Un articolo di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Massimo Costa e Stefano Sylos Labini, che - oltre a temi di carattere generale - prende in considerazione alcuni aspetti contabili della Moneta Fiscale, fondamentali per comprenderne la natura giuridica e la coerenza con trattati e regolamenti che governano il funzionamento dell'Eurosistema.
Blog dedicato al progetto Moneta Fiscale / Certificati di Compensazione Fiscale - MF / CCF), soluzione per la crisi dell'Eurozona. Progetto reperibile in questo post. Cronistoria degli eventi rilevanti qui. I CCF sono anche noti come Certificati di Credito Fiscale.
giovedì 26 aprile 2018
lunedì 23 aprile 2018
CCF e detentori del debito pubblico italiano: un chiarimento
Ero in viaggio e ho
risposto in modo molto sintetico al commento di un lettore (a quest'ultimo post).
Uno dei suoi dubbi merita però una risposta meno sbrigativa.
Nelle sue parole:
“Non capisco proprio come si possa sostenere che vendere un claim sulle mie entrate sia
fondamentalmente diverso da un debito normale. Se faccio la cessione del quinto
dello stipendio (esiste ancora ?) non lo considera come un incremento di debito
? Se ho un mutuo e faccio la cessione dello stipendio, il rischio di credito
del mio creditore è salito. Anzi rischio pure che mi faccia causa se dichiaro
che la cessione del salario è in qualche modo senior”.
Qual è la
differenza tra cedere il quinto dello stipendio (che sì, è un’operazione ancora
praticata, anzi da qualche informazione recente mi risulta che il mercato sia
piuttosto vivace) ed emettere CCF ?
Molto semplice: lo
Stato italiano non si è impegnato in
alcun modo con i creditori (i sottoscrittori di titoli del debito pubblico) a
utilizzare una quota delle sue entrate a soddisfazione del credito. Si è
impegnato (sottoscrivendo il Fiscal Compact) a raggiungere l’equilibrio tra
entrate e uscite, il che implica che il debito da rimborsare raggiunga un
livello oltre il quale non si incrementa più.
Il Fiscal Compact,
per la verità, non è un impegno direttamente stipulato con i sottoscrittori di
titoli del debito pubblico né è incorporato nei relativi contratti di
finanziamento. Ma partiamo pure dal presupposto che l’acquirente di BOT o BTP
vi abbia fatto affidamento nel prendere la sua decisione d’investimento.
Pareggiare incassi
di euro e pagamenti di euro è un risultato che si può raggiungere in vari modi.
Incrementando le entrate grazie a nuove tasse (che hanno però un effetto
negativo sul PIL), o grazie alla crescita dell’economia, o dismettendo attivi
pubblici. Diminuendo le spese (ma anche i tagli hanno un effetto depressivo e
rischiano di essere controproducenti per gli equilibri di finanza pubblica).
Oppure – e questo
è l’elemento innovativo del progetto CCF – introducendo un nuovo strumento
finanziario, che consente di rilanciare la domanda, incrementare il potere
d’acquisto in circolazione e migliorare la competitività delle aziende senza assumersi ulteriori impegni di
pagamento in euro.
I CCF consentono
di effettuare azioni espansive che incrementano il PIL e l'occupazione. Sulla base di ipotesi più che ragionevoli, compensano il calo di gettito a termine che il
loro utilizzo ceteris paribus
produrrebbe. E se questo non fosse sufficiente, danno la possibilità di
effettuare un ampio ventaglio di ulteriori azioni di riequilibrio, qui riassunte.
Al contrario del
sottoscrittore di un contratto di “cessione del quinto”, l’Italia non ha “ceduto”
ai propri creditori una quota di entrate pubbliche. Si è impegnata a ricercare
l’equilibrio tra incassi e pagamenti: ricerca che sventuratamente (ma
prevedibilmente) ha comportato azioni pesantemente restrittive sull’andamento
dell’economia e sta impedendo al paese di uscire dalla depressione (senza
peraltro che l’obiettivi di finanza pubblica siano stati raggiunti).
Se l’Italia
raggiunge il pareggio tra incassi e pagamenti di euro, anno dopo anno,
introducendo uno strumento che rende altamente plausibile la stabilità di
questo risultato nel tempo, e contemporaneamente rilancia PIL, produzione e
occupazione, per quale motivo i creditori si dovrebbero sentire meno tutelati
di oggi ?
La loro posizione
sostanziale in realtà migliora – e nettamente. E sul piano giuridico non si
lede alcun accordo né si viene meno ad alcun impegno. Anzi: si creano le
condizioni per rispettare rigorosamente il Fiscal Compact.
venerdì 20 aprile 2018
Riflessioni sulla Perottiade
L’articolo sulla Moneta Fiscale pubblicato alcuni giorni fa da Roberto Perotti su Lavoce.info ha dato luogo a un vivace scambio di
opinioni (vedi il folto numero di commenti).
Penso sia opportuno sintetizzare e approfondire un
aspetto della sua posizione (e fugare, di conseguenza, i dubbi che ne deriverebbero
in merito alla validità della proposta Moneta Fiscale / CCF).
Perotti NON contesta che la Moneta Fiscale non rientri
nel “Maastricht Debt”, che è il debito pubblico rilevante per gli accordi che
governano il funzionamento dell’Eurozona (in particolare, ai fini del Patto di
Stabilità e Crescita e del Fiscal Compact). Al massimo dice cose tipo “sarebbe
da approfondire”, “andrebbe sentita Eurostat”, ma non ha elementi per affermare
che la Moneta Fiscale farebbe parte del Maastricht Debt. E in effetti, la Moneta Fiscale non vi rientra.
Apparentemente, la sua critica alla Moneta Fiscale è
incentrata sul fatto che in ogni caso si tratta, in un modo o nell’altro, di
una passività. E che aumentare le passività in circolazione sia qualcosa di
intrinsecamente negativo, in particolare per l’Italia.
Probabilmente per questa ragione, appare più possibilista
nei confronti dei Minibot proposti da Claudio Borghi, perché i Minibot
trasformano (in titoli circolanti) crediti verso il settore pubblico già esistenti. Al momento della loro
emissione, quindi, le passività delle pubbliche amministrazioni italiane
(definite nel senso più ampio possibile, che non è quello del “Maastricht
Debt”) non variano.
I Minibot nella forma attualmente proposta hanno però una
serie di limitazioni:
UNO, appunto perché trasformano debiti NON compresi nel
Maastricht Debt in titoli utilizzabili per ridurre pagamenti di tasse, nel
momento in cui il diritto alla riduzione fiscale viene utilizzato il Maastricht
Debt (a parità di condizioni) in effetti aumenta.
DUE, quanto sopra non avviene nella misura in cui i
Minibot circolano senza essere utilizzati per ridurre pagamenti di tasse, ma a
priori non è noto a quanto ammonterà l’utilizzo effettivo (e questa è la
ragione per cui io ho proposto, invece, di emettere CCF con due anni di
dilazione tra assegnazione e utilizzabilità per conseguire gli sconti fiscali: per
far sì che la ripresa dell’economia produca entrate fiscali compensative, anche
in caso di utilizzo integrale alla prima data possibile).
TRE, i CCF sono “fiat
money”: li assegni dove ritieni che sia più utile per conseguire, in
particolare, il maggior effetto espansivo su domanda e PIL; i Minibot vanno
invece a chi già detiene crediti, che non necessariamente (anzi) coincide con i
soggetti che hanno la maggiore propensione alla spesa.
En
passant, rimane vero, nonostante tutto quanto sopra, che la
proposta Minibot va nella direzione giusta e che i Minibot possono essere utilmente integrati con i CCF; vedi ulteriori considerazioni qui.
Tornando a Perotti, quello che sembra sfuggirgli è che
una “passività della pubblica amministrazione” non è qualcosa di brutto o di negativo
in quanto tale, e soprattutto non
rappresenta un impoverimento del paese. Al contrario, l’aumento del passivo del
settore pubblico è per definizione un incremento di attivo del settore privato.
Le “passività del settore pubblico” possono essere fonte
di preoccupazione non in astratto, ma in funzione di due circostanze ben
precise.
La prima, se comportano un obbligo di rimborso in una
moneta che la pubblica amministrazione non emette. Qui c’è un rischio legato
all’eventualità che lo Stato emittente non sia in grado di reperire, a
scadenza, la moneta (euro nel nostro caso) necessaria al rimborso (o che lo
possa fare solo a condizioni disastrose). Ed è uno dei fondamentali difetti
d’impostazione del progetto euro: si è convertito un debito in moneta nazionale
in debito in moneta straniera. Si è creato senza alcuna necessità un rischio d'insolvenza.
La seconda nasce se l’incremento delle
passività della pubblica amministrazione mette a disposizione del settore
privato un livello di potere d’acquisto eccessivo rispetto alla capacità
produttiva del sistema economico. In quel caso si genera inflazione a livelli
indesiderati. Ma è un problema che non sussiste quando la domanda è fortemente
depressa e l’inflazione è troppo bassa: come, oggi, è il caso per l’Italia.
Se nelle condizioni attuali l’Italia finanziasse un
maggior livello di deficit pubblico in moneta propria, l’operazione sarebbe
positiva sotto tutti i profili: ripresa della produzione e dell’occupazione, nessuna
inflazione indesiderata, e nessun rischio di credito aggiuntivo. Questo,
nonostante la moneta emessa sia anch’essa una passività del settore pubblico - se
per passività intendiamo “impegno”, “liability”:
lo Stato emittente è infatti impegnato a riconoscere il valore legale della
moneta e ad accettarla per estinguere le obbligazioni finanziarie nei suoi
confronti (in primo luogo, le tasse).
Il punto fondamentale è che il debito in moneta estera
comporta in primo luogo un rischio di credito; il debito in moneta propria (o
il finanziamento monetario diretto del deficit), invece, un rischio
d’inflazione. Sono due tipologie di rischio nettamente diverse e nella situazione odierna dell’Italia preoccupa il primo, NON IL SECONDO.
Per effettuare un’azione espansiva della domanda e uscire
dalla depressione che attanaglia l’economia italiana, evitando di passare
tramite la rottura della moneta unica europea, è necessario immettere potere
d’acquisto nel sistema economico, a beneficio di cittadini e imprese.
I CCF si affiancano all’euro e mettono a disposizione
dello Stato italiano un titolo che pur non essendo moneta legale né unità di
conto (quella rimane l’euro) possiede altre caratteristiche della moneta: è una
riserva di valore e un intermediario di scambio.
Come non esiste un rischio di credito su un’emissione di
moneta, non esiste neanche per il CCF, in quanto non sussiste obbligo di
rimborso.
I due anni di dilazione temporale tra assegnazione dei
CCF e loro utilizzabilità per conseguire gli sconti fiscali permettono di
evitare, sulla base di ipotesi prudenziali (recupero anche solo parziale
dell’enorme output gap di cui soffre
oggi l’economia italiana) che il Maastricht Debt (e quindi i connessi impegni
di rimborso in euro) si incrementi. E questo corrisponde al raggiungimento
dell’obiettivo fondamentale del Fiscal Compact.
Va anche notato che quand’anche non si realizzasse una
perfetta corrispondenza, negli anni futuri, tra maggior gettito fiscale lordo e
utilizzo dei CCF, basterebbe sostenere in CCF e non in euro una piccola parte
degli incrementi futuri di spesa pubblica per gestire le potenziali discrasie. Sono poi possibili varie altre azioni, qui sintetizzate.
Solo se le emissioni di CCF raggiungessero livelli tali
da far sì che in un anno futuro ne giungano a scadenza quantità molto elevate
rispetto agli incassi lordi delle pubbliche amministrazioni, si avrebbe un
rischio di “svilimento” del valore dei CCF, dovuto a un fenomeno di “intasamento
di scadenze”. Ma è un’eventualità remotissima, tenuto conto che il livello
massimo previsto delle scadenze annue è di 100 miliardi, contro incassi lordi
delle pubbliche amministrazioni (già oggi) di 800 circa.
Vale la pena di commentare anche il probabile punto di
vista degli altri stati membri dell’Eurozona. I tedeschi, in particolare, sono
enormemente preoccupati dal rischio d’insolvenza dell’Italia sul suo debito
pubblico. Si rendono conto che l’Italia è too
big too fail, che un suo dissesto finanziario sarebbe disastroso e, in
pratica, inaccettabile. Temono di dover subire enormi esborsi per evitarlo.
Ipotizzano, di conseguenza, meccanismi che dovrebbero
evitare questi esborsi, introducendo sotto certe condizioni la ristrutturazione
automatica dei debiti che non si riescono a rifinanziare sul mercato. Ma è un’idea
totalmente irrealistica: se questi meccanismi venissero adottati il debito
italiano perderebbe valore subito
perché sconterebbe un rischio che oggi il mercato percepisce come modesto. I
tassi d’interesse sui BTP decollerebbero; il meccanismo che dovrebbe rendere “morbida”
la ristrutturazione rischierebbe, al contrario, di produrre un violento dissesto
– e in tempi molto rapidi.
Oggi il mercato non crede a questi scenari perché fa
affidamento sul whatever it takes di
Mario Draghi. Il cui venir meno, con ogni probabilità, implicherebbe la fine – immediata
– dell’euro. Il problema che rende tutti inquieti è: si può mantenere in essere
il whatever it takes a garanzia di un
debito pubblico italiano che continua ad aumentare ?
Da qui derivano le pressioni sull’Italia per mantenere in
essere politiche fiscali restrittive (o addirittura inasprirle) e raggiungere
il pareggio di bilancio. Sventuratamente, tutto ciò impedisce qualsiasi ripresa
economica degna di questo nome e lascia il nostro paese in una situazione di
pesantissimo disagio economico e sociale, senza che si intravedano svolte né a
breve termine né oltre.
Utilizzare CCF per effettuare politiche economiche
espansive permette, al contrario, una forte ripresa e nello stesso tempo blocca
una volta per tutte l’incremento del debito garantito dal whatever it takes. I CCF non comportano impegni di rimborso e non
hanno necessità di essere garantiti dalla BCE. Il loro valore è garantito dall’utilizzabilità
a fini fiscali.
L’emissione di CCF non comporta rischi per i partner dell’Eurozona.
Se l’Italia eccedesse con le emissioni, produrrebbe eccesso di domanda e quindi
inflazione: ma solo qui, non negli altri paesi. E nel momento in cui i CCF
diventano utilizzabili per conseguire sconti fiscali si potrebbe creare l’”intasamento
di scadenze” sopra descritto. Ma lo subirebbero solo gli assegnatari italiani, o chi ha deciso di comprare CCF sul mercato secondario; rischio comunque
assimilabile a una perdita su un investimento in valuta, senza passare da un
evento traumatico come un default.
Quanto sopra, ricordo, si riferisce in ogni caso ad
eventualità remotissime. Oggi il problema dell’economia italiana è una
pesantissima carenza di domanda interna che si accompagna a un’inflazione
troppo bassa, non troppo alta. E come visto il progetto prevede che giungano a
utilizzabilità, nei singoli anni, quantità di CCF pari a una modesta frazione
delle entrate lorde delle pubbliche amministrazioni.
In sintesi e in conclusione: il progetto Moneta Fiscale /
CCF consente di colmare lo spaventoso output
gap che affligge attualmente l’economia italiana
senza creare rischi di credito addizionali
se correttamente gestito (emissioni nella misura
necessaria a recuperare l’output gap,
e non oltre) senza rischi di inflazione indesiderata
senza che debbano essere richiesti trasferimenti finanziari né condivisioni di rischi (ulteriori rispetto al whatever it takes applicato allo stock di debito attuale)
con flessibilità operative molto vicine a quelle che si
avrebbero emettendo moneta nazionale
e tutto questo, senza passare tramite la rottura
dell’euro.
mercoledì 18 aprile 2018
Il Maastricht Debt non comprende i crediti fiscali
Qui di seguito è riportata la composizione del debito
delle amministrazioni pubbliche italiane a fine 2017, come esposto a pagina 8
della pubblicazione Banca d’Italia reperibile a questo link.
I criteri di composizione del prospetto sono
perfettamente omogenei con quelli utilizzati da Eurostat per determinare il
cosiddetto “Maastricht Debt”, che è la grandezza rilevante ai fini del Patto di
Stabilità e Crescita e del Fiscal Compact. Il dato totale (2.256 miliardi) non
comprende ancora circa 11 miliardi imputabili alle operazioni di
ristrutturazione e salvataggio di Veneto Banca e di Banca Popolare di Vicenza.
Raccolta postale 14
Altri depositi e monete metalliche 159Titoli a breve termine 107
Titoli a medio e lungo termine 1.805
Prestiti di Istituzioni Finanziarie Monetarie 127
Passività connesse con i prestiti EFSF 34
Altre passività (*) 10
TOTALE 2.256
(*) Debiti commerciali per la sola parte oggetto di
operazioni di factoring pro-soluto: vedi penultima nota dal fondo a pagina 24
della pubblicazione Banca d’Italia sopra citata.
Come si vede, nessun credito di natura fiscale è incluso
nel prospetto, nonostante già oggi esistano svariate categorie di crediti
utilizzabili in compensazione (tra cui crediti per ristrutturazioni
immobiliari, perdite pregresse, superammortamenti), senza però dare diritto a
rimborsi “cash”: esattamente come i CCF.
lunedì 16 aprile 2018
Perché il M5S sbaglia su Berlusconi
Le trattative per
la formazione del nuovo governo sono in stallo. E uno dei motivi, anzi di gran
lunga il principale, è il veto posto dal M5S a una maggioranza che includa
Forza Italia, o per essere più esatti Silvio Berlusconi.
Ora, SB è ben
lontano dall’essere il mio ideale di statista. E naturalmente coinvolgerlo nel
governo non è una decisione né ovvia né semplice per un movimento che ha fatto
della lotta alla corruzione un punto chiave della sua proposta politica.
Ci sono però
alcune considerazioni su cui il M5S dovrebbe riflettere più in profondità di
quanto (apparentemente) emerga dalle dichiarazioni dei suoi esponenti.
In primo luogo, il
problema fondamentale del paese oggi è la profonda depressione in cui si trova
l’economia. Che a sua volta può essere risolta solo staccandosi dai vincoli
dell’Eurosistema. Per farlo occorrono idee e progetti chiari, nonché una
maggioranza solida.
Maggioranza solida
che senza Forza Italia non c’è. Un eventuale accordo M5S + Lega + Fratelli
d’Italia, o alternativamente M5S + PD + Leu, quand’anche le possibili
controparti lo prendessero in considerazione (cosa che oggi negano di voler
fare) avrebbe margini risicati, soprattutto al Senato.
Senza contare che,
per quanto riguarda la seconda ipotesi, accordarsi con il PD per staccarsi
dall’euroausterità appare chimerico, visto che il PD fin qui non è stato altro
che la longa manus della UE nel
nostro paese.
Per quante colpe
si possano imputare a Berlusconi, va poi sempre ricordato che per applicare la
fase più feroce e catastrofica dell’austerità euroindotta è stato necessario (a
novembre 2011) rimuoverlo dal
governo.
D’altra parte, che
cosa si teme se Forza Italia entra in maggioranza ? leggi ad personam ? distorsioni a tutela degli interessi economici di SB
? ma queste cose ha potuto farle quando il capo del governo era lui, con Forza
Italia in posizione di netto predominio nella coalizione. Oggi sarebbe il terzo
partito su quattro, quindi non in condizione di imporre nulla.
Se non
d’imposizione, SB avrebbe comunque una capacità di ricatto ? no: se si
ritirasse dalla maggioranza la indebolirebbe ma non sarebbe comunque in grado
di farla cadere, soprattutto se un certo numero di parlamentari di Forza Italia
non lo seguissero. Cosa molto probabile, a legislatura avviata e con un governo
in carica.
Queste cose SB –
sul quale si possono dire molte cose, ma non che sia uno sprovveduto – le ha
ben chiare. Il suo obiettivo è salvare la faccia e vivere con un po’ di
tranquillità i prossimi anni. Non molto altro: età, salute, calo di influenza politica
fanno sì che il suo ruolo non possa che continuare a ridimensionarsi.
Chiarito tutto
questo, torniamo al problema chiave. E’ fondamentale comporre una maggioranza
solida per cambiare corso (in primo luogo) all’economia. E le idee su cui
convergere, tra M5S e centrodestra, ci sono (vedi anche e soprattutto la Moneta
Fiscale, in una delle sue possibili declinazioni).
Si può conseguire moltissimo
con un programma condiviso, che evidentemente non rispecchierà al 100% i
desideri di tutti, ma che senz’altro potrà riportare il paese nella direzione
giusta.
Se invece il M5S
si inchioda su posizioni “travaglistiche”, se antepone l’antipatia verso un
avversario politico alle esigenze del paese, rischia di condannarsi
all’irrilevanza e a lasciare irrisolti i problemi dell’economia. E sarebbe
gravissimo.
sabato 14 aprile 2018
Che cosa sfugge a Perotti
Biagio Bossone /
Marco Cattaneo / Massimo Costa / Stefano Sylos Labini
I nostri principali commenti all’articolo pubblicato ieri da Roberto Perotti su Lavoce.info.
La critica di
Perotti al progetto CCF / Moneta Fiscale è basata sostanzialmente su tre punti, che possono essere riassunti – e
confutati – come segue.
UNO: “i CCF sono
debito pubblico”. No, non lo sono. I principi contabili internazionali adottati
anche nella definizione del “Maastricht Debt” ai fini dello Stability & Growth
Pact e del Fiscal Compact sono molto chiari al riguardo. Vedi per esempio qui . Il nocciolo è che titoli a utilizzabilità fiscale senza obbligo di rimborso in euro sono “non-payable deferred tax assets” e non
hanno impatti sui conti pubblici fino al loro utilizzo per conseguire sconti
fiscali (cioè due anni dopo l’emissione, quando produzione e gettito avranno
recuperato).
DUE: “se non
sono debito, i CCF sono comunque una passività per lo Stato”. Se per
“passività” intendiamo “impegno” (di accettazione) lo è anche la moneta. Il
punto è che l’economia italiana ha necessità di rilanciare la domanda,
BLOCCANDO nello stesso tempo l’incremento delle passività su cui può essere
forzata al default in quanto
impongono un rimborso in una moneta (l’euro) che l’Italia non emette. I CCF
risolvono il problema appunto perché NON richiedono un approvvigionamento sul
mercato dei capitali.
TRE: “i CCF sono
un progetto “Lafferista””. No: non fanno affidamento su un incentivo ad aziende
e cittadini a lavorare di più perché le tasse sono più basse, ma su un’azione
espansiva della domanda. L’utilizzabilità fiscale dello strumento è l’elemento
che conferisce ai CCF potere d’acquisto e quindi spendibilità, ma la proposta è
demand-side, non supply-side: vedi qui .
giovedì 12 aprile 2018
Target2: la Germania che chiede i soldi ?
Come ho già
spiegato più di una volta, i saldi Target2 sono una delle caratteristiche
dell’Eurosistema peggio comprese e quindi maggiormente fraintese.
Un commento
espresso piuttosto di frequente da vari opinionisti, e particolarmente
significativo di questo stato di confusione, si può riassumere nei termini
seguenti. La Germania avrebbe tutto l’interesse a lasciare l’Eurosistema perché
la Bundesbank vanta un saldo attivo Target2 con la BCE di circa 900 miliardi.
“Quindi” in caso di GermanExit la BCE dovrebbe “staccare un assegno” di 900
miliardi.
Dove sta il
fraintendimento ?
Poniamo pure che
esista un “impegno di liquidazione” in caso di uscita (che in realtà non c’è,
in quanto, come si spiegava qui, non esiste alcun contratto di finanziamento o
di deposito: il Target2 è un meccanismo di regolazione contabile, non un
rapporto creditizio).
Ma trascuriamo
quest’ultimo punto. La Germania, immaginiamo, esce dall’Eurosistema, e il
signor Bundesbank si presenta dal signor BCE (il viaggio è breve, stanno tutti
e due a Francoforte) e con piglio fermo e deciso chiede “i miei 900 miliardi,
li voglio qui, sul tavolo, li devi saldare !!”
Il signor BCE
guarderebbe il signor Bundesbank con aria alquanto sbigottita.
Perché il signor
Bundesbank detiene, certamente, un attivo di 900 miliardi, a cui però già oggi può attingere quando gli pare. E l’impegno
correlato è a carico dell’istituzione che emette gli euro (la BCE). Una
controparte, quindi, solvibile per definizione.
Già
oggi,
senza bisogno di fare nulla di particolare, la Bundesbank può prelevare quanto
vuole, fino al limite del suo saldo attivo.
Perché non lo fa
? ma perché la Bundesbank centralizza su di sé i saldi interbancari del sistema
creditizio tedesco, a cui fanno riferimento le persone fisiche e giuridiche
(non necessariamente tutte tedesche) che hanno depositi presso le banche del
paese.
E i saldi Target2
si formano appunto perché i residenti tedeschi incassano (collettivamente) più euro dagli altri paesi dell'Eurosistema, rispetto a quanti ne pagano. E la differenza rimane depositata presso la BCE.
Altrimenti
detto, i residenti tedeschi potrebbero in
qualsiasi momento decidere di spendere questi euro per importare più prodotti
esteri, o per effettuare maggiori investimenti finanziari all’estero. Se non lo
fanno, i soldi rimangono depositati presso la BCE. E dove se no ?
Non c’è bisogno
di attivare la GermanExit né di presentarsi dal signor BCE, con aria truce, per
“esigere il dovuto”. Basta effettuare un prelievo.
Un altro modo di
descrivere la situazione è il seguente. Se la Bundesbank “preleva i suoi 900
miliardi” è perché i residenti tedeschi hanno deciso (in qualche modo) di utilizzare surplus di bilancia dei pagamenti generati in questi anni. Questo lo possono
fare in qualsiasi momento.
Se non lo vogliono fare, l’ipotetico
prelievo di 900 miliardi verrebbe effettuato dalla Bundesbank senza che venga
attivata alcuna altra forma di impiego. In pratica la Bundesbank li
preleverebbe e li ridepositerebbe un secondo dopo, sempre presso la BCE. Che
senso ha questa operazione ? esattamente e precisamente nessuno.
In sintesi, la
Bundesbank ha effettivamente 900 miliardi di disponibilità presso la BCE. Ma li
ha già oggi, e li può utilizzare in qualsiasi momento i residenti tedeschi lo
desiderassero. Se esce dall’euro, non le arriva un centesimo in più rispetto a
quanto è già disponibile e utilizzabile oggi.
lunedì 9 aprile 2018
Euroriforma ? non c'è accordo, la via è la Moneta Fiscale
Quotidianamente,
si leggono ipotesi e commenti in merito a una possibile riforma
dell’Eurosistema, impostata sulla base di una proposta condivisa tra Germania e
Francia – e nell’ipotesi che gli altri 17 paesi che si sono vincolati
all’utilizzo della moneta unica europea si adeguino.
Ma la situazione è
alquanto diversa. L’unica proposta comune (per quanto ufficiosa) che ha
ricevuto una certa pubblicità mediatica negli ultimi tempi è quella elaborata
da 14 economisti franco-tedeschi. Le probabilità che risolva le attuali
disfunzioni del sistema monetario europeo sono pari esattamente a zero, per le ragioni spiegate qui.
Ritengo che un
accordo non sia possibile per la semplice ragione che manca una diagnosi
condivisa dei problemi e quindi anche delle soluzioni. I francesi richiedono
che l’Eurozona si doti di una capacità di bilancio adeguata a sostenere la
domanda delle economie in difficoltà. I tedeschi rifiutano, nella sostanza, di
prendere in considerazione questa ipotesi.
Per motivi
esclusivamente tattici, i tedeschi hanno evitato di opporre un no secco alle ipotesi
formulate da Macron. Ma il diniego è stato comunicato da un gruppo di paesi
“nordico-baltici” (alcuni dei quali appartenenti alla UE e non all’Eurozona, ma
evidentemente timorosi di essere comunque chiamati a erogare contributi).
Nei fatti, i Paesi
Bassi hanno agito da capofila di questo gruppo, e la mia netta sensazione è che
la mossa sia stata concordata con la Germania.
In ogni caso, è
totalmente inutile attendersi una soluzione sensata e condivisa. Dal punto di
vista dei singoli paesi e in particolare dell’Italia, non c’è (di fatto) alcuna
via di uscita che non passi tramite un’azione unilaterale.
La via di gran
lunga più semplice ed efficiente è emettere Moneta Fiscale per rilanciare la
domanda, nonché la competitività delle imprese, e bloccare nello stesso tempo la
crescita del debito da rimborsare in euro.
I paesi euronordici
hanno una preoccupazione, in sé legittima: arrestare l’incremento del debito
(altrui) di cui rischiano di doversi far carico. La Moneta Fiscale ottiene
questo risultato. E nello stesso tempo inverte il ciclo di stagnazione
depressiva che attanaglia da anni il Sud Europa.
Nessuno scatenerà
una crisi per bloccare un’azione di questo tipo, nessuno se lo può permettere e
nessuno ne ha l’interesse.
Serve solo una
cosa: volontà politica nei singoli paesi. E in particolare, per quanto ci
riguarda, in Italia.
sabato 7 aprile 2018
Moneta Fiscale e governance dell’Eurosistema: il punto sostanziale
Le ragioni
formali – legali e contabili – per cui la Moneta Fiscale (MF) è totalmente in
regola con la struttura dell’Eurosistema sono state chiarite in molti articoli
che ho pubblicato in questo blog, e in molti altri predisposti dal nostro gruppo
di ricerca. Vedi, tra i tanti, questo.
Ma il punto di
maggiore sostanza, che è importante avere ben chiaro prima ancora di esaminare
(e senza volerne sminuire l’importanza) i temi formali, è il seguente.
La regola del
pareggio di bilancio nonché il Fiscal Compact hanno un senso in quanto fin dal
momento in cui l’euro è stato creato, ci si è basati sul principio che nessun
paese fosse obbligato a farsi carico delle passività di un altro.
In realtà questo
principio è stato disatteso in varie circostanze, la principale delle quali è
stato il whatever it takes di Mario
Draghi. Senza il quale, peraltro, l’euro sarebbe collassato nell’estate del
2012.
Ora, se i debiti
pubblici degli Stati non sono garantiti dalla potestà di emissione monetaria
degli Stati medesimi, o da una banca centrale a cui la potestà medesima viene
demandata, il rischio di una crisi dei debiti sovrani è sempre presente.
E non esiste un
livello di debito pubblico (rispetto al PIL) che dia certezza sul fatto che il
mercato non scommetterà contro la solvibilità dello Stato. Rapporti del 30 o
del 40% non hanno impedito alla Spagna o all’Irlanda di andare in crisi nel
2011, come non l’avevano impedito all’Argentina nel 2001.
Se il whatever it takes viene meno, in altri
termini, i debiti sovrani dell’Eurosistema assumono immediatamente un grado di
rischio completamente diverso, enormemente più elevato. E le probabilità che il
sistema salti in tempi rapidissimi, come stava saltando nel 2012, diventano (a
quel punto) estremamente significative.
Semplicemente, il
whatever it takes non può venire meno
se si vuole preservare l’euro.
L’impegno della
BCE tuttavia è stato assunto nello stesso periodo in cui si introduceva il
Fiscal Compact. L’assetto attuale dell’Eurosistema in pratica prevede un
impegno reciproco: garanzia dei debiti sovrani da parte della BCE purché gli Stati raggiungano, nei tempi
più rapidi possibili, il pareggio di bilancio “strutturale” (corretto per le
condizioni congiunturali) e riducano gradualmente (fino al 60% nel giro di
vent’anni) il rapporto debito pubblico / PIL.
La Moneta Fiscale non rientra nel debito pubblico da garantire non solo perché, sul piano
formale e legale, non è debito. Non vi rientra perché non serve nessuna garanzia
da parte della BCE. Lo Stato che emette la Moneta Fiscale si impegna ad
accettarla a riduzione di impegni finanziari nei suoi confronti (in primo
luogo, relativi al pagamento di tasse e imposte). Nessuno può forzare lo Stato
a disconoscere questo impegno. Non ci sono euro da procurarsi per rimborsare un
debito nel momento in cui scade.
Se uno Stato
emette Moneta Fiscale e la utilizza per attuare le sue azioni di politica
economica (azioni espansive nella misura necessaria a riassorbire gli attuali,
enormi livelli di sottoccupazione e sottoutilizzo delle risorse produttive) e nello stesso tempo blocca la crescita
del debito pubblico, vengono raggiunti i risultati che il Fiscal Compact si
proponeva di ottenere.
Per recuperare l’attuale
enorme output gap dell’economia
italiana, e riportare la situazione del mercato del lavoro ai livelli pre-crisi
(quelli del 2007) riassorbendo tutta la disoccupazione e la sottoccupazione che
si è creata nel frattempo, occorre immettere maggiore potere d’acquisto fino a
un massimo di circa 100 miliardi annui. La crescita, sulla base di ipotesi
molto prudenziali (moltiplicatore keynesiano pari a 1x più una ripresa del
rapporto investimenti privati / PIL pari a metà della flessione registrata
rispetto al 2007), genera maggior gettito che compensa gli sconti fiscali
ottenuti mediante la MF.
Ed eventuali
discrasie dovute a situazioni congiunturali sfavorevoli sono facilmente
gestibili, dato l’amplissimo rapporto tra entrate lorde del settore pubblico
(oggi pari a circa 800 miliardi) e sconti fiscali conseguiti annualmente dai
possessori di MF: esiste un ampio ventaglio di azioni attivabili.
Tutto questo è attuabile immediatamente, senza bisogno di chiedere alcun ulteriore impegno
o garanzia, né alla UE, né alla BCE, né a nessun altro. Basta che rimanga in
essere il whatever it takes nella
forma in cui già oggi è stato assunto (e in assenza della quale l’Eurosistema
comunque non sopravviverebbe).
giovedì 5 aprile 2018
Fiscal Money as a Solution to Italian Eurowoes
Biagio Bossone / Marco Cattaneo / Massimo Costa / Stefano Sylos Labini
The strong
performance of Eurosceptical parties such as M5S and Lega at the recent Italian
election has been ascribed to the country’s dismal economy.
This is indeed
the case. Italian GDP at constant prices in 2017 was € 100 billion below its 2007 level – a 5.5% decrease ! Meanwhile, export grew 7.8% -
not a stellar performance in ten years, but a clear sign that the main culprit
is lack of domestic demand. Had Italy’s GDP grown at the same rate as exports, today
it would be 14% (i.e., € 241 billion) higher.
This state of
affairs has caused Italy’s U-6 unemployment rate (which takes into account
discouraged and involuntarily part-time workers) to be approximately 30%. There
is no question that a huge output gap exists.
To be sure, the
Italian economy suffers from other problems, too. Productivity growth has been
miserable for the last 20 years. But, then again, this also is at least partly
a consequence of depressed demand. In 2017, capital expenditure in real terms
was 18.5% lower than in 2007. Low private sector demand, public budget
restraints, and low capacity utilization have all had long-lasting negative
effects on investments and productivity.
As fiscal rules
constrain Italy’s ability to reflate demand by issuing debt, and with monetary
policy being as accommodative as it gets, an alternative instrument is
required. Fiscal Money provides such instrument.
Our proposal is
for government to issue transferable and negotiable bonds, which bearers may
use for tax rebates two years after issuance. Such bonds would carry immediate
value, since they would incorporate sure claims to future fiscal savings, and
would be immediately exchangeable against euros or usable as payment
instruments (in parallel to the euro) to purchase goods and services.
Fiscal Money
would be allocated, free of charge, to supplement employees’ income, fund
public investments and social spending programs, and reduce enterprises’ tax
wedge on labour. These allocations would increase domestic demand and (by
mimicking an exchange rate devaluation) improve enterprise competitiveness. As
a result, the output gap would close without affecting the country’s external
balance.
Notice than
under IFRS, Fiscal Money bonds would not constitute debt, since the issuer
would be under no obligation to reimburse them in cash. Also, under Eurostat
rules they would be treated as non-payable deferred tax assets and would not be
recorded in the budget until used for tax rebates (that is two years after
issuance, when output and fiscal revenue have recovered).
Based on very
conservative assumptions (i.e., fiscal multiplier of 1 and a resumption in
private investments to recover half of the drop since 2007), GDP recovery would
generate additional tax revenues sufficient to offset the tax rebates.
Projections show that these would peak at around € 100 billion, which compares
to more than € 800 of Italy’s total fiscal revenue. Thus, the cover ratio (that
is, the ratio between government gross receipt and tax rebates coming due each
year) would be large enough to accomodate for possible shortfalls due to future
recessions.
Have we found
the “philosopher’s stone” ? Certainly not – in an economy with large resource
slack, the multiplier works its effects largely on output and moderately on
prices. And if external leakages are contained (which increased competitiveness
would do), the multiplier effects are the highest. Fiscal Money is about
mobilizing unutilized resources, accelerating investments and inducing banks to
resume lending.
By activating a
Fiscal Money program, Italy would solve its output gap problem without asking
anything to anybody. No European treaty revisions would be required. No
financial transfers would be needed. Public debt would stop growing and start
declining relative to GDP, thus attaining the Fiscal Compact goal. Public
finances would be sustainable as long as the ECB confirmed its “whatever it
takes” commitment – which it would have no reason to disavow with Italy’s debt
stabilized.
Even if Italy
were to lessen its fiscal discipline and decide to over-issue Fiscal Money,
only recipients would take the hit, as the value of the instrument would fall
while over-issuance would neither affect the euro nor create default risk on a
default-free instrument. In any case, the large cover ratio would make this
scenario totally unlikely. Besides, it is only fair to remember that Italy’s
inability to rein in net public spending is a false myth. Between 1998-2017,
Italy has been the only Eurozone country to achieve a primary surplus in each
single year (other than 2009). If anything, Italy has suffered from excessive
public budget restraint, which has led to its dramatic output decline.
A strong
recovery of the Italian economy (and possibly of other Southern Eurozone
countries, which could replicate the Fiscal Money framework) is an
indispensable precondition for Europe to cooperate effectively and
harmoniously. Fiscal Money is the appropriate tool to make this objective
achievable.
martedì 3 aprile 2018
Il governo di scopo non ha scopo
A quanto leggo, vari
commentatori danno a questo punto, come evoluzione politica più probabile a
breve termine, la formazione di un “governo di scopo” sostenuto da una maggioranza
centrodestra + M5S, e finalizzato a fare “poche cose” (tra cui una nuova legge
elettorale) per poi “tornare rapidamente alle urne” (in autunno 2018 ? o forse
in primavera 2019, in concomitanza con le elezioni europee ?).
Tutto è possibile,
ma è uno scenario di cui non vedo la logica.
Rifare per
l’ennesima volta la legge elettorale equivale ad avviare una nuova ricerca
della “pietra filosofale” che dovrebbe garantire la governabilità rispettando
peraltro i requisiti di costituzionalità. Requisiti che tra l’altro impediscono
di introdurre un premio di maggioranza molto ampio - punto sul quale sono
caduti sia il Porcellum che l’Italicum.
Ma date queste
premesse, le garanzie di governabilità non esistono con nessuna legge
elettorale, come si è già visto.
Gli scenari
sensati non sono il “governo di scopo”, ma altri due.
Il primo è tornare
al voto con grande rapidità, prima dell’estate, SENZA modificare la legge
elettorale o al massimo introducendo un modesto (e costituzionalmente
accettabile) premio di maggioranza – se c’è accordo per attuare questa
variazione in tempi molto veloci.
Oppure, se si
forma una maggioranza in grado di condividere un programma, avviare, sì, il
governo: ma che lavori senza porsi limitazioni di tempo, quindi con un
orizzonte di legislatura. Lasciamo perdere la legge elettorale e focalizziamoci
invece sulle azioni necessarie per far ripartire l’economia – che significa, in un modo o nell'altro, uscire dai vincoli dell’Eurosistema.
L’accordo su un
programma di questo tipo tra centrodestra e M5S è senz’altro possibile.
Serviranno alcune reciproche concessioni, come è normale in
qualsiasi accordo di coalizione. Ma il terreno comune sul quale impostare un
programma sensato esiste.
Non ha invece alcuna
logica perdere sei mesi o un anno per non fare (nella migliore delle ipotesi)
nulla di costruttivo.
Quindi, in
sintesi: se in alcune settimane l’accordo non si trova, torniamo a votare
subito. Entro l’estate.
Se si trova, sotto
a lavorare, senza perdere tempo. E senza porsi limiti di tempo, che non siano i
cinque anni pieni della legislatura.