveva la garanzia aurea.

E perché le autorità italiane hanno richiesto e/o accettato tutto questo ? ai tempi, perché si pensava che in un contesto inflazionistico rimandare o ritardare il riallineamento valutario fosse una necessità. Tesi dubbia, anche perché dopo poco tempo il riallineamento comunque avveniva.

Va sottolineato, in ogni caso, che stiamo parlando di un’epoca di inflazione alta e instabile. Anni luce distante da quella odierna, dove il problema è che la domanda interna, soprattutto in Italia ma mediamente, in effetti, in tutta l’Eurozona, è debole, e la BCE cerca disperatamente – senza riuscirci – di ottenere un po’ d’inflazione in più.


giovedì 26 dicembre 2019

Il limite alla quantità di CCF da emettere


Dei possibili limiti da introdurre, anche su base legale, avevo già parlato qui. Il principio da adottare, comunque, è molto semplice.

L’impegno da assumere, sempre e comunque, senza deroghe, è la diminuzione – in ogni singolo anno – del rapporto tra Maastricht Debt (il debito pubblico che è effettivamente tale: quello da rimborsare cash, e da rifinanziare costantemente sul mercato) e PIL.

In un anno di congiuntura debole, potrebbe rendersi necessario adottare uno o più dei meccanismi di salvaguardia non prociclici descritti qui.

Ma in ogni caso, il rapporto tra CCF in circolazione e incassi lordi della pubblica amministrazione assicura che il valore del CCF resterà sempre molto vicino a quello dell’euro.

La diminuzione costante del rapporto Maastricht Debt / PIL rappresenta la miglior tutela possibile per i finanziatori del Maastricht Debt stesso, ed è quindi garanzia di stabilità del sistema.

Il limite alla quantità di CCF da emettere è in definitiva connesso all’inflazione, definita in due modi differenti.

Non spingere la domanda di beni e servizi reali al di sopra della capacità produttiva del sistema economico, per non generare eccessi di inflazione dei prezzi al consumo.

Ed evitare che in singoli anni giungano a scadenza quantità di CCF così elevate da rendere difficoltoso, “vischioso”, utilizzarli tutti (il che comporterebbe la perdita di valore del CCF rispetto all’euro).

Rispettati questi principi, il sistema è efficiente e stabile.


martedì 24 dicembre 2019

Ordine del giorno CCF

Approvato l'ordine del giorno che impegna il governo a valutare l'introduzione dei Certificati di Compensazione Fiscale.

Complimenti a Pino Cabras, che non demorde.

Trovate qui il testo.

domenica 22 dicembre 2019

I poveri pensionati giapponesi


Il Giappone rappresenta una confutazione vivente della tesi secondo la quale l’alto debito pubblico produce alta inflazione, alti tassi d’interesse e rischi di default.

Il debito pubblico giapponese è pari al 240% del PIL, ma è in yen, ed è garantito dalla potestà di emissione monetaria del paese. La Banca Centrale in effetti ne ha acquistato quasi la metà del totale.

L’inflazione è a zero, i tassi d’interesse pure, e il mercato, correttamente, stima a livelli infinitesimali il rischio default dello Stato.

Curiosamente, qualche commentatore controbatte, di fronte a queste constatazioni, che “non tutto è perfetto nell’economia giapponese”. E ogni tanto a titolo di esempio vengono riportati articoli come questo: secondo i quali il sistema pensionistico è estremamente ingiusto e inefficace, al punto che un numero non irrilevante di anziani giapponesi commettono piccoli reati per farsi arrestare e sfuggire così all’indigenza e alla solitudine.

Dall’articolo, a dire il vero, pare che il problema sia più la seconda che la prima. Ma il punto non è questo.

Non ho la minima idea in merito a quanto il sistema pensionistico giapponese sia o non sia equo ed efficiente. Può darsi che sia orribilmente male impostato.

Ma se anche così fosse, questo non dimostra per niente che le difficoltà “nascono dal debito pubblico”.

Può darsi che l’allocazione delle risorse intermediate dal settore pubblico non sia in questo caso la migliore possibile. Può darsi che più yen dovrebbero andare ai pensionati. Queste sono scelte che competono al governo e al parlamento del paese, che a loro volta ne rispondono all’elettorato.

Rimane il fatto non esistono, ai livelli attuali (quasi doppi di quelli italiani) vincoli di allocazione delle risorse imputabili alla dimensione del debito.

Non ci sono prezzi fuori controllo. Non ci sono tassi fuori controllo. Non c’è nulla che impedisca di spendere di più per le pensioni.

Non c’è lo spauracchio dello spread che condiziona le politiche economiche del paese e genera paurosi livelli di disoccupazione, di sottoccupazione, di spreco delle risorse produttive (lasciandole in larga misura inoperose).

Questi problemi li ha l’Italia. Con un debito pubblico, in rapporto al PIL, pari a poco più della metà del Giappone: ma in euro, e con gli insensati meccanismi di funzionamento dell’euro.


venerdì 20 dicembre 2019

Ho lanciato un sondaggio su twitter

Ci sono stati 621 votanti nel giro di una settimana, tra il 12 e il 19 dicembre 2019.

Domanda: "Se la Lega va al governo, come agirà nei confronti del "Problema Euro"" ?

Uscirà                                             14,0%
Introdurrà CCF o varianti                17,7%
Rinegozierà i trattati                        19,5%
Non farà niente                               48,8%

Beh se non altro il "non farà niente" è sotto il 50%.

sabato 14 dicembre 2019

CCF: opuscolo informativo

Trovate a questo link la descrizione dettagliata della proposta di legge Certificati di Compensazione Fiscale (CCF) e dei suoi presupposti macroeconomici e giuridici.

La proposta di legge, presentata a Roma lo scorso 2 dicembre 2019, è già stata sottoscritta da circa 90 parlamentari.

giovedì 12 dicembre 2019

La battaglia del MES e la non-guerra dei CCF


Giusto e doveroso opporsi alla riforma MES: ma l’Italia deve procedere sulla strada dei CCF. Senza bisogno di “battagliare” con nessuno.

La scena politica di quest’ultimo paio di settimane è stata ampiamente occupata dai problemi connessi alla “riforma MES”. E con ottimi motivi. L’intero processo si è fin qui svolto in modo tale da prestare il fianco a serissime critiche, sia di metodo che di merito.

Nel metodo, è del tutto inaccettabile l’opacità con cui il governo Conte (sia I che II) ha condotto le interlocuzioni a livello UE, nonostante gli esponenti della maggioranza parlamentare gialloverde avessero espresso forti dubbi e riserve.

Nel merito, non si vede come questa riforma dovrebbe migliorare la posizione italiana nel contesto dell’eurozona. Mentre, al contrario, si delineano molteplici situazioni in cui potrebbe risultare (ulteriormente) deleteria.

Chi difende la riforma afferma, ad esempio, che il MES potrebbe supportare il fondo di risoluzione unico per le banche, rafforzandone le capacità d’intervento. Ma possiamo contarci, quando in passato è stata addirittura bloccata sul nascere (casi Etruria – Marche - Carife – Chieti) la possibilità di attivare il fondo interbancario italiano (organismo totalmente privato) adombrando (incredibilmente) il dubbio che si sarebbe trattato di un aiuto di Stato ? E infliggendo, di conseguenza, perdite a decine di migliaia di obbligazionisti ?

E’ molto più plausibile che, come già accaduto soprattutto con i casi greco e spagnolo, i nuovi meccanismi MES rendano ancora più facile addossare al “conto comune dell’Eurozona” e quindi anche all’Italia le perdite subite da banche francesi e tedesche.

Addirittura comica, poi, l’affermazione secondo la quale l’Italia non si deve preoccupare perché “il nostro debito pubblico comunque è sostenibile”. Quindi dovremmo impegnarci fino a un massimo di 125 miliardi per un meccanismo assicurativo del quale ci viene detto che non avremo necessità ?

Vi è mai venuto a trovare un agente assicurativo per dirvi “sottoscriva questa polizza, in teoria se si verifica il sinistro potremmo espropriarle la casa prima di pagare il rimborso, però non è un problema perché in realtà il sinistro è impossibile” ?

Tutto comico, dicevo: se non fosse tragico.

Il risultato della levata di scudi della Lega e anche di una parte del M5S è che la conclusione dell’accordo è stata rinviata a inizio 2020. La classica tattica UE di calciare il barattolo in avanti. E’ stato quindi evitato, per ora, il peggio, anche se il problema tornerà in primo piano tra pochi mesi.

Nel frattempo potrebbero essere accadute parecchie cose – tra cui magari la caduta del governo Conte II e le elezioni anticipate.

Poteva andare peggio. Però rimango estremamente preoccupato nel constatare che l’Italia continua a muoversi, affannosamente e con il rischio di non riuscire a tamponare le falle prima che la barca affondi, sempre e solo per evitare danni peggiori. Perché, tra parentesi, mi auguro anzi conto sul fatto che si riesca a non peggiorare il MES. Ma il MES comunque esiste, ed ha già fatto grossi danni così com’è.

Nello stesso tempo, continua a non vedersi una strategia di soluzione complessiva delle eurodisfunzioni.

Lo strumento esiste, ed è il progetto CCF. Ed esiste anche una significativa porzione di parlamentari M5S (una novantina in tutto) che hanno sottoscritto la proposta di legge che abbiamo presentato a Roma lo scorso 2 dicembre.

Non è poco, anzi potenzialmente è un passo decisivo. Purtroppo novanta parlamentari non sono la maggioranza della compagine M5S, e comunque il M5S al governo ci sta (per quanto ancora ?) con il PD, la cui unica preoccupazione è ingraziarsi l’establishment di Bruxelles. E negoziare, s’intende, contropartite non per il paese ma per i singoli. Un commissariato UE qui, un posto nel consiglio di amministrazione della grande istituzione finanziaria là.

Questo assetto non durerà. Ma la futura compagine governativa, quale che sia, deve dimostrare una chiarezza di idee che io continuo a non vedere.

La Lega per esempio è molto efficace nella comunicazione, nella critica, nel battage mediatico. Ma immaginiamo che a breve ci siano nuove elezioni e che Salvini diventi capo del governo, sostenuto da una compatta maggioranza. Come intende muoversi ?

Rompe l’euro – missione quasi impossibile, date le complessità politiche e operative ? rivede i vincoli di deficit – missione del tutto impossibile, dato che non c’è NESSUNA volontà da parte degli europartner di aprire questo tavolo ?

Il progetto CCF, invece, è sia attuabile che risolutivo. Non è una “battaglia da vincere” (contro chi, poi ?). E’ un progetto perfettamente compatibile con trattati e regolamenti UE, così come sono oggi.

Si tratta semplicemente di introdurre i Certificati di Compensazione Fiscale, spiegando con chiarezza (in termini tecnici, non strombazzati né imbonitori) che il rapporto tra Maastricht Debt (quello da rimborsare e rifinanziare sul mercato) e PIL calerà costantemente. E che questo sarà possibile in quanto le azioni espansive necessarie saranno attuate con i CCF.

La spiegazione serve non per chiedere autorizzazioni alla UE (non ce n'è alcuna necessità). Serve per chiarire ai mercati finanziari che la loro posizione creditoria diventa più forte, non più debole di prima.

E i mercati finanziari sono gli unici interlocutori che realmente contano. La UE e la BCE non danno soldi né garanzie. I mercati sì, da quando – errore ciclopico, catastrofico, ma è successo – l’Italia ha convertito il proprio debito pubblico da lire a moneta straniera.

Occorrono chiarezza di idee e determinazione. Ma non c’è da scendere in guerra contro nessuno.

La mia preoccupazione è che vedo un considerevole attivismo nel fare polemica da talk-show. Che per molti fini è anche utile, anzi indispensabile. Ma persone che abbiano (primo) identificato la linea di azione corretta, e che (secondo) abbiano concrete possibilità di essere alla guida (sui temi economici) del governo futuro, e quindi adottare la linea d’azione corretta - quelle non le vedo.

Magari mi sfugge qualcosa. Magari raffinate e abilissime strategie sono pronte per essere introdotte, non appena ce ne saranno le condizioni politiche.

Ma dopo sette anni di lavoro sul progetto CCF, durante i quali ho seguito da vicino l’eurodibattito e le varie idee che affioravano, mi appare difficile che nulla sia trapelato.

E questo mi lascia molto, molto perplesso.


sabato 7 dicembre 2019

giovedì 5 dicembre 2019

Chi risparmia e chi s'indebita


Il debito pubblico genera risparmio privato. Questo dovrebbe (credo) essere ormai chiaro a tutti. Se non ne siete ancora del tutto convinti, leggete qui.

Ma c’è una considerazione che mi viene ancora sottoposta da parecchi interlocutori. Sì certo, si dice, il debito pubblico genera risparmio privato. Ma i soggetti in causa non sono gli stessi. Non tutti riescono a risparmiare, su tutti invece grava il debito pubblico.

Naturalmente questa affermazione sottointende l’equivoco che il debito pubblico “gravi” su qualcuno. Al contrario, un debito pubblico in moneta propria, il cui cambio viene lasciato libero di fluttuare, non grava proprio su nessuno. Il paese che emette la moneta può rifinanziarlo finché vuole. Il problema potenziale è un altro – evitare eccessi di domanda che producano inflazione indesiderata. Ma in assenza di tensioni inflazionistiche, deficit e debito in moneta propria non sono né un “macigno” né un “onere”.

In aggiunta a ciò, tuttavia, occorre aver chiaro che il deficit pubblico immette risorse finanziarie nel sistema economico. Aumenta quindi la capacità generale del sistema privato di risparmiare. Dopo le immissioni di queste risorse, ci sarà, certamente, ancora qualche individuo che non ci riuscirà. Ma mediamente i livelli di risparmio individuale saranno più alti, e meno persone si troveranno nella condizione di non riuscirci.

Dopodiché, a tutti potrà essere offerta la possibilità di allocare il risparmio in titoli di Stato. Il che sarà un’opportunità per i singoli ma non una necessità per lo Stato emittente la propria moneta, che non ha bisogno di andare sul mercato per finanziare i propri deficit.

Maggiori deficit pubblici in moneta propria, fino al livello in cui non inneschino eccessi di inflazione o squilibri nei saldi commerciali esteri, producono maggiori redditi reali e maggior risparmio per la collettività nazionale. Se riduco i deficit pubblici in presenza di risorse produttive sottoutilizzate, ottengo al contrario meno risparmio totale, e impedisco di risparmiare a molti che diversamente vorrebbero e potrebbero farlo.

domenica 1 dicembre 2019

La battaglia del MES è una guerra dei bottoni


Purtroppo non riesco a definire diversamente la furibonda polemica che si è scatenata intorno alla riforma del MES.

Intendiamoci, reagire all’inaccettabile comportamento di Giuseppe Conte – un vero e proprio tradimento del mandato parlamentare – è più che doveroso.

Il problema, però, è che se anche si riuscisse a bloccare la riforma del MES, rimane il fatto che il MES comunque già esiste – e comunque è pessimo, già nella sua forma attuale.

La polemica e il connesso battage mediatico un importante beneficio lo producono: far capire, alla parte (preponderante, purtroppo) dell’opinione pubblica ancora ignara, quale assurdità sia per l’Italia il MES. Impegni per svariate decine di miliardi che non verranno mai utilizzati a nostro beneficio, ma al massimo per tamponare problemi di altri (vedi le banche francesi e tedesche in Grecia e in Spagna).

Però, la “battaglia campale” (a parole) intorno al MES sotto un altro aspetto rischia di essere un depistaggio: perché si parla di evitare il peggioramento di un assetto comunque negativo. Mentre NON si parla di interventi realmente risolutivi.

L’intervento risolutivo è il progetto CCF. Ai fini del quale non servono battaglie: servono idee chiare e determinazione.

Per sapere cosa e come, venite a Roma, a questo convegno, domani (e se non potete, guardatevi il video, che sarà reso disponibile).

E poi però ponetevi anche voi la domanda che mi pongo io: partendo dal presupposto che occorre rimuovere nuovamente dal governo il partito Bruxelles, alias il PD, e partendo dal presupposto che presto o tardi accadrà – queste idee chiare e questa determinazione, quali persone le possiedono ?

Il mio dubbio è questo.


venerdì 29 novembre 2019

Conchiglie, reddito e risparmio


Qualche giorno fa mi sono trovato a dover spiegare che il deficit pubblico accresce non solo IL REDDITO PRIVATO, ma anche IL RISPARMIO PRIVATO.

Il mio interlocutore accettava il concetto che la spesa netta dello Stato – quindi il suo deficit – crea, certamente, reddito per qualcuno: il destinatario degli acquisti pubblici di beni e servizi, il pensionato, il dipendente pubblico che percepisce uno stipendio. Ma questo maggior reddito – obiettava - poi viene in buona parte speso. Quindi non è tutto risparmio: dipende dalla propensione a spendere.

Qual è il passaggio mancante, in questa argomentazione ?

Il passaggio mancante è che la spesa effettuata dal beneficiario dell’intervento statale, a sua volta, accresce il reddito DI QUALCUN ALTRO. Se pago un dipendente pubblico in più e questo spende tutto lo stipendio al supermercato, il suo risparmio netto sarà pari a zero, ma il supermercato sosterrà maggiori costi (quindi creerà maggior reddito e risparmio) a vantaggio dei suoi fornitori e dipendenti, e per il residuo aumenterà i suoi utili – che sono, anche quelli, una forma di risparmio.

Fornitori, dipendenti, supermercato a loro volta spenderanno, il che creerà reddito ad altri – eccetera, a catena.

Forse è più facile spiegarlo così. Immaginiamo che uno Stato abbia il potere di creare dal nulla conchiglie, che sono la moneta in uso in quella economia.

Spende conchiglie a deficit, e quindi immette – poniamo – dieci conchiglie in più nell’economia.

I percettori delle conchiglie se le passeranno di mano una, dieci, cento, mille volte per effettuare le loro transazioni. Ma le conchiglie non scompariranno mai. Ce ne saranno SEMPRE dieci in più rispetto al caso in cui lo Stato non avesse speso conchiglie a deficit.

E quelle dieci conchiglie saranno, IN OGNI MOMENTO, un incremento del risparmio di qualcuno. Un accrescimento del risparmio privato sotto forma di conchiglie, quindi sotto forma di moneta.

Se la moneta può essere creata fiat, dal nulla, vale quanto sopra. Sempre e comunque.

martedì 26 novembre 2019

Limitare il debito si può: con i CCF


Il problema dell’Italia nell’ambito dell’eurosistema, ridotto al nocciolo, è semplice.

C’è necessità di politiche fiscali espansive, per rilanciare la domanda interna e per ridurre le tasse.

Ma nello stesso tempo, non si può fare conto sulla continua espansione di un debito pubblico espresso in moneta che lo Stato italiano non controlla, non gestisce e non emette - l’euro.

Quel debito – che ha una definizione precisa, contenuta peraltro nei trattati e nei regolamenti che governano l’eurosistema: il Maastricht Debt – deve smettere di crescere in valore assoluto, e deve ridursi in proporzione al PIL.

Lo Stato italiano deve quindi disporre di un’attività finanziaria, di un titolo, emesso e gestito in autonomia, che abbia valore ma che non rientri nel Maastricht Debt – in quanto non deve essere rimborsato cash e non deve essere collocato sul mercato dei capitali.

I Certificati di Compensazione Fiscale, in forma abbreviata CCF, hanno tutti i requisiti e tutte le valenze necessarie.

Se ci sono soluzioni diverse, sono più che felice di ascoltarle e di discuterle.

Sta però di fatto che la crisi dei debiti sovrani ha investito l’Italia otto anni fa; che l’Italia non ne è mai uscita; e che strade alternative ai CCF, concretamente percorribili, non ne ho sentite proporre da nessuno.

sabato 23 novembre 2019

CCF: uscire dal vicolo cieco


Non abbiamo intenzione di rompere l’euro. NON perché abbiamo cambiato idea sulle sue disfunzioni. Ma perché la rottura è troppo controversa (politicamente) e complicata (operativamente).

I CCF risolvono le disfunzioni dell’euro senza necessità di romperlo.

I CCF rilanciano domanda interna e competitività delle aziende, senza incrementare il Maastricht Debt (quello che deve essere rimborsato e rifinanziato, e che quindi è fonte di potenziale instabilità).

I CCF possono essere utilizzati per qualsiasi tipo di azione espansiva: integrazione dei redditi, spesa sociale, investimenti pubblici, riduzione del cuneo fiscale, ecc.

Con i CCF il Maastricht Debt smette di crescere e si riduce in percentuale rispetto a un PIL in ripresa. QUESTA è la miglior tutela possibile anche per i creditori internazionali.

Il rilancio della domanda permette inoltre di uscire dalle attuali politiche monetarie di tassi bassissimi o negativi, che penalizzano pesantemente i risparmiatori.

Un sistema stabile si ottiene solo risolvendone le disfunzioni. L’eurosistema oggi è instabile. Il sistema che si ottiene introducendo i CCF elimina i fattori di instabilità.

lunedì 18 novembre 2019

Che senso ha il debito pubblico in moneta propria ?


Nei giorni scorsi, ho ampiamente dibattuto su twitter, con vari interlocutori, in merito a un’affermazione più volte formulata in articoli di questo blog (vedi ad esempio qui).

L’affermazione è che se uno Stato emette la propria moneta, può finanziare i propri deficit pubblici direttamente con quella, e non collocando titoli di debito. Se esagera, naturalmente, può creare livelli eccessivi di inflazione. Ma questo avverrebbe anche finanziando a debito.

Mi è stato domandato più volte come mai, se questo è vero, anche gli Stati che emettono la propria moneta (praticamente tutte le economie avanzate, esclusa l’Eurozona, e la grandissima maggioranza delle altre) comunque collocano titoli di debito denominati in moneta nazionale.

Le mie considerazioni in merito sono le seguenti.

I titoli del debito pubblico svolgono due funzioni. La prima è di permettere alla Banca Centrale di effettuare operazioni – comprandoli e vendendoli – che ne fanno salire e scendere il valore, e quindi, di riflesso, scendere e salire i tassi d’interesse. Di conseguenza, sono una leva per regolare i tassi di mercato, che è una delle principali azioni di politica monetaria demandata alla Banca Centrale stessa.

La seconda, è che i cittadini di un paese che ha un deficit pubblico, se questo deficit non è assorbito da saldi commerciali passivi con l’estero, si ritrovano un incremento del proprio risparmio finanziario netto. E’ quindi un servizio interessante, proposto alla cittadinanza, offrire l’impiego del risparmio a un tasso modesto ma sicuro, in uno strumento d’investimento garantito dalla potestà di emissione nazionale della moneta.

E’ importante notare che il flusso degli eventi è invertito rispetto a quanto appare intuitivamente. Lo Stato non ha bisogno di collocare titoli per finanziare il deficit. Crea risparmio privato con il suo deficit, e poi offre titoli come forma di impiego del risparmio.

Va inoltre aggiunto che le due funzioni sopra descritte potrebbero essere svolte anche consentendo ai cittadini di depositare il loro risparmio presso la Banca Centrale, e regolando i tassi offerti sui loro depositi. Già oggi, in effetti, questa possibilità viene concessa, ma solo alle banche. Nulla impedirebbe di proporre la stessa cosa anche alle aziende non bancarie e ai privati cittadini.

Perché allora emettere titoli di Stato ?

Vedo due spiegazioni. In primo luogo, il mercato finanziario è ben felice che esista un grande mercato di titoli su cui conseguire commissioni di collocamento e svolgere attività di trading. Per le grandi istituzioni finanziarie, è business. E sicuramente queste istituzioni hanno parecchia influenza sui ministeri economici e sulle banche centrali.

In secondo luogo, all’establishment piace una cosa chiamata “vincolo esterno”. Lanciare strali e ammonimenti, nonché far passare determinate scelte politiche, perché “il debito pubblico rischia di andare fuori controllo” suona molto convincente (a chi – ma sono ancora parecchi – non ha capito la natura del debito pubblico in moneta propria).

Molto più difficile sarebbe persuadere la pubblica opinione che si stanno creando pericoli perché “i depositi presso la Banca Centrale crescono”.

Poi, c’è anche chi per dar corpo al “vincolo esterno” ha trovato una via perfino più efficace. Trasformarlo in una moneta straniera chiamata euro. Ma questa è un’altra (non tanto altra, diciamo collegata…) faccenda.


sabato 16 novembre 2019

Presentazione proposta di legge CCF - 2 dicembre

Si terrà alle 14.30 di lunedì 2 dicembre, presso il Palazzo dei Gruppi Parlamentari della Camera dei Deputati (sala Tatarella), a Roma.


Qui la video-presentazione di Pino Cabras.



giovedì 14 novembre 2019

Certificati di Compensazione Fiscale - video

La proposta di legge illustrata dal promotore Pino Cabras. Qui il video.

Il testo, di cui Pino è cofirmatario insieme a Raffaele Trano, si trova invece a questo link.

domenica 10 novembre 2019

Garanzia del debito pubblico italiano nell’ambito del progetto CCF


Uno scambio di commenti con l’amico Paolo Canziani è utile a chiarire ulteriormente il contenuto di questo recente post.

L’emissione dei CCF incrementerà lo spread e i tassi d’interesse dei BTP, teme Paolo, perché i CCF assorbono una parte della “garanzia implicita” dei CCF: altrimenti detto, assorbono una parte dei flussi fiscali futuri.

E’ una preoccupazione comprensibile. Ma è infondata.

E’ infondata perché la garanzia implicita – ma anche esplicita – dei BTP è un’altra. E’ la capacità del sistema economico di generare crescita del PIL e del gettito fiscale, in misura tale da produrre una costante diminuzione del rapporto Maastricht Debt / PIL. Dove il Maastricht Debt – come da definizioni adottate nei trattati e nei regolamenti UE – è il debito che deve essere rimborsato cash, ed essere costantemente rifinanziato.

Immettere potere d’acquisto nel sistema economico mediante emissione di CCF produce una ripresa dell’economia e della competitività delle aziende, il che accresce il PIL, e anche il gettito fiscale lordo.

Partito il progetto CCF, ai fini della garanzia dei BTP e dei mercati che li sottoscrivono, tutto quello che lo Stato italiano deve fare è impegnarsi a far scendere costantemente il rapporto Maastricht Debt / PIL. Oggi i mercati constatano che questa diminuzione non si verifica, e temono quindi che ne possa conseguire, presto o tardi, un default o una ridenominazione (da euro a “nuove lire”) del Maastricht Debt italiano.

Il progetto CCF consente di azzerare questo rischio, grazie da un lato alla ripresa del PIL, dall’altro al fatto che l’immissione di potere d’acquisto supplementare nell’economia avverrà emettendo CCF, non ulteriore Maastricht Debt.

Quello che casomai potrà verificarsi è un eccesso di emissione dei CCF, tale da allungare (in pratica) i tempi per il loro utilizzo (via via che decorre il periodo di due anni, contemplato dal progetto, tra loro emissione e loro impiegabilità come sconti fiscali).

Quest’ultimo scenario comunque (1) è del tutto improbabile, dato il basso livello previsto per il rapporto CCF / gettito fiscale lordo, e (2) comporterebbe al massimo un deprezzamento di valore dei CCF, senza che venga meno la riduzione del rapporto Maastricht Debt / PIL: quella che interessa ai mercati.


giovedì 7 novembre 2019

L’unico timore dei mercati è la rottura


Lo ribadisco una volta di più a tutti i timorosi. L’Italia, adottando il progetto CCF nei termini qui sintetizzati, non ha niente di cui preoccuparsi per quanto attiene alla reazione dei mercati finanziari.

Il timore dei mercati, o per essere più precisi dei creditori, si riassume in quanto segue. Nel rischio di breakup dell’euro (che comporterebbe di essere rimborsati in moneta svalutata) o di default (ti rimborso comunque euro, ma in quantità inferiore a quanto mi hai prestato).

Il progetto CCF permette di conseguire, contemporaneamente, due obiettivi.

Uno, evitare il breakup.

Due, ridurre costantemente nel tempo il rapporto tra Maastricht Debt (debito pubblico da rimborsare cash) e PIL.

Va affermato a chiarissime lettere, senza nessuna ambiguità, che questi due risultati saranno ottenuti, in quanto si introduce nel sistema economico lo strumento che consente di far ripartire l’economia senza incrementare il Maastricht Debt e senza rompere l’euro.

Fatto questo, problemi con i mercati non ce ne saranno, di alcun tipo.

I CCF non sono un ponte verso la rottura semplicemente perché risolvono le disfunzioni del sistema, e sgombrano il terreno da un rischio che, alternativamente, è sempre presente e attuale.

Tutto ciò non va venire meno nessuna delle critiche formulate in passato nei confronti del sistema euro.

Ma se è stato costruito un ponte pericolante, la strada migliore non è necessariamente farlo esplodere.

Se c’è la possibilità di eliminarne i difetti strutturali, con gli appropriati interventi ingegneristici, questa è la strada migliore.

In qualche caso è possibile, in altri no.

Nel caso dell’eurosistema, introducendo i CCF, l’eliminazione dei difetti strutturali è possibile e anche (tecnicamente e operativamente) semplice.

lunedì 4 novembre 2019

CCF e debito: un equivoco da chiarire


Nel formulare il progetto CCF, abbiamo illustrato sotto quali condizioni si verifica un “rientro perfetto”, ovvero una generazione di maggior gettito che copre esattamente l’ammontare degli sconti fiscali, via via che questi diventano utilizzabili.

Le trovate esposte qui a pagina 15. Un ulteriore chiarimento è però necessario (e il medesimo documento peraltro lo evidenzia a pagina 14).

Non si deve necessariamente verificare una perfetta corrispondenza tra maggior gettito fiscale lordo e ammontare degli sconti fiscali utilizzati. E’ possibile, in un particolare anno dove se ne ravvisi l’opportunità o la necessità, emettere più CCF di quanti ne vengano utilizzati.

Va ricordato, innanzitutto, che il progetto prevede di arrivare a emettere, nel terzo anno dall’avvio, 100 miliardi di CCF. Data la dilazione temporale di due anni tra emissione e utilizzabilità (vedi sempre a pagina 15 del documento), l’utilizzo dell’importo massimo di 100 miliardi non si potrà verificare prima del quinto anno. E prima di allora, in effetti, ci sarà sempre un maggior ammontare di emissioni rispetto agli utilizzi.

L’equivalenza tra emissioni e utilizzi è prevista, nello scenario base, solo dal quinto anno in poi.

Ma se l’uguaglianza tra maggior gettito lordo e CCF utilizzati non si verificasse, a causa di un andamento dell’economia meno dinamico del previsto, nulla impedisce, anche successivamente, di incrementare le emissioni annue di CCF al di sopra del livello degli utilizzi.

Le previsioni più recenti indicano, nel momento in cui gli utilizzi raggiungeranno il livello di 100 miliardi, che le entrate lorde della pubblica amministrazione si attestino a oltre 900 miliardi.

Il rapporto 100 / 900, pari all’11% circa, è decisamente basso e indica chiaramente che non potrà sussistere il dubbio che giungano a utilizzo, in un particolare anno, quantitativi di CCF tali da rendere, in pratica, “vischioso” o difficile usarli tutti. Questo assicura un valore del CCF molto vicino a quello dell’euro.

Se si verificasse un grosso ammanco di entrate fiscali dovuta a una congiuntura economica fortemente negativa, ammanco per esempio pari a 30 miliardi, questo potrebbe essere gestito senza problemi incrementando le emissioni di CCF.

Due anni dopo, il rapporto invece di essere 100 / 900 sarà, a parità di condizioni, 130 / 900. Non l’11% ma il 14,5% circa. Nella sostanza, non cambia nulla.

In altri termini, il progetto CCF ha in sé elementi e opzioni di flessibilità tali da gestire senza alcuna ansia sfasamenti o ammanchi dell’ordine anche di decine di miliardi.

Confrontiamo tutto questo con la situazione attuale. Oggi il governo italiano è privo della capacità di adottare adeguate azioni anticicliche, nonostante l’economia soffra da DODICI anni di una pesante depressione da domanda.

Non solo: aggiustamenti minimi, dell’ordine di pochi miliardi o di pochi decimi di punto di PIL, costringono i governi ad acrobazie e salti mortali, per partorire alla fine provvedimenti nella migliore delle ipotesi assolutamente non risolutivi, e spesso, in realtà, controproducenti.

Tutto questo, mentre la soluzione del problema e l’uscita della crisi sono veramente a portata di mano.

Servono solo determinazione e idee chiare.


sabato 2 novembre 2019

Soluzioni semplici e problemi complessi


Una delle frasi preferite dei sostenitori dell’establishment politico-finanziario, tra i quali anche e soprattutto i loro economisti di riferimento, è che “non ci sono soluzioni semplici a problemi complessi”.

L’economia è un disastro da vent’anni ? l’euro non funziona ? le regole di governance dell’eurosistema sono un cumulo di assurdità ?

Ma no, non dovete pensare che le cose vadano male per questo ! L’intervento necessario a rimetterle in sesto non può essere semplice e rapido. Non sapete che c’è la stagnazione secolare ? il cambiamento climatico ? l’intelligenza artificiale che prende piede ? l’emergere di nuovi modelli di sviluppo ?

Qualcuno che aveva credenziali scientifiche un po’ più solide di questi signori, John Maynard Keynes, spiegava invece nel 1930 che la situazione era un po’ diversa.

Si stava guidando un’automobile che si è bloccata. Quando accade, molti si chiedono se l’auto vada completamente riprogettata, o addirittura se per qualche motivo un qualsiasi tipo di auto non sarà più in condizioni di funzionare. La verità, invece, è che si è scaricata la batteria.

Era vero allora, ed è vero oggi. Immettere potere d’acquisto in un sistema economico che sta viaggiando nettamente al di sotto del suo potenziale, e dove l’inflazione peraltro è troppo bassa (ce lo ripete ogni giorno la BCE stessa) è tecnicamente molto semplice.

La soluzione è semplice perché il problema, sul piano operativo, E’ SEMPLICE. Addirittura elementare.

La non-soluzione è semplicemente dovuta alla volontà di strumentalizzare la crisi, per conseguire trasferimenti di reddito, ricchezza, e, soprattutto, potere.

E’ la dimensione politica del problema a non essere ancora stata risolta. L’analisi tecnica e l’identificazione delle soluzioni da attuare è quasi banale.

Quando sentite dire, riguardo alla crisi economica, che non esistono soluzioni semplici a problemi complessi, sappiate che queste parole le sta pronunciando una persona alquanto confusa.

Oppure in malafede.


martedì 29 ottobre 2019

Euro: uscire o non uscire, rompere o non rompere


Comprendere le valenze e l’opportunità del progetto CCF richiede, tra le altre cose, anche di far chiarezza in merito alla situazione in cui ci troviamo – come paese Italia e come economia italiana.

Gli effetti enormemente negativi dell’ingresso nell’euro e della governance dell’eurosistema sono sotto gli occhi di tutti.

Ma occorre uscire dalla dicotomia restare nell’euro / uscire dall’euro.

Il punto è eliminare le disfunzioni del sistema di governo dell’economia italiana, nel modo più semplice e meno controverso possibile.

Se, per ottenere questi risultati, esista una via migliore – nel senso di altrettanto o magari più efficace sul piano tecnico, ma nello stesso tempo altrettanto o magari più facilmente attuabile, sul piano politico e pratico - sono più che felice di esserne portato a conoscenza.

Ma questa via, nei sette anni intercorsi dalla mia formulazione originaria del progetto CCF, non è emersa. E, di conseguenza, ho la fortissima sensazione che non esista.

Il problema, per motivi notissimi e ampiamente discussi, è che la via di rottura (dell’euro) è estremamente complessa e controversa. Il che non vuol dire impossibile: ma vuol dire che le condizioni per cui la rottura abbia luogo potrebbero non prodursi per svariati decenni.

La posizione gladiatoria (a chiacchiere) “breakup o nulla” è sterile e, se ottiene qualche risultato, è solo quello di spedire il dibattito in un vicolo cieco.

Con determinazione e chiarezza di idee, il progetto CCF è, al contrario, assolutamente percorribile e assolutamente risolutivo.


sabato 26 ottobre 2019

Non contate su un nuovo 2008 per risolvere l’eurocrisi


Parecchi studiosi, ricercatori, commentatori eurocritici esprimono spesso l’opinione che l’euro sia destinato a deflagrare da solo, e in tempi non lunghi, a causa del sopravvenire una pesantissima crisi finanziaria internazionale. Un nuovo 2008, in altri termini.

Non so se definirla una speranza o semplicemente una previsione. Ma ritengo opportuno spiegare perché non sia un evento ad alta probabilità, sicuramente non in un arco di tempo ragionevolmente breve.

La crisi finanziaria del 2008 e la successiva depressione indotta dallo scoppio di una bolla finanziaria speculativa, estesa a livello mondiale, hanno come precedente il crollo del 1929. In mezzo, c’è una arco temporale di settantanove anni.

In termini di caduta dei valori azionari di borsa (calo di oltre il 50% in termini reali), esiste un precedente meno remoto, il 1973-1974. Ma l’origine del fenomeno era diversa – la crisi petrolifera innescata dalla guerra del Kippur – e comunque non ne seguì una depressione economica mondiale. Si avviò una forte ma relativamente breve recessione, e parecchi anni di inflazione a due cifre. Ma cause e dinamica della crisi furono nettamente diverse.

In ogni caso, tra il 1973 e il 2008 sono passati trentacinque anni.

Crolli di mercato tali da produrre conseguenze estese e pesanti sull’economia produttiva, non in un singolo paese bensì a livello internazionale, sono fenomeni ricorrenti, ma a distanza di generazioni, non di anni.

E la frequenza “generazionale” si spiega, appunto, proprio perché certi eccessi speculativi arrivano a livelli incontrollabili quando la generazione precedente di policymakers, investitori, operatori di mercato finanziario non è più in circolazione. Per raggiunti limiti di età, semplicemente.

E’ la generazione successiva che arriva a un certo punto a creare nuovi, grossi guai perché “stavolta è differente”, “abbiamo capito gli errori del passato”, “ci sono strumenti di controllo e analisi del rischio che prima mancavano”. Non è vero niente, si ricade negli stessi errori. Ma ci ricade chi non ha sperimentato sulla propria pelle le conseguenze dei precedenti.

Ci sarà prima o poi un nuovo 2008 ? senz’altro. Entro un anno o qualche anno ? niente è impossibile, ma è un evento altamente improbabile.

Un altro 2008 me lo aspetto con discreta probabilità intorno al 2040, più facilmente nel 2080 o giù di lì. In questo secondo caso, temo proprio di non essere da queste parti per vederlo accadere.

Ma se invece un nuovo 2008 si verificasse da qui a pochi mesi, o a pochi trimestri ? Beh, anche in questo caso che ne consegua la rottura dell’euro non è per niente garantito. Anzi.

L’euro non si rompe per fenomeni endogeni, se c’è la volontà – e c’è, come si è visto nel 2012 – di mettere un coperchio sopra la pentola che sta andando in ebollizione. A questo si riduce il whatever it takes di Draghi, che ha impedito la deflagrazione, senza però rimuovere le cause né tantomeno risolvere la crisi.

Non contiamo che le cose si sistemino da sé, sia pure in conseguenza di un passaggio traumatico. Le disfunzioni dell’eurosistema vanno superate con un intervento mirato, efficace, e non deflagrante. La via esiste, ed è il progetto CCF.


domenica 20 ottobre 2019

Potere d’acquisto e potenziale dell’economia


Immettere moneta – o, alternativamente, CCF – nell’economia per rilanciare la domanda magari è anche opportuno (mi sento dire di tanto in tanto), ma “non risolve i problemi strutturali”, “non migliora il potenziale”, “non fa recuperare all’Italia il deficit di competitività rispetto ad altri paesi”.

Beh, provate un po’ a riflettere su questo esempio.

Sull’Isola A ci sono dieci persone e dieci alberi, da ognuno dei quali si possono raccogliere, ogni giorno, dieci noci di cocco. Per qualche motivo, però, si è deciso che le noci possono essere raccolte solo da chi possiede dei biglietti (uno per ogni noce) emessi da un'Autorità Centrale.

E questa Autorità Centrale ne emette, quotidianamente, solo ottanta, e ne distribuisce dieci a testa a otto persone. Il risultato è che quelle otto persone ogni giorno raccolgono dieci noci ciascuna. Due invece non fanno niente, e restano senza alcuna noce di cocco.

Sull’Isola B le cose funzionano alla stessa maniera, salvo che ogni persona (dieci in tutto anche qui) riceve dodici biglietti ed è in grado di raccogliere dodici noci (la produttività procapite è più alta del 20% rispetto all’Isola A). Tutti raccolgono, e tutti a fine giornata hanno dodici noci.

La produzione totale è quindi ottanta noci al giorno sull’Isola A, mentre è centoventi sull’Isola B.

Sull’Isola A due persone sono disoccupate. Ma questo NON dipende dal fatto che la produttività procapite è inferiore. Dipende dal fatto che queste due persone non ricevono i biglietti.

Ma se stampo venti biglietti in più e li do ai due attuali disoccupati, questi raccoglieranno anch’essi dieci noci a testa. La produzione totale passerà da ottanta a cento noci.

Questo è un miglioramento permanente e strutturale. Anche a produttività invariata, la produzione aumenta del 25%.

A questo punto, non c’è più disoccupazione né sull’Isola A né sull’Isola B. La produzione è sempre maggiore su B rispetto ad A, ma il delta non è più 120 contro 80, bensì 120 contro 100.

E questo risultato lo abbiamo ottenuto senza inventarci chissà che per colmare la differenza di produttività. Abbiamo solo stampato più biglietti, a costo zero.

Poi, ci sono ottime ragioni per ritenere che anche la produttività, successivamente, andrà a crescere sull’Isola A. Le trovate elencate e spiegate qui.

Ma anche se così non fosse, abbiamo fortemente – e strutturalmente – aumentato la produzione, e azzerato la disoccupazione, sull’Isola A. In modo permanente e sostenibile.


venerdì 18 ottobre 2019

La lotta all’evasione non risolleverà l’economia italiana


Il governo giallorosso, molto più del governo gialloverde, è prodigo di dichiarazioni a favore della lotta all’evasione fiscale. Addirittura sembra essere diventata un pilastro della politica economica, nonché un elemento chiave della prossima legge di bilancio.

Il mio giudizio in merito è molto semplice, e cerco di spiegarlo con la massima chiarezza perché i fraintendimenti in questa materia sono molto, ma molto frequenti.

Se la lotta all’evasione nasce da principi di correttezza, equità e rispetto della legge, è giusta e doverosa.

Se l’obbiettivo della lotta all’evasione è “risanare le finanze pubbliche” nonché “reperire risorse da destinare all’espansione economica” siamo completamente, ma proprio COMPLETAMENTE fuori strada.

A parità di ogni altra condizione, un’efficace lotta all’evasione significa aumentare il carico fiscale effettivo e quindi togliere potere d’acquisto dal sistema economico. Due cose che sono le ultime, ma proprio le ULTIME, di cui l’Italia ha bisogno.

L’economia italiana ha bisogno di una forte spinta espansiva sulla domanda interna e sulla competitività delle aziende, e la strada per conseguirla è il progetto CCF.

Va benissimo, per i motivi detti sopra (correttezza, equità, legalità) abbinare al progetto CCF misure di contrasto all’evasione. A condizione che – ed è una condizione IMPRESCINDIBILE – l’effetto netto di tutto quanto si attua sia: più domanda interna, e minore tassazione dei fattori produttivi. Ad esempio: immissione di CCF, e insieme meno evasione fiscale con i relativi proventi RIALLOCATI a favore di domanda e competitività.

Se invece pensiamo di utilizzare i proventi di queste misure per ridurre deficit e debito, otterremo un ulteriore rallentamento della “velocità di crociera” della nostra economia.

E se mettiamo in atto una pura riallocazione (senza il beneficio espansivo dei CCF), l’effetto netto sulla crescita del PIL sarà comunque intorno allo zero. Il che NON toglie l’economia italiana dalla depressione, NON riduce il Maastricht Debt, NON fa niente di positivo per disoccupazione e sottoccupazione e NON risolve il problema della dipendenza dai mercati finanziari.

Bene. Se arrivati a questo punto vi siete fatti l’opinione che “Cattaneo è a favore dell’evasione fiscale”, vi prego: tornate all’inizio del post e rileggetelo da capo.