mercoledì 26 febbraio 2020

Marattin, lo spazio fiscale e il Coronavirus


Luigi Marattin, responsabile economico del partito renziano “Italia Viva”, afferma via twitter quanto segue:

“Per anni, chi predicava maggiore attenzione alle finanze pubbliche (perché in caso di forte shock negativo non avremmo avuto spazio fiscale per contrastarlo) è stato definito un bieco sostenitore dell’austerità. Tra poco sarà chiaro chi aveva ragione. E quale sarà il costo”.

Se date un’occhiata alle risposte, il commento marattiniano non ha esattamente provocato applausi a scena aperta.

Per esempio, Marattin – è stato detto - implicitamente sostiene che si sarebbero dovuti chiudere più ospedali per avere adesso i soldi necessari a riaprirne qualcuno (per fronteggiare l’emergenza Coronavirus).

Ma in verità è anche peggio. Se si fosse fatta più austerità, e chiusi più ospedali, il PIL sarebbe sceso ancora di più, il debito in percentuale sarebbe ancora più alto, e oggi avremmo non solo meno ospedali, ma ancora meno soldi di quelli che (non) abbiamo per riaprirli (e in generale per fronteggiare l’emergenza).

Il punto è che l’intero concetto di “spazio fiscale” è fuorviante. In assenza di tensioni sull’inflazione, non esiste un limite preciso al livello di deficit o di debito pubblico espresso in moneta nazionale.

In assenza d’inflazione, uno Stato che stampa la propria moneta può fronteggiare qualsiasi emergenza. Parlare di “spazio fiscale” ha senso solo se si è vincolati a usare una moneta emessa da terzi.

Avendo commesso il ciclopico errore di entrare nell’euro (e SOLO per quello), l’Italia ha mani e piedi legati: salvo che decida, e sarebbe ora, di avviare il progetto CCF.

lunedì 24 febbraio 2020

Brexit, autodeterminazione e idraulici polacchi


Gli europeisti “duri e puri” amano fare critica, o ironia, sulla proposta di legge in discussione nel Regno Unito, che prevede di limitare l’immigrazione a persone dotate di alcuni requisiti: in primo luogo, conoscenza della lingua e appartenenza a determinate categorie professionali.

Il sito di Wolfgang Munchau (un europeista, ma non duro e puro) la riassume così: “escludendo i lavoratori non qualificati, si tengono le porte aperte per i banchieri italiani, gli ingegneri tedeschi e gli chef francesi ma le si chiudono agli idraulici polacchi e agli addetti alle pulizie lituani”.

La critica che leggo più frequentemente è che “i britannici si accorgeranno di quanto servono gli idraulici polacchi”.

Ora, il punto su cui riflettere è che questa critica perde di vista la vera motivazione della Brexit.

Io non ho nessuna opinione in merito a quanto siano critici gli idraulici polacchi per il benessere e l’efficienza dell’economia e della società britannica. Può darsi che la limitazione degli accessi sia un gravissimo errore.

Ma se si rivelerà tale, nulla impedirà al Regno Unito di modificare la normativa in futuro.

Il punto chiave della Brexit non sono gli idraulici polacchi. Sono la democrazia e l’autodeterminazione nazionale.

L’accesso agli idraulici polacchi, in conseguenza della Brexit, verrà stabilito da normative approvate dal parlamento britannico, messe in atto dal governo britannico, entrambi (governo e parlamento) in carica a seguito di elezioni dove è chiamata a esprimersi la popolazione britannica.

La quale popolazione magari deciderà tra qualche anno che governo e parlamento devono essere rimpiazzati perché limitare l’accesso degli idraulici polacchi è stato sbagliatissimo, o per qualsiasi altro motivo.

Ma gli organi responsabili di questa decisione risponderanno all’elettorato britannico. Non saranno burocrati di stanza a Bruxelles, nominati non si sa bene da chi per fare gli interessi non si sa bene di cosa.

Il senso della Brexit è tutto qui. E lo dico con la massima stima e simpatia sia per gli idraulici che per i polacchi.


sabato 22 febbraio 2020

La Lega e le ambiguità sull’euro


Negli ultimi giorni – ma in realtà è un tema ricorrente – si è parlato parecchio delle dichiarazioni di Salvini e di Giorgetti sull’euro: dichiarazioni apparentemente contraddittorie, con Giorgetti che esclude tassativamente che si stia studiando l’uscita (oggi…) e Salvini che come d’abitudine si esprime in toni molto più pugnaci.

Per chiarire la situazione, è bene prendere a riferimento i documenti ufficiali, ad esempio la mozione al congresso 2017 della Lega – relatore proprio Giorgetti.

In quella relazione “si sottolinea la necessità di tornare quantomeno allo status pre-Maastricht” (che significa pre-euro) e “in assenza di condizioni o di volontà politica affinché questi passaggi siano decisi in maniera concordata tra gli Stati membri, allora come misura estrema non resterà che l’alternativa di un negoziato bilaterale tra Italia e UE ricorrendo alla clausola di rescissione”.

In tutto questo di ambiguo non c’è proprio niente.

Il problema è un altro. E’ che le dichiarazioni – quelle ufficiali, non le fonti giornalistiche più o meno imprecise e travisate – delineano un percorso tanto chiaro quanto irrealistico.

La possibilità di “concordare i passaggi” è infatti completamente assente perché alla UE non passa neanche per l’anticamera del cervello di aprire un tavolo su questo argomento (né in merito a una revisione dei trattati che vada in direzione di maggiore flessibilità: al contrario).

Per questo motivo, il percorso delineato dalla Lega in sede di congresso porta direttamente all’attivazione della clausola di rescissione: l’articolo 50.

E’ la strada che ha percorso con successo il Regno Unito, certo. Ma ci sono voluti anni per arrivare alla decisione di tenere un referendum, altri anni (da giugno 2016 fino a gennaio 2020) per dare attuazione alla Brexit. E tutto questo in un paese che non aveva l’euro e non era quindi sottoposto alle turbolenze e ai condizionamenti dei mercati finanziari.

In pratica, la posizione della Lega sulla carta è di ricerca di un accordo; nella realtà, è, in effetti, di rottura. Imposta dall’inflessibilità della UE, certo: ma questa è la situazione.

Il problema quindi non è l’ambiguità. Sono altri due: in primo luogo, per la rottura dell’euro non c’è un consenso sufficientemente forte nel paese.

In secondo luogo, le difficoltà tecniche e operative sono elevatissime.

Se la Lega vuole assumere una posizione chiara e percorribile, la strada è un’altra: è il progetto CCF.

La proposta di legge, sottoscritta da 90 parlamentari M5S, è arrivata alla Commissione Finanze del Senato. Claudio Borghi dice che la Lega la voterà, e questo mi fa moltissimo piacere.

Nello stesso tempo, è però scettico sul fatto che venga approvata, e continua a ritenere i Minibot un progetto migliore.

E’ qui che si riscontra un’ambiguità vera. Non prendetela come una questione di personalismi. L’amico Claudio è stato il primo proponente dei Minibot, mentre io sono il primo proponente dei CCF.

Ma non è per “attaccamento alla creatura” che ripeto ancora una volta quanto ho già spesso affermato in passato: l’impatto espansivo dei Minibot è molto modesto rispetto a quello dei CCF. I Minibot sono del tutto insufficienti a risolvere le disfunzioni dell’euro.

E Claudio Borghi in realtà lo sa. Ma allora perché propone un intervento inadeguato ? E’ chiaro che la reazione dei mercati sarà di supporre che i Minibot siano il passaggio verso “un’altra cosa”, non meglio chiarita. Qui sta l’opacità della posizione leghista.

Per chiarire ulteriormente, e anche per rispondere ai molti che mi chiedono se CCF e Minibot non possono essere introdotti insieme: certo che sì, non c’è nessuna incompatibilità, ma il punto è un altro.

Se proponi i Minibot da soli, hai risolto ben poco. La loro eventuale introduzione “in solitario” ha senso solo in funzione di quanto afferma la relazione del Congresso Lega 2017: “tornare quantomeno allo status pre-Maastricht e in assenza di condizioni o di volontà politica affinché questi passaggi siano decisi in maniera concordata tra gli Stati membri, allora come misura estrema non resterà che l’alternativa di un negoziato bilaterale tra Italia e UE ricorrendo alla clausola di rescissione”

Siccome non c’è NESSUNA volontà di decidere passaggi “in maniera concordata”, e questo è chiarissimo a tutti, è anche chiaro che stai andando alla rottura, e che i Minibot sono una mossa preparatoria ad attuarla. Il che manderebbe immediatamente in fibrillazione i mercati finanziari.

La proposta CCF è invece la via giusta da percorrere, e i CCF sono lo strumento essenziale. Perché il progetto è adeguato a risolvere le disfunzioni dell’eurozona e può, inoltre, essere presentato alla piena luce del sole: si mette in atto il necessario impatto espansivo sulla domanda, impegnandosi nello stesso tempo, in modo ferreo e incontrovertibile, a ridurre gradualmente e costantemente il rapporto tra Maastricht Debt e PIL. Dove il Maastricht Debt è il debito da rimborsare, rifinanziare, collocare sul mercato.

Questa è la via per comunicare un percorso che sia non solo definito in termini chiari e non (percepiti come) ambigui, ma anche concreti e attuabili. Non rompere il sistema ma risolverne le disfunzioni: con una manovra non deflagrante, ma, nello stesso tempo, attuabile dall’Italia senza chiedere nulla a nessuno. E la mossa sono i CCF.


mercoledì 19 febbraio 2020

L’Italia che non vuole la produttività ?


Leggo quanto scrive un “euroausterico” (un appartenente alla tribù che, a dispetto di ogni evidenza contraria, continua a sostenere che la crisi economica italiana non ha niente a che vedere con l’euro e con le sue regole di funzionamento).

Un commentatore straniero fa notare che è perfettamente normale un alto livello di risentimento e di disamore della popolazione italiana nei confronti della UE, visto che il PIL ristagna dall’euroaggancio in poi e che non sono stati ancora recuperati i livelli del 2007 (tredici anni dopo !).

Il nostro baldo euroausterico afferma, con rimarchevole sprezzo del ridicolo, che “è quanto accade quando ci si rifiuta di affrontare per decenni il problema della produttività stagnante”.

Non ho dubbi sulla sincerità di questa affermazione. Ma ci vogliono veramente due fette di mortadella spesse un metro sugli occhi, per non accorgersi che la combinazione tra un cambio sopravvalutato (per l’Italia) e politiche di costante compressione della domanda interna, ULTERIORMENTE RAFFORZATE DAL 2011 in poi (quando gli effetti della crisi Lehman non erano stati ancora superati), implicano:

minor potere d’acquisto
crisi della domanda interna
delocalizzazione delle aziende
disincentivo a investire e a spendere in ricerca e sviluppo
emigrazione di giovani talenti (centinaia di migliaia).

e che tutto questo retroagisce negativamente sullo sviluppo della produttività.

Qui trovate alcuni dati e alcune riflessioni difficilmente (mi pare) contestabili.

Il dato di fatto è che la produttività del lavoro e il reddito procapite italiano tenevano perfettamente il passo con le medie UE15, o addirittura guadagnavano terreno. E che c’è un momento temporale in cui tutto questo si è interrotto ed è iniziata la divaricazione (in negativo, ahinoi).

Il momento è la seconda metà degli anni Novanta. Rivalutazione della lira e contenimento della domanda interna, il tutto finalizzato a “centrare l’aggancio con l’euro”. Deciso poi nel 1997 e reso definitivo il 1° gennaio 1999.

Secondo gli euroausterici, invece, gli italiani si sono svegliati una mattina e hanno deciso che non avevano più voglia di migliorare la loro produttività.

Ergo come si risolve il problema ? facendosela venire, questa voglia scomparsa ? con quali azioni ? mistero fitto.

E chi le dovrebbe attuare, visto che dal 2011 in poi (con la breve mezza parentesi del governo gialloverde, mezza visto che il Ministro dell’Economia comunque non rispondeva alla maggioranza parlamentare) l’Italia ha avuto solo governi strettissimamente ossequiosi a Bruxelles (la fonte del verbo delle “riforme strutturali”, secondo gli euroausterici) ?

Non so più se definire l’euroausterismo una religione o una forma di negazionismo. Le due cose non si escludono, ovviamente.


domenica 16 febbraio 2020

Los tarluccos e i default argentini


Ho spesso scambi di opinioni con una pattuglia di twitteristi che di solito chiamo “euroausterici”, in quanto sostenitori del verbo secondo cui l’euro e l’austerità hanno fatto bene all’Italia. O se non proprio bene, comunque erano una scelta necessaria.

Fa già ridere così (per non piangere), direte voi. Ed è vero.

Qualche giorno fa, ad ogni modo, gli euroausterici si scambiavano risolini e si davano (virtualmente) di gomito nel commentare questa notizia: default dell’Argentina su un bond denominato non in valuta estera ma in pesos.

Siccome si parla di Argentina, per questa volta i miei euroausterici li ribattezzo “los tarluccos”.

Tutti compiaciuti nel dirsi “default in moneta sovrana !! eh eh, chissà cosa dirà Cattaneo, adesso” si sono scordati alcuni “dettagli”.

Il primo “dettaglio” è il seguente. Cattaneo non ha mai detto che il default in moneta sovrana è impossibile: ha detto che è una scelta volontaria, che può essere motivata (si può discutere se a ragione o torto, ma comunque) dalla necessità di calmierare, per esempio, livelli molto elevati d’inflazione (la situazione opposta rispetto a quella odierna italiana, per intenderci).

Il default su debito in moneta sovrana, in altri termini, può avvenire, ma nessuno stato emittente può essere forzato a metterlo in atto. Il che fa una differenza enorme, per ragioni che è superfluo spiegare (tranne che per los tarluccos, per i quali è inutile. Non c’è peggior sordo eccetera).

Ma c’è di più: los tarluccos fanno circolare la notizia e nemmeno la leggono. Linkano un articolo dove chiaramente si afferma che “il titolo venne emesso al valore nominale di 1,55 miliardi di dollari, ma essendo stato agganciato al tasso di cambio e avendo perso questo da allora circa il 55%, il sacrificio imposto alle casse statali sarebbe risultato nettamente superiore”.

Capito ? è un bond in pesos per modo di dire. In pratica, è un bond in dollari. Altro che “default in moneta sovrana”.




giovedì 13 febbraio 2020

La proposta di legge CCF...

...è stata assegnata alla sesta commissione (Finanza e Tesoro) del Senato, in sede redigente.

Qui le ultime notizie, sul Sole 24Ore.

domenica 9 febbraio 2020

Autocitarsi, perché no ?


Secondo qualche frequentatore di social network, twitteristi in particolare, io indulgo troppo all’autocitazione. I miei interventi di solito includono un link a un articolo di questo blog, dove l’argomento della discussione viene sviluppato, o vengono comunque forniti elementi a supporto.

L’autocitazione, mi dicono, è “inelegante”. Francamente non ho capito la motivazione di questo giudizio. Il blog è lo strumento che utilizzo da sette anni per sviluppare le mie opinioni su (soprattutto) temi macroeconomici. Se l’argomentazione è già predisposta (come molto spesso capita) cosa dovrei fare, un copia incolla ? una parafrasi di quanto ho già scritto altrove ?

Una variante sul tema è quella degli accademici che dicono qualcosa del tipo “come puoi pensare che il post di un blog esprima un’opinione degna di essere presa in considerazione, leggi invece [segue link ad articolo di 50 pagine in inglese con 10 pagine di formule in allegato e 40 citazioni di altri articoli].”

Ora, io non ho problemi né con l’inglese né con le formule, e l’articolo linkato me lo leggo volentieri. Però rimango dell’idea che se si hanno le idee chiare su un argomento di macroeconomia, per spiegarsi non servono 50 pagine e neanche formule di analisi infinitesimale (sapete poi cosa diceva al riguardo Keynes, laureato in matematica – non in economia – a Cambridge ? ecco qui).

Se si hanno le idee chiare, i 280 caratteri di un tweet (o magari di due o tre in successione) bastano per renderle esplicite, in termini comprensibili a persone di media cultura. OK poi le fonti esterne a supporto per chi vuole approfondire, verificare i dati eccetera. Ma il nocciolo, credetemi, o la sai sintetizzare oppure… sei tu che non l’hai capito.

Pochi giorni fa, un docente di economia internazionale (non mi ricordo in quale università) ha preso cappello di fronte alla mia affermazione che il Regno Unito non aveva nulla da temere dalla Brexit perché è in deficit commerciale nei confronti della UE (è il cliente, in pratica, non il fornitore) e perché non acquista (dalla UE) nessun prodotto o servizio che non possa essere prodotto internamente o fornito da aziende non-UE.

Il tipo si è inalberato dicendo che dovevo “leggere la letteratura scientifica di riferimento” (link non forniti, in questo caso) per comprendere dove sbagliavo.

Beh, è mia ferma convinzione che se avesse avuto le idee chiare, avrebbe spiegato in un paio di tweet perché il Regno Unito rischia gravi danni dalla Brexit. Citando fonti a supporto dove era il caso (comprese quelle scritte da lui stesso, ove mai esistessero…): ma per corroborare concetti che nel frattempo aveva resi noti all’audience.

Meglio l’autocitazione che la non-spiegazione, insomma. La prima magari sarà inelegante, ma della secondo proprio non so che farmene.


giovedì 6 febbraio 2020

Caldaie e CCF

Che cosa c'entrano i sistemi di riscaldamento domestici, altrimenti detti caldaie, con il progetto Moneta Fiscale / CCF ? C'entrano. Lo spiegano, in questo articolo apparso su Micromega pochi giorni fa, Biagio Bossone e Stefano Sylos Labini.

martedì 4 febbraio 2020

Per risolvere la crisi serve un nuovo strumento, non nuove regole


La via di “ridiscutere le regole dell’eurosistema” è un vicolo cieco totale, per la semplice ragione che il blocco tedesco è disposto ad aprire il dibattito esclusivamente se la finalità è renderle più rigide. Non viceversa.

Per questo motivo il progetto CCF è concepito come un nuovo strumento da inserire nell’ambito dell’eurosistema, per ottenere gli effetti a noi necessari (rilancio di domanda, produzione e occupazione e contestuale riduzione del rapporto tra Maastricht Debt e PIL) senza che ci sia la necessità di ridiscutere nulla con nessuno.

L’unica possibile alternativa sarebbe, in teoria, la rottura dell’euro. Per la quale, tanto per cominciare, non esiste il necessario consenso politico.

Ma a prescindere da quest’ultimo tema, nessuna ha mai neanche indicato in modo dettagliato e plausibile i meccanismi operativi e i passaggi tecnici che sarebbe necessario attuare per arrivare a rompere l’euro.

Inoltre, i soggetti da coinvolgere nel processo sarebbero un numero molto elevato, e si dovrebbero muovere in modo totalmente compatto e coeso. Mentre oggi tantissimi di questi soggetti sono schierati, al contrario, a favore dello status quo.

Sono quindi molto preoccupato dal fatto che, quando M5S e Lega erano al governo insieme, il nostro gruppo di ricerca abbia trovato ascolto da parte di parlamentari M5S (arrivando successivamente alla presentazione di un progetto di legge firmato da 90 di loro); i quali, però, non sono riusciti a ottenere che la Lega facesse fronte comune con loro per sbloccare la situazione.

Le ragioni di questo mi sfuggono. E mi sfugge che cosa, esattamente, la Lega abbia intenzione di fare, se e quando tornerà al governo in posizione di leader in una futura, eventuale coalizione maggioritaria.


sabato 1 febbraio 2020

Valuta forte e dipendenza dall’import


Ogni tanto riemerge l’argomentazione secondo la quale sì, certo, usare l’euro avrà magari alcune controindicazioni, ma “se sei dipendente dall’import perché non possiedi materie prime, avere una moneta forte è utile: così compri a costi vantaggiosi”.

A parte il “dettaglio” che l’Italia realizza un surplus commerciale estero vicino a 60 miliardi annui, al netto ovviamente di tutte le importazioni e quindi anche al netto degli acquisti di materie prime, l’argomentazione sopra citata è sbagliata. Del tutto sbagliata: concettualmente e praticamente.

La moneta forte la usi, ma non la emetti. Non è la tua: è la moneta di un altro, che tu ti sei vincolato a utilizzare.

Usare l’euro ti rende (forse) meno dipendente dai fornitori di materie prime, ma crea un altro tipo di dipendenza: dall’emittente degli euro, che è un soggetto esterno. Perché questo soggetto esterno la moneta forte te la presta, non te la regala.

Per di più, “la moneta forte che permette di comprare a costi vantaggiosi” è deleteria per il tessuto produttivo del paese, appunto perché rende più conveniente comprare, e meno conveniente produrre.

Usare una moneta emessa da terzi, e sopravvalutata rispetto ai fondamentali della propria economia, equivale – quello sì – a vivere a debito, sopra le proprie possibilità. Oppure impone di assoggettarsi ad austerità per contrarre la domanda interna, in modo da eliminare il deficit commerciale. Quello che l’Italia ha fatto tra il 2011 e il 2013: operazione “riuscita”, con la “piccola” controindicazione che l’economia è stata devastata e milioni di persone sono state gettate in povertà.

E’ incredibile che gli euroausterici – quelli che ripetono continuamente di odiare il debito – non si rendano conto di tutto questo.