lunedì 27 gennaio 2020

Elementi chiave per avviare il progetto CCF


Un governo determinato e coeso.

Un governo che controlli il MEF. Il governo gialloverde non lo controllava: Tria rispondeva a Mattarella e quindi alla UE.

Un Ministro dell’Economia che dia corso al progetto, anche in presenza di pareri dubitativi o negativi da parte di organismi tecnico-burocratici.

Descrivere il progetto per quello che è: la soluzione per risolvere le disfunzioni dell’Eurosistema, non per romperlo – e non lo si vuole rompere perché, introducendo i CCF, non ne esiste più alcuna necessità.

Spiegare al mercato, in termini chiari, semplici e privi di ambiguità, che il Maastricht Debt – il debito in euro da rimborsare e rifinanziare – diminuirà costantemente in rapporto al PIL.

Se la UE minaccia la procedura d’infrazione, rispondere che non ce ne sono i presupposti, e andare avanti tranquilli.

Se la UE mette in atto la procedura d’infrazione, proseguire comunque tranquilli. Francia e Spagna sono stati in procedura d’infrazione per una decina d’anni.

Se la UE sanziona, proseguire comunque tranquilli. La potenziale sanzione (lo 0,2% del PIL) è niente in confronto ai benefici del progetto CCF.

Continuare senza esitazioni anche in caso di turbolenze di mercato. Rientreranno in pochi mesi quando il mercato constaterà che il rapporto Maastricht Debt / PIL si riduce, che la crescita riparte, e che non c’è alcuna volontà né necessità di rompere l’euro.


mercoledì 22 gennaio 2020

Il QE provoca svalutazione, non inflazione


I programmi di Quantitative Easing messi in atto dalla BCE hanno prodotto un apparente paradosso.

Sono stati completamente inefficaci per quanto riguarda l’obiettivo dichiarato, alzare il tasso d’inflazione verso l’obiettivo BCE del 2% (o per essere più esatti, “inferiore ma vicino al 2%”).

Hanno invece prodotto un consistente riallineamento al ribasso del cambio.

Nell’estate del 2014, l’euro valeva oltre 1,30 dollari. In quel periodo, si è cominciato a parlare con sempre maggiore insistenza del possibile avvio di un programma di QE da parte della BCE.

Il programma è stato alla fine annunciato da Mario Draghi nel gennaio 2015, e attuato a partire da marzo. E tra l’estate 2014 e l’inizio del QE ha avuto luogo una svalutazione dell’euro fino a circa 1,10 dollari. In anticipo, in effetti, rispetto all’avvio del programma, per la nota tendenza dei mercati a recepire gli effetti di un mutamento di politica prima che avvenga, via via che la sua attuazione diventa sempre più certa.

Intorno al livello di 1,10, il cambio ha oscillato da allora a oggi (quindi, ormai, per cinque anni).

In tutti questi anni, non si è verificato invece alcun significativo incremento dell’inflazione media dell’Eurozona. Il che stupirà chi crede alla favola secondo la quale svalutazione e inflazione vanno sempre e comunque di pari passo.

In realtà, la spiegazione è semplice. Le politiche fiscali rimanevano orientate al consolidamento. Non veniva immesso potere d’acquisto supplementare, utilizzabile per comprare beni e servizi.

Veniva invece emessa moneta per comprare titoli. Saliva quindi il prezzo di questi ultimi (e scendeva di conseguenza il loro tasso di rendimento). Senza alcun impatto rilevante e sistematico sui prezzi al consumo.

Come mai, invece, si verificava un impatto sul cambio ? perché veniva ritirata dal mercato una grossa quantità di attività finanziarie (sostanzialmente, i titoli di Stato acquistati nell’ambito delle operazioni di QE). Gli investitori vendevano e si guardavano, quindi, intorno alla ricerca di impieghi alternativi.

Questi impieghi alternativi in molti casi erano reperibili all’interno dell’Eurozona. Ma in parte, ci si rivolgeva anche al resto del mondo.

Gli euro ricevuti da chi vendeva i titoli di Stato venivano quindi ceduti per comprare azioni, obbligazioni o altri investimenti. E questi investimenti in parte erano in dollari o comunque extra Eurozona.

Il QE senza espansione fiscale ha quindi prodotto, per ragioni perfettamente comprensibili, un deprezzamento del cambio euro – dollaro. E nessun impatto degno di nota, al contrario, sull’inflazione.


domenica 19 gennaio 2020

La cosiddetta inflazione da costi


Parecchi testi di economia distinguono tra “inflazione da domanda” e “inflazione da costi”. La prima, generata da un eccesso di domanda rispetto alla capacità del sistema economico di produrre beni e servizi. La seconda, dal fatto che per cause esterne si produce un incremento di costo di determinati input produttivi.

Il tipico esempio della (cosiddetta) inflazione da costi è costituito dagli oil shocks degli anni Settanta. Il prezzo del petrolio è repentinamente salito, prima a seguito della guerra del Kippur (1973), poi della crisi iraniana (1979). Se una materia prima importante come il petrolio sale di prezzo, è inevitabile che l’inflazione (più precisamente, il tasso di crescita del livello generale dei prezzi) si incrementi, giusto ?

In realtà il fenomeno è più complesso. Se un input produttivo aumenta di costo, si verifica una redistribuzione di reddito a favore di chi fornisce quell’input, e a danno degli altri soggetti economici. Ma la domanda complessiva di beni e di servizi non aumenta: anzi, se l’input è importato dall’esterno – come il petrolio per la maggior parte dei paesi occidentali – la capacità di spesa di famiglie e imprese non sale ma, al contrario, scende. Perché mai i prezzi dovrebbero aumentare ?

In prima istanza, l’effetto della crescita di costo di un input produttivo è che il reddito si ridistribuisce. A danno di aziende e cittadini e a favore dei produttori di petrolio, nel caso degli oil shocks. A danno dei datori di lavoro e a favore dei dipendenti se questi ultimi riescono a ottenere rilevanti incrementi salariali. Eccetera.

Spesso si afferma che l’inflazione si genera perché le aziende “passano l’incremento di costo sui prezzi dei beni e dei servizi”. Ma è un’affermazione insufficiente a descrivere quanto accade. Come fa questo “passaggio” ad avvenire, se la capacità di spesa degli acquirenti di questi beni e di questi servizi non è aumentata ?

L’inflazione innescata dagli oil shocks (ma anche, in misura minore ma apprezzabile, dagli incrementi salariali di fine anni Sessanta) non si sarebbe prodotta se non fosse stata “assecondata” da una maggiore disponibilità di moneta e credito messa a disposizione dal settore pubblico e dal sistema bancario. Questa disponibilità ha fatto sì che l’incremento di costo degli input produttivi non si traducesse in un calo degli utili nominali delle aziende, e dei redditi nominali dei lavoratori: calo che avrebbe avuto conseguenze sulla solvibilità dei debitori e sul sistema finanziario, innescando addirittura il rischio di una catena di dissesti bancari.

In ultima analisi, anche la cosiddetta “inflazione da costi” si è prodotta a causa di uno squilibrio tra domanda (a valori nominali) e offerta (intesa come capacità di generazione di valore aggiunto da parte del sistema produttivo).

L’offerta così definita è scesa, la domanda no – perché è stata sostenuta dalle autorità pubbliche per evitare di comprimere i redditi nominali di aziende e cittadini, e di mandare in crisi il sistema bancario. La domanda nominale si è quindi portata al di sopra dell’offerta nominale e ne è seguita inflazione: il male minore, date le circostanze.


venerdì 17 gennaio 2020

Confronto pubblico Armando Siri - Marco Cattaneo; Bologna, 20.1.2020 h 18.30


Lunedì 20 gennaio 2020 - ore 18:30

presso

Hotel Europa

-Via Boldrini n. 11 – Bologna

Confronto pubblico

Flat tax e Certificati di Compensazione Fiscale

nella realizzazione del diritto costituzionale al lavoro

ne discutono
e
dott. Marco Cattaneo


- INCONTRO APERTO AL PUBBLICO - 



La maggior parte dei problemi che incontriamo oggi in Europa erano già stati descritti dal prof. Roberto De Mattei in una lettera aperta ai parlamentari europei nel 1992. Già allora denunciava il Trattato di Maastricht, grazie al quale il denominatore comune dell’Europa diventava la moneta unica. Non un’idea condivisa, non un valore, ma una cosa: il denaro.
Ma la posta in palio non è mai stata solo una questione di banconote. Adesso ce ne accorgiamo

mercoledì 15 gennaio 2020

Default su debito pubblico in moneta estera: è “volontario” ?


In alcuni dei post precedenti, ho chiarito una fondamentale (e peraltro evidente) differenza tra emettere debito pubblico nella propria moneta, rispetto a emetterlo in moneta straniera.

Nel primo caso, non posso essere forzato al default. Altrimenti detto: posso sempre emettere la mia moneta e rimborsare il debito, se in quella moneta è denominato.

Questo non significa che un default in moneta propria non si verifichi mai. Ma è una decisione volontaria dell’emittente.

Tra le motivazioni che possono indurre lo Stato emittente al default su debito in moneta propria, trovate qui analizzato il caso in cui si desideri ridurre il potere d’acquisto in circolazione per tamponare rischi di iperinflazione e/o evitare la svalutazione del cambio.

E qui, il “caso Giamaica” del 2010 / 2013: evitare di pagare ai detentori del debito pubblico tassi d’interesse reali su debito a tasso fisso che non erano altissimi al momento dell’emissione, ma lo sono diventati a causa dalla caduta dell’inflazione.

Mi è stato obiettato che in effetti, se dispongo della mia moneta, posso sempre emetterne un quantitativo “grande a sufficienza” e cambiarlo contro valuta estera per rimborsare un debito denominato (per esempio) in dollari.

Se questo è vero, anche il default su debito in moneta straniera va considerato una decisione volontaria – e non forzata – dell’emittente.

In pratica, il massimo che si può affermare è che l’emittente ci può provare. Che sia realmente possibile, è a dir poco dubbio.

Se (poniamo) l’Argentina ha emesso debito in dollari e a ha difficoltà a rimborsarlo / rifinanziarlo, di quanto crollerebbe il cambio peso / dollaro se si decidesse di emettere pesos per un ammontare pari a svariate decine di punti di PIL ? e di vendere quei pesos contro dollari ?

Non so se sia possibile o sensato formulare un’ipotesi in merito. Va messa seriamente in conto la possibilità che la quantità da emettere diventi “grande a piacere”, rendendo di fatto l’operazione impossibile anche sul piano teorico.

Inoltre, di sicuro si verificherebbe un enorme trasferimento di ricchezza a vantaggio dei soggetti residenti che detengono, in tutto o in parte, il debito, e a svantaggio di tutto il resto della popolazione.

Avrebbe infatti luogo una gigantesca emissione di moneta locale a beneficio dei primi. Una sorta di superpatrimoniale regressiva (visto che i detentori del debito sono, in misura più che proporzionale, soggetti con disponibilità patrimoniali superiori alla media).

La conclusione ? indebitarsi in moneta emessa da terzi – soprattutto se è tendenzialmente più forte della propria – è una pessima, veramente pessima, idea.

E disgraziatamente è quanto ha fatto l'Italia dal momento in cui è entrata nell’euro.


domenica 12 gennaio 2020

L’Italia vive al di sotto dei propri mezzi


E’ davvero deprimente ascoltare o leggere commentatori vari insistere con il ritornello che “l’Italia vive al di sopra delle proprie possibilità”.

Da diversi anni, l’Italia realizza un surplus commerciale estero intorno ai 50 miliardi di euro. Questo significa che, nonostante un significativo sottoutilizzo della propria capacità produttiva (come evidenziato dagli alti livelli di disoccupazione e sottoccupazione, e dall’inflazione a zero) l’Italia produce molti più beni e servizi di quanti ne impiega all’interno del paese.

In altri termini, l’Italia produce più di quanto spende. E di conseguenza, la NIIP (Net International Investment Position), cioè la differenza tra investimenti italiani all’estero, e investimenti di stranieri nel nostro paese, dopo aver raggiunto un massimo negativo del 27% del PIL nel 2014, si è pressoché azzerata.

La NIIP era -38 miliardi, poco più del 2% del PIL, al 30.6.2019, e con ogni probabilità diventerà positiva nel 2020.

Ma il debito pubblico, dirà qualcuno ? beh il debito pubblico, 2.442 miliardi al 30.6.2019, è detenuto per il 70% da residenti italiani.

Il residuo 30%, 738 miliardi (sempre al 30.6.2019), corrisponde quasi esattamente agli investimenti netti italiani sull’estero (700).

In pratica, come è assolutamente normale per un paese che non genera strutturalmente e sistematicamente deficit commerciali, a fronte del debito pubblico (2.442) ci sono titoli di Stato posseduti da residenti italiani (1.704) e attività nette estere (700).

Il debito pubblico non produce deficit patrimoniali, perché l’emissione di titoli va di pari passo con maggiori attivi in mano ai propri cittadini. Il deficit patrimoniale di un paese si produce invece in conseguenza di saldi commerciali esteri negativi: ma l’Italia è precisamente nella situazione opposta.

L’Italia produce più di quanto spende, e non ha deficit patrimoniali verso l’estero degni di nota.

L’Italia vive al di sotto, non al di sopra dei propri mezzi.

martedì 7 gennaio 2020

Ma perché non leggono ?


Quanto sono comici, quelli che criticano il progetto CCF senza averlo letto. E sono veramente tanti, ve lo assicuro.

Qualche giorno fa ne intercetto uno su twitter che se ne esce con “perché mai dovrei accettare una quasi-moneta in sostituzione di una valuta di riserva ?”

Credo che non abbia letto la proposta. Almeno, lo spero per lui. Perché se l’ha letta e non ha capito che i CCF nascono per immettere nell’economia potere d’acquisto supplementare (non sostitutivo), per incrementare i redditi netti, ridurre il carico fiscale, effettuare investimenti, rafforzare la spesa sociale – se ha letto e non ha capito, c’è da preoccuparsi (per lui, appunto).

Quanto al “perché dovrei accettare i CCF al posto degli euro”, immaginatevi questa situazione.

Siete disoccupati. Vi propongono un posto di lavoro. Però pagato in qualcosa che non sono euro – che so, fiorini ungheresi, azioni Apple, barili di petrolio.

Che cosa fate ? vi chiedete “beh vediamo questi fiorini, queste azioni, questi barili a quanti euro equivalgono, in valore ?”

Oppure dite NOOOO ! non sono valute di riserva ! se non pagano in euro e solo in euro, non mi interessa !!!

A occhio e croce, la maggioranza assoluta – forse l’80% - delle critiche al progetto CCF sono di questo livello.

Forse è un buon segno.

Ad ogni modo, gli stessi critici che dubitano (sulla base delle “argomentazioni” sopra esposte) del progetto CCF affermano anche che “ci sono altri modi per risolvere le disfunzioni dell’euro”.

Ma certo che ci sono. Fare le stesse cose immettendo nell’economia reale non CCF, bensì euro.

Domanda: l’Italia può emettere euro ?

E può emettere CCF ?

Alle due domande, la risposta è NO per una, e SI’ per l’altra.

Non avrete certo problemi a individuare il corretto abbinamento.


domenica 5 gennaio 2020

La correlazione tra prezzi e moneta


Un breve post, “discretamente tecnico”, per chiarire alcuni concetti sulla correlazione tra prezzi (da un lato) e quantità di moneta in circolazione (dall’altro).

La teoria quantitativa della moneta afferma che

MV = PQ

ovvero, che il prodotto tra la moneta esistente e la sua velocità di circolazione equivale al prodotto tra prezzi medi e quantità prodotta di beni e servizi.

E’ un’identità contabile e quindi è tautologicamente vera. Entrambi i lati dell’eguaglianza, infatti, corrispondono al valore delle transazioni di beni e di servizi, effettuate nell’ambito del sistema economico.

Allora, se V e Q rimangono costanti, ad ogni incremento di M deve corrispondere un incremento di P. Stampo moneta e i prezzi salgono.

Appunto: se V e Q rimangono costanti.

Quando, però, l’economia è depressa – quando cioè la capacità produttiva è sottoutilizzata, quindi persone e aziende sono disoccupate o lavorano al di sotto delle loro potenzialità – una crescita di M rivolta all’acquisto di beni e di servizi (e di conseguenza all’incremento di domanda reale) produce la crescita di Q, e non di P.

I prezzi non salgono perché l’offerta di beni e di servizi aumenta di pari passo alla domanda. In questo caso, quindi, la correlazione tra M e P si rompe.

L’altro caso di rottura è quanto si è verificato, in particolare nell’Eurozona, con le operazioni di Quantitative Easing, rivolte all’acquisto di titoli, senza però che si verificasse un’espansione fiscale (senza, quindi, immissione di potere d’acquisto nell’economia, mediante maggiore spesa pubblica e/o minori tasse).

La domanda di beni e servizi reali non è aumentata e non c’è quindi stato incremento di prezzi. Il Quantitative Easing non ha avuto nessun impatto significativo sull’inflazione, né, peraltro, ha stimolato la crescita reale dell’economia.

Nell’equazione MV = PQ, questo significa che M è cresciuta ma V è calata.

Se ci fate caso, i concetti sottostanti sono quelli espressi qui: nessuna sorpresa.


venerdì 3 gennaio 2020

Quelli che “se fai prodotti di qualità, il prezzo non conta”


Una delle più strampalate tesi degli euroausterici è che l’euro – moneta sottovalutata per le economie Nord-Eurozoniche, e sopravvalutata per quelle del Sud – non è in realtà un vantaggio per le aziende tedesche, e degli altri paesi dell’area ex-marco.

Il motivo ? “i tedeschi competono sulla qualità, sull’innovazione, sulla ricerca e non sul prezzo”.

Ha dell’incredibile che qualcuno riesca a sostenere un’”argomentazione” del genere senza scoppiare a ridere guardandosi allo specchio. Pensate che se un’Audi costasse il 20% in più se ne venderebbero lo stesso numero ?

Tra l’altro questo equivale a supporre che gli esportatori tedeschi siano afflitti da un monumentale grado di stupidità. Immaginiamo, per assurdo, che potessero vendere lo stesso numero di prodotti a 120 così come a 100. Perché mai, allora, non alzano i prezzi del 20% adesso ?

Agli esportatori tedeschi l’euro sottovalutato fa comodo, eccome. Le uniche ragioni per cui hanno fatto partire l’euro con l’Italia e non senza, sono state evitare la rivalutazione del marco, nonché mettere in difficoltà l’industria manifatturiera che in Europa gli faceva maggiormente concorrenza (la nostra).

Detto questo,  il progetto CCF consente di risolvere le disfunzioni dell’Eurozona, e in particolare quelle che affliggono l’Italia, evitando la rottura dell’euro e il conseguente riallineamento valutario. Nell’ambito del progetto, il meccanismo da tenere ben presente è l’erogazione di una parte delle emissioni di CCF alle aziende, abbassando il loro costo del lavoro lordo (vedi questo post).

Però per cortesia, non raccontate la barzelletta che la qualità consente di praticare qualsiasi prezzo si desideri. Un prodotto di alta qualità si vende a un prezzo maggiore di uno di bassa qualità; ma a parità di prodotto, un prezzo più basso è sempre un vantaggio. E viceversa.


mercoledì 1 gennaio 2020

Il default giamaicano


In questo post, avevo affermato che uno stato non può mai essere forzato al default su debito in moneta propria. Nei casi in cui questo si è verificato, si è quindi trattato di una decisione volontaria.

Avevo anche accennato a due casi che possono motivare questa decisione. Riporto qui (scusate l’autocitazione) quanto avevo detto in quella sede:

“In primo luogo, lo stato emittente potrebbe ritenere necessario ridurre il potere d’acquisto in circolazione nella propria economia, per frenare eccessi di domanda e di inflazione. Il default in questo senso è assimilabile a un’imposizione fiscale (a una tassazione patrimoniale, per la precisione). Posso preferire far subire la perdita di potere d’acquisto ai titolari del debito pubblico invece che tagliare spese o aumentare le tasse su redditi, consumi, immobili o quant’altro.

In secondo luogo, posso cercare di mantenere un determinato rapporto di cambio tra la mia moneta e le valute estere. Se non ho abbastanza riserve valutarie per convertire la moneta in circolazione, devo adottare politiche deflattive. E una forma di politica deflattiva è ridurre la moneta propria, o i titoli da rimborsare in moneta propria, per abbassare le probabilità di ricevere richieste di conversione a cui non riesco a far fronte sulla base di un rapporto di cambio che, per qualche motivo, ho deciso di mantenere fisso a un determinato livello.

Come si vede, all’origine della decisione in entrambi i casi c’è la volontà di deflazionare l’economia: nel primo caso per ridurre la domanda e l’inflazione, nel secondo per sostenere il cambio”.

Antonio Ripa ha sottoposto all’attenzione mia (e di chi lo segue su twitter) un caso differente. Si tratta di due operazioni attuate dalla Giamaica, nel 2010 e nel 2013, che hanno riguardato debito denominato, in buona parte, in moneta locale.

Si è trattato di due swaps: il debito è stato convertito in titoli con valore di rimborso invariato ma con tassi d’interesse più bassi. Le motivazioni di queste operazioni non rientrano in uno dei due casi sopra descritti.

Negli anni di effettuazione degli swaps, la Giamaica non aveva un problema di inflazione sul punto di andare fuori controllo. La variazione dei prezzi al consumo su base annua, dopo aver raggiunto picchi oltre il 20% nel 2008-2009, stava rallentando e da fine 2010 in poi si è attestata sotto il 10% (NB i dati citati in questo post sono di fonte tradingeconomics.com).

A loro volta, i tassi di rifinanziamento della Banca Centrale giamaicana (presumibilmente, il riferimento per le emissioni di titoli di debito pubblico) dopo aver oscillato intorno al 15% tra il 2001 e il 2009, sono scesi al 10% nel 2010 e al 6% nel 2012.

Da dove è nato il problema giamaicano ? il debito emesso nella decade ’00 aveva tassi nominali alti, ma tassi reali (al momento dell’emissione) prossimi allo zero se non addirittura negativi, a causa dell’elevata inflazione.

La discesa di quest’ultima ha portato invece, dal 2010 in poi, i tassi reali in territorio fortemente positivo. Pagare i tassi nominali ai livelli fissati originariamente avrebbe quindi comportato un grosso trasferimento di ricchezza, a vantaggio dei detentori di titoli di debito e a danno della grande maggioranza della popolazione.

Va notato che lo swap non era l’unico modo per intervenire sul problema. Concettualmente, un’altra possibilità sarebbe stata, ad esempio, una superimposizione fiscale sugli interessi pagati ai titolari del debito pubblico. Immagino tuttavia che, a causa di vincoli normativi o contrattuali, la soluzione swap fosse preferibile, se non magari addirittura l’unica attuabile.

Per inciso, anche l’Italia ha emesso debito con alti tassi nominali – corrispondenti però a tassi reali spesso negativi, a causa dell’alta inflazione di quel periodo – per tutti gli anni Settanta. E negli anni Ottanta, la disinflazione e l’ingresso nello SME hanno poi portato i tassi reali in territorio positivo: una dinamica “giamaicana”, quindi.

In Italia, però non sono sorti particolari problemi dovuti al debito pregresso. La ragione è che lo stock di debito esistente era in larghissima misura a breve scadenza (BOT) o a tasso variabile (CCT): non ci sono quindi state esplosioni di oneri reali su grandi masse di debito emesso a tasso fisso negli anni precedenti.

Il caso Giamaica è interessante, in quanto identifica un’ulteriore motivazione che può spingere uno Stato al default (volontario) su debito in moneta propria. Non l’inflazione o la svalutazione che stanno andando fuori controllo, ma i tassi reali che diventano insostenibili in seguito alla discesa dell’inflazione (in presenza di tassi nominali che non si adeguano abbastanza rapidamente).

Al contrario di quanto ho sentito affermare da alcuni “euroausterici”, però, tutto questo non dimostra affatto che “anche sul debito in moneta propria ci sono dei casi di default, quindi che lo Stato s’indebiti in moneta nazionale o in moneta estera è la stessa cosa”.

Non sono a conoscenza di casi in cui un problema venutosi a creare in presenza di debito pubblico in moneta propria sarebbe stato evitato emettendolo in moneta estera.

Mentre è disgraziatamente vero il contrario, in primo luogo proprio per quanto riguarda l’Italia. La mancanza della garanzia fornita dalla potestà di emissione della moneta in cui è denominato il debito ha innescato la “crisi dello spread” nel 2011. Ed è stato il pretesto per imporre le scellerate politiche di contrazione della domanda interna che hanno spinto l’economia italiana nell’orribile situazione in cui ancora oggi ci troviamo.

Con l’economia ancora convalescente dalla crisi finanziaria mondiale del 2008-2009, la domanda depressa, l’inflazione bassa, l’Italia se dotata della propria moneta avrebbe potuto tranquillamente reflazionare la propria economia e ridurre fortemente e rapidamente la disoccupazione e la sottoccupazione.

Questo è il punto che mi preme ribadire una volta di più: la sovranità monetaria non risolve e non evita tutti i problemi dell’economia. Ma privarsi della propria moneta, o comunque indebitarsi in moneta straniera, può creare problemi estremamente gravi, che altrimenti non sorgerebbero, o che sarebbero molto più semplici da gestire.