Più ci rifletto,
più una cosa mi appare evidente in merito alla demarcazione (non in linea
teorica ma in linea pratica, operativa) tra politica monetaria e politica
fiscale.
Da un lato,
questa demarcazione è priva di senso; dall’altro, è potenzialmente (e
gravemente) nociva.
Mi spiego.
La politica
monetaria è sostanzialmente il controllo del credito privato (inclusa la
vigilanza sul sistema bancario e finanziario) e dei tassi d’interesse.
La politica
fiscale è la determinazione della spesa pubblica e della tassazione.
La politica
monetaria è affidata alle banche centrali, che agiscono con livelli di
autonomia e di indipendenza più o meno ampi dai rispettivi governi, e hanno sempre
tra gli obiettivi principali (spesso in modo nettamente prioritario rispetto a
tutti gli altri) il controllo dell’inflazione.
La politica
fiscale è invece di competenza dei governi, che se però rinunciano a essere emittenti di
moneta possono mettere in atto
deficit di bilancio solo indebitandosi.
Quest’ultima
limitazione è di scarso o nullo rilievo pratico se la banca centrale si impegna,
formalmente e/o sostanzialmente, a garantire il debito pubblico. Ma non è
sempre così, e in particolare non lo è per gli Stati membri dell’Eurozona.
Ora, mi pare
evidente che distinguere e separare i due soggetti e i ruoli che svolgono porti
a situazioni disfunzionali. E di conseguenza, che la politica MACROECONOMICA debba
essere condotta con un approccio unitario.
La leva del credito
e dei tassi d’interesse, in particolare, è efficace quando l’economia è vicina
al pieno impiego (se rischia di surriscaldarsi, è utile alzare i tassi e
calmierare il credito), ma perde pressoché totalmente di trazione se la domanda
è fortemente depressa e i tassi d’interesse sono già scesi nell’intorno dello
zero.
La leva fiscale,
da parte sua, ha una fortissima efficacia nello stimolare produzione ed
occupazione, ma solo (e la ragione è evidente) fino a quando si è sostanzialmente
raggiunto il pieno impiego delle risorse produttive (manodopera e impianti). Oltre
quel livello, l’espansione fiscale si scarica sui prezzi e non sulle quantità
prodotte.
Da un lato,
quindi, è insensato pensare che la politica monetaria abbia sempre efficacia
nel controllare l’inflazione. Aiuta molto a contenerla quando è troppo alta, ma
pochissimo ad accrescerla quando è troppo bassa.
Dall’altro lato,
la politica fiscale non è in grado di agire come necessario se il finanziamento
dei deficit pubblici è in dubbio: ovvero, se occorre fare affidamento sui
mercati senza una garanzia piena e incondizionata dell’istituto di emissione.
Gli obiettivi della
politica macroeconomica sono la piena occupazione e la stabilità monetaria.
Esistono vari strumenti per raggiungerli. Ma vanno assolutamente visti in
chiave unitaria e l’autorità pubblica deve essere in grado di utilizzarli tutti.
Separare politica monetaria e politica fiscale non sul piano concettuale ma sul
piano attuativo, affidandone una a un soggetto totalmente indipendente da chi
gestisce l’altra, è un errore.
Se le separiamo,
rischiamo di trovarci con una banca centrale che vorrebbe alzare l’inflazione
ma non ne ha i mezzi; e con governi che vorrebbero stimolare produzione e
occupazione ma non hanno un istituto di emissione che garantisca i livelli di
deficit pubblico necessari – NONOSTANTE non ci siano rischi di portare
l’inflazione a livelli troppo alti (anzi, al contrario).
Quanto espresso in
quest’ultimo paragrafo non è teoria: è avvenuto in buona parte dell’Eurozona
dal 2012 al 2020. Ci siamo trovati in condizioni di pesante depressione. NELLO
STESSO TEMPO, l’inflazione era a livelli troppo bassi.
L’assetto
disfunzionale dell’Eurozona è in larga misura dovuto all’aver consentito ai
mercati finanziari di costituire un fattore condizionante. Ai mercati è stata attribuita
una funzione di “controllo”: ma non sono assolutamente controllori affidabili.
Spesso, infatti, agiscono in modo speculativo e irrazionale. Nel medio-lungo periodo
poi si correggono, ma la loro “schizofrenia di breve termine”, il loro
comportamento maniaco-depressivo, rischia nel frattempo di creare guai enormi,
spingendo all’attuazione di politiche antitetiche rispetto a quelle necessarie.
L’abbiamo
constatato, in Italia, nel 2011-2013, con effetti assolutamente catastrofici. E
la situazione di allora può benissimo ripetersi: per evitarla occorre rivedere
in profondità le regole di funzionamento dell’Eurosistema, cosa per la quale
non esiste nessun consenso.
I tedeschi (vedi
anche la recente intervista sul Financial Times al probabile futuro
cancelliere, Armin Laschet) non si staccano minimamente dal concetto che vada
“evitata una situazione in cui un paese è responsabile per i debiti di un
altro”.
Il progetto Moneta Fiscale / CCF risolve questo stallo appunto perché la Moneta Fiscale non
incorpora un rischio di default (non è un debito che richieda pagamenti in
cash) e quindi non incrementa il rischio che un paese debba pagare per i debiti
altrui.
Il principio è
molto semplice. La domanda riceve il livello di espansione necessario via
emissione di Moneta Fiscale, mentre il debito da rimborsare cala gradualmente
(in proporzione al PIL).
È un progetto
che risolve totalmente sia le disfunzioni del sistema, sia la depressione
economica di vari paesi (e dell’Italia in particolare), sia le preoccupazioni
di Laschet.
Se Draghi ha di
meglio, bene. Se no, è inaccettabile che non introduca la Moneta Fiscale.