martedì 24 luglio 2018

Flat Tax, anzi Dual Tax: mie perplessità


Naturalmente sono del tutto favorevole, anzi le ritengo totalmente indispensabili, a politiche espansive già in sede della prossima legge di bilancio, sia sotto forma di maggiori spese, che di minori tasse.

Ma sulla Flat Tax ho più di una perplessità.

Per prima cosa, non mi tornano i numeri. Per la verità, la Flat Tax inclusa del contratto di governo M5S – Lega non è flat, nel senso che non prevede un’unica aliquota IRPEF, ma due: il 15% fino a 80.000 euro di imponibile annuo, e il 20% oltre. In tal modo la si è resa leggermente più progressiva (come da richesta M5S). In effetti non è più una Flat Tax ma una Dual Tax.

Ciò premesso, cerchiamo di stimare gli effetti sul gettito IRPEF che potrebbero derivare dall’applicazione di queste aliquote. La stima ha inevitabilmente delle approssimazioni, perché l’idea è anche di semplificare l’attuale sistema di detrazioni, sostituendolo con uno basato sulle dimensioni del nucleo famigliare (e favorevole ai redditi bassi). E una determinazione precisa delle differenze tra vecchio e nuovo sistema di detrazioni richiede più dati di quanti il MEF (Ministero dell’Economia) ne metta pubblicamente a disposizione.

All’incirca, comunque, avremo una situazione dove l’aliquota effettiva partirà da zero, arriverà vicina al 15% (senza però raggiungerlo) per i redditi dello scaglione che tocca, appunto, gli 80.000 euro, e crescerà poi fino a portarsi vicino al 20% per i redditi più alti.

Analizzando i dati più recenti disponibili, forniti dal MEF e relativi all’anno fiscale 2016, si nota che lo scaglione 50.000 – 80.000 euro paga un’aliquota media del 27,9%, mentre il più alto (da 300.000 euro in su) del 39,5%.

Se dimezziamo esattamente l’aliquota media per tutti i livelli di reddito, si ottiene che lo scaglione 50.000 – 80.000 pagherebbe il 14%, e lo scaglione oltre 300.000, invece, il 19,7%. Che è appunto grosso modo quanto ci si aspetterebbe dall’applicazione della Dual Tax 15% - 20%, come spiegato sopra.

Una simulazione che preveda come effetto finale, sic et simpliciter, il dimezzamento delle aliquote medie appare quindi plausibile. E dà i seguenti risultati.


Segmenti di reddito

Reddito al netto cedolare secca


Imposta netta

Imposta

Ipotesi con dual tax

Minimo
Massimo
Numero
Totale mld
Media
Numero
Totale mld
Media
netta %
%
Gettito mld
Riduzione
meno di
€ 10.000
11.958.413
54,2
€ 4.536
3.984.595
1,4
€ 353
2,6%
1,3%
0,7
0,7
€ 10.000
€ 20.000
11.579.457
173,2
€ 14.958
10.353.220
17,7
€ 1.712
10,2%
5,1%
8,9
8,9
€ 20.000
€ 26.000
6.369.284
144,0
€ 22.612
6.255.854
21,8
€ 3.477
15,1%
7,6%
10,9
10,9
€ 26.000
€ 35.000
5.305.994
156,6
€ 29.508
5.263.915
29,1
€ 5.519
18,6%
9,3%
14,5
14,5
€ 35.000
€ 50.000
2.786.853
111,1
€ 39.853
2.774.575
25,7
€ 9.265
23,1%
11,6%
12,9
12,9
€ 50.000
€ 80.000
1.372.900
82,8
€ 60.305
1.368.742
23,1
€ 16.878
27,9%
14,0%
11,6
11,6
€ 80.000
€ 100.000
331.173
28,6
€ 86.296
330.439
8,8
€ 26.754
30,9%
15,5%
4,4
4,4
€ 100.000
€ 150.000
281.268
32,5
€ 115.651
280.658
10,7
€ 38.294
33,0%
16,5%
5,4
5,4
€ 150.000
€ 200.000
82.972
13,8
€ 166.071
82.811
4,9
€ 58.778
35,3%
17,7%
2,4
2,4
€ 200.000
€ 300.000
51.296
11,9
€ 232.574
51.202
4,4
€ 86.026
36,9%
18,5%
2,2
2,2
€ 300.000
oltre
35.718
21,4
€ 598.932
35.677
8,4
€ 236.709
39,5%
19,7%
4,2
4,2
TOTALE

40.155.328
830,1
€ 20.672
30.781.688
156,0
€ 5.069
18,8%
9,4%
78,0
78,0


A parità di condizioni, quindi, si avrebbe un minor gettito di 78 miliardi. Questo sarebbe l’impulso fiscale prodotto dalla Dual Tax, ovvero il maggior potere d’acquisto immesso nell’economia per produrre maggiore spesa, produzione e occupazione.

La cifra è molto alta rispetto alle ipotesi di impulso fiscale complessivo implicite nel contratto di governo M5S – Lega, che si aggirano sui 100 miliardi. Se 78 vanno in riduzioni IRPEF, rimane poco per tutte le altre cose di cui si è parlato (misure di contrasto alla povertà e al disagio sociale, minori tasse alle imprese, rilancio degli investimenti pubblici).

Altra mia perplessità è che il maggiore effetto espansivo sul PIL si ottiene per azioni di spesa e investimenti pubblici, di riduzione del cuneo fiscale a vantaggio delle imprese, e di sostegno ai redditi bassi. Ridurre le tasse alle fasce medio-alte e alte probabilmente si traduce in un beneficio modesto sulla spesa e sui consumi, perché si tratta di persone che non hanno dovuto, in questi anni di economia depressa, sacrificare un granché dei loro consumi.

Esaminando i dati, si nota che i redditi sotto i 20.000 euro (quelli, cioè, sotto la media nazionale) dei 78 miliardi di beneficio ne percepiscono solo 9,6. Il segmento 20.000 – 35.000 ottiene 25,4 miliardi. Altri 12,9 vanno al segmento 35.000 – 50.000, e 11,6 miliardi al 50.000 – 80.000.

I redditi oltre gli 80.000, quelli per cui scatta l’aliquota marginale del 20%, hanno un vantaggio di 18,6 miliardi, di cui 4,2 vanno alla fascia oltre i 300.000 euro. C’è da pensare che in questi ultimi casi la quota di impulso fiscale che si tradurrà in spesa e quindi in rilancio dell’economia sia modesta: molto inferiore alla propensione marginale al consumo stimata per l’intera economia nazionale (80%-90%).

Ci sono, comunque, quantomeno altri tre fattori da tenere in considerazione per farsi un’opinione sulla proposta Dual Tax.

In primo luogo, possono verificarsi fenomeni di emersione di redditi (alti) non dichiarati. Un certo numero di potenziali contribuenti mettono in atto azioni di elusione o evasione, a volte sicuramente illecite, altre di liceità incerta. Trasferimenti all’estero, creazioni di società di comodo, architetture societarie più o meno complesse.

L’idea è che queste azioni – che comportano costi (commercialisti e fiscalisti non lavorano gratis) e/o rischi (anche quando non è pura e semplice evasione fiscale, ci si muove comunque in aree grigie del diritto tributario) – in molti casi non verrebbero attuate se l’aliquota media da pagare, con dichiarazioni trasparenti e regolari in Italia, fosse inferiore al 20% invece che vicina al 40%.

Tutto questo è possibile, ma stimarne gli effetti è veramente un esercizio molto aleatorio. L’emersione di redditi oltre i 300.000 euro (il segmento in cui probabilmente ricadono quasi tutte queste potenziali situazioni) produrrà oltre 4 miliardi di maggiori imposte (compensando il minor gettito stimato per quel segmento, vedi la tabella sopra) ? Mi pare dubbio, e se anche accadesse saremmo ancora in pari. Avremmo recuperato quattro miliardi di gettito da evasione / elusione, a favore dei contribuenti (ad alto reddito) che erano regolari anche prima. Bene sul piano dell’equità, ma l’effetto macroeconomico in effetti è pressoché nullo.

Il secondo fattore da valutare è che almeno in parte il beneficio delle maggiori imposte verrebbe in effetti traslato dal lavoratore dipendente al datore del lavoro, migliorando la competitività aziendale. Ad esempio, un manager di alto livello con una retribuzione lorda di 500.000 euro ne percepisce 300.000 netti se l’aliquota media è il 40%. Se l’abbassiamo al 20%, l’azienda può assumerne uno che percepisce gli stessi 300.000, ma con un lordo di 375.000 (20% di 375.000 è 75.000 euro). Il netto è lo stesso di prima ma calano i costi aziendali, con vantaggi riguardo a competitività verso l’estero e saldi commerciali.

Anche questo è un fenomeno che in qualche misura si verificherà, ma è difficile da stimare. In ogni caso, io sono fortemente a favore dei provvedimenti che migliorano la competitività aziendale senza penalizzare (anzi) il reddito netto dei dipendenti (è sempre stato uno dei punti chiave del progetto CCF, infatti) ma mi lascia perplesso arrivarci per questa via indiretta, invece di abbassare direttamente il cuneo fiscale.

Infine, c’è la proposta di “pace fiscale”, che è inclusa nello schema di Flat Tax formulato da Armando Siri (senatore della Lega). Siri ammette che ci sarà un forte impatto iniziale sul gettito e che i benefici su domanda e produzione hanno bisogno di un po’ di tempo in più per concretizzarsi in pieno. L’idea quindi è di introdurre un provvedimento che (tra le altre cose) tamponerebbe questa discrasia iniziale.

La “pace fiscale” consisterebbe nel proporre, ai contribuenti che hanno una pendenza verso il fisco che non contestano, ma che non è stata saldata semplicemente per mancanza di mezzi finanziari, di azzerarla pagando una frazione del dovuto.

L’ammontare di queste pendenze, cumulato nell’arco di molti anni (oltre dieci) è una cifra enorme, dell’ordine di 1.000 miliardi. Se tutti questi soggetti accettassero la proposta, pagando un’aliquota per esempio del 5%, il gettito sarebbe di svariate decine di miliardi e compenserebbe gli effetti della Flat / Dual Tax nell’anno d’introduzione (effetti intesi come minori imposte pagate e non ancora pienamente compensati dal recupero dell’economia).

La proposta non mi dispiace in sé, anche perché sana tantissimi strascichi amministrativi e riduce il carico di lavoro futuro per gli uffici pubblici. Ma temo che pensare a incassi di decine di miliardi sia molto fantasioso. I 1.000 miliardi nascono da stratificazioni di fenomeni da ricondurre spesso a società liquidate da anni, a persone che magari non sono più neanche in vita, che non hanno comunque intenzione o possibilità di riprendere attività lavorative o imprenditoriali, che non hanno i mezzi per pagare nemmeno il 5% e che l’amministrazione finanziaria non è, in ogni caso, in grado di perseguire (e infatti non lo sta facendo).

La “pace fiscale” magari è una buona idea, ma sarei molto stupito se generasse decine di miliardi di incassi. Probabilmente “qualche” miliardo (2, 3, forse 5) è una stima molto più attendibile.

Conclusione. Sono altamente favorevole a una decisa azione di impulso fiscale sull’economia italiana, ma le linee di attuazione che preferisco sono altre: rilancio degli investimenti pubblici e anche della spesa corrente in settori come sanità, ordine pubblico, istruzione, protezione del territorio; riduzione del cuneo fiscale; sostegno ai redditi delle classi disagiate.

La Flat Tax, o Dual che sia, io nel contratto di governo non l’avrei messa. Siccome c’è – e la Lega ci tiene moltissimo – penso che verrà applicata. Ma su numeri molto ridimensionati, e con meccanismi che la renderanno ancora meno flat. Per esempio con una doppia aliquota molto più divaricata (non 15 – 20% ma per esempio 13% - 30%), o con una terza aliquota per i redditi più elevati.


venerdì 20 luglio 2018

The diagnosis of Italy's disease

Perché la crisi economica italiana nasce dalla domanda e non dall'offerta e come, di conseguenza, agire. Un articolo di Biagio Bossone / Marco Cattaneo / Massimo Costa / Stefano Sylos Labini.

mercoledì 18 luglio 2018

Debito pubblico e movimenti di capitali


Ho spiegato in più di un'occasione come la natura del cosiddetto “debito pubblico” sia spesso e volentieri fraintesa. Se uno Stato emette la propria moneta e immette potere d’acquisto nell’economia mediante un eccesso di spesa rispetto alle tasse prelevate, questo eccesso si trasforma, per definizione, in risparmio del settore privato.

E se l’economia nazionale ha saldi commerciali esteri in equilibrio, i privati che accumulano questo risparmio sono residenti del paese, non stranieri.

Chi accumula risparmio ha interesse a disporre di un servizio di gestione del risparmio stesso, a rischio sostanzialmente nullo (anche se, di conseguenza, con rendimenti tendenzialmente bassi).

Il cosiddetto “debito pubblico” è un eccellente strumento per svolgere questa funzione. Il risparmiatore sa che potrà impiegare il proprio risparmio in titoli di Stato, che a tutti gli effetti pratici sono depositi presso il ministero dell’Economia.

E dato che non ha esigenze speculative ma solo di tutela e sicurezza del suo risparmio, il rendimento di questi “titoli” / depositi potrà essere sostanzialmente pari a zero (al netto dell’inflazione) per scadenze molto brevi, e solo leggermente più alto per scadenze a 3, 5, 10 anni.

Per uno Stato che si trova in situazione di normalità (NON nell’anomalia dell’Eurozona, che consiste nell’aver rinunciato ad emettere moneta) il cosiddetto “debito pubblico” (espresso in moneta nazionale) è quindi un servizio di tesoreria offerto ai propri cittadini; non certo un “onere” o un “macigno” o uno spauracchio che debba essere agitato per giustificare politiche economiche restrittive in periodi di debolezza congiunturale.

Di fronte a questa rappresentazione, sento spesso obiettare che in ogni caso il vincolo esterno esiste anche per Stati che emettono debito pubblico espresso nella propria moneta. In condizioni di libera circolazione dei capitali, se altri paesi offrono (per un qualsiasi motivo) rendimenti reali notevolmente più alti, può verificarsi un notevole deflusso di risparmio verso di essi.

Tutto questo è possibile. Va però anche ricordato che il risparmiatore (per esempio) italiano è interessato a un rendimento nella sua moneta. Se i titoli di Stato in lire (ovviamente, nel caso in cui ci fosse di nuovo la lira…) rendessero l’1% al netto dell’inflazione e quelli USA il 3%, l’incentivo a spostare risparmio sarebbe comunque fortemente calmierato dal fatto che il risparmiatore tipico non è attrezzato, e neanche interessato, ad assumersi un rischio di oscillazione del cambio.

Con due punti di differenza nel rendimento reale, fenomeni di deflusso sicuramente avverrebbero. Ma questo produrrebbe un ribasso nel cambio lira – dollaro e avrebbe un effetto espansivo sulla domanda netta di beni e servizi italiani. Il che è di per sé un fattore di riequilibrio, perché genera flussi commerciali attivi (per l’Italia) a compensazione dei flussi finanziari passivi.

Anche in assenza di limitazioni ai movimenti di capitali, in altri termini, il fatto che uno Stato emetta moneta propria e non si indebiti in moneta estera è una barriera molto efficace agli scompensi prodotti dai flussi finanziari internazionali.

Proprio la sua natura di servizio di tesoreria messo a disposizione dei propri cittadini e dei propri residenti rende il cosiddetto debito pubblico (espresso in moneta nazionale) un eccellente strumento di tutela del risparmio destinato a impieghi futuri per spese (e anche per pagamenti di tasse) da effettuarsi all’interno del paese.

L’incentivo a spostare risparmio alla ricerca di rendimenti reali più alti è fortemente limitato dal rischio valutario. E’ normale, in questa situazione, che il cosiddetto debito pubblico sia alimentato, in misura nettamente preponderante, da risparmio interno: risparmio tendenzialmente stabile e (giustamente) ben poco “avventuroso”.

In questo scenario, le variabili da tenere sotto controllo sono principalmente l’inflazione, i saldi commerciali esteri e l’indebitamento in valuta estera. I problemi nascono:

se il “deficit” pubblico (cioè l’eccesso di spesa dello Stato rispetto alle tasse prelevate) spinge la domanda al di sopra delle capacità produttiva dell’economia, generando quindi un eccesso di inflazione; oppure

se i saldi commerciali esteri del paese sono tendenzialmente negativi (nel qual caso il risparmio privato prodotto dai “deficit” pubblici si forma a beneficio di soggetti esteri, non di soggetti nazionali) e

se per finanziare questi saldi commerciali esteri negativi il paese si indebita in moneta straniera (nel senso di moneta che non ha facoltà di emettere).

La flessibilità dei cambi è uno strumento di grande utilità per evitare o contenere questi ultimi due problemi, sia perché tende a far sì che i saldi commerciali esteri svolgano una funzione di riequilibrio, sia perché disincentiva (anche quando la legge non li vieta o comunque non li limita) i flussi di capitali esteri speculativi.


lunedì 16 luglio 2018

A che cosa puntano Tria e Savona


Come intende muoversi il governo italiano nei confronti della UE, in vista dell’importantissima legge di bilancio 2019, che sarà presentata tra settembre e ottobre ?

Leggendo le dichiarazioni di (in particolare) Giovanni Tria e Paolo Savona, emerge con chiarezza quanto segue.

Il contratto di governo M5S – Lega prevede un impulso fiscale espansivo (potere d’acquisto immesso nell’economia sotto forma di maggiori spese, maggiori trasferimenti, maggiori investimenti, minori tasse) di un ordine di grandezza pari a circa 100 miliardi.

L’idea è di realizzarlo frazionando gli interventi su un arco di tempo pluriennale – per esempio, tre anni.

E la priorità verrà data alla ripartenza degli investimenti pubblici, che sono tra l’altro una delle forme di impulso fiscale a più alto moltiplicatore (quindi con il maggiore effetto espansivo sul PIL).

Tutto funziona se ci si accorda con la UE in merito allo scorporo degli investimenti pubblici dal calcolo del deficit.

Via via che gli investimenti daranno impulso alla crescita e di conseguenza al gettito fiscale, si creeranno gli spazi necessari per avviare e incrementare altre azioni – reddito di cittadinanza, riduzioni di tasse eccetera.

E se la UE non ci sta ? Bisogna fare altro


venerdì 13 luglio 2018

Sugli aspetti giuridici dell’euro-breakup


Un mio corrispondente mi ha inviato una serie di considerazioni su temi di natura principalmente giuridica, che dovrebbero essere affrontati per attuare l’uscita dell’Italia dall’euro mediante break-up.

Mi sembra interessante rifletterci e commentarli, fermo restando che non sono un giurista (per lavoro traffico parecchio con normative e contratti, ma questo fa di me al massimo un praticone, non un esperto della materia).

I miei commenti cercano di dare indicazioni in merito a come le varie complicazioni potrebbero essere superate.

UNO: Per mettere in atto un referendum sull’uscita o sulla permanenza dell’Italia nell’euro occorre, preventivamente, una legge di indirizzo costituzionale (come nel 1989) e in Parlamento non c’è la maggioranza necessaria.

COMMENTO UNO: Non ho mai capito se e perché quella legge costituzionale fosse realmente necessaria. Che cosa impediva di tenere un referendum di natura strettamente consultiva, di cui la maggioranza parlamentare si impegnava politicamente a rispettare i risultati (modello referendum Brexit, per intenderci) ? La legge costituzionale fu fatta perché esisteva un ampio consenso sia tra le forze politiche che tra la popolazione. Non si rischiava un no, in altri termini. Con maggioranze incerte a mio modesto avviso si sarebbe proceduto diversamente.

DUE: Se anche non si fosse fatto quel referendum, saremmo comunque entrati nell’orbita UE / euro intesa come meccanismo sovranazionale.

COMMENTO DUE: Con ogni probabilità è vero, ma appunto perché esisteva un’ampia maggioranza parlamentare. Vedi sopra.

TRE: Se la legge costituzionale non ottenesse i due terzi del voto parlamentare, potrebbe essere richiesto un referendum confermativo – un totale quindi di due referendum !

COMMENTO TRE: Vero, ma mi pare un’ulteriore ragione per evitare la via del referendum.

QUATTRO: Anche se il referendum desse esito positivo (per il break-up), l’effetto non sarebbe immediato.

COMMENTO QUATTRO: Questo ha a che vedere con le difficoltà operative, più che con quelle legali, di mettere in atto il break-up.

CINQUE: L’ufficio centrale del referendum può sollevare alla Corte Costituzionale la questione di legittimità per contrasto all’articolo 75 della Costituzione: in pratica anche una legge costituzionale può essere giudicata incostituzionale (!).

COMMENTO CINQUE: Anche questo è un problema (se lo è) che tocca solo lo scenario “referendum con valenza vincolante di indirizzo”.

SEI: Il risultato di un referendum non vale sempre: a partire dalla legislatura successiva, se nel frattempo il quadro politico è mutato, non esiste alcun obbligo di rispettare la volontà popolare.

COMMENTO SEI: A me pare che questo valga solo nel caso che ipotizzavo nel COMMENTO UNO – referendum puramente consultivo con impegno politico del governo in carica e della maggioranza parlamentare che lo supporta.

SETTE: Si può chiedere di modificare l’articolo 48 del Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) in modo di negoziare l’uscita dalla sola zona euro.

COMMENTO SETTE: Sicuramente, ma mi sembra una strada impervia quanto il referendum.

OTTO: Teoricamente si può uscire dalla sola zona euro azionando l’articolo 139 e 140 TFUE.

COMMENTO OTTO: Cioè facendo notare che i criteri d’ingresso in realtà non erano rispettati allora, né adesso ? ma quegli articoli non disciplinano l’uscita, né affermano che il venire meno dei criteri sia una causale per l’exit.

NOVE: Azionare l’articolo 62 della Convenzione di Vienna, ma bisogna dimostrare il mutamento delle circostanze rispetto al momento dell’adesione ai trattati.

COMMENTO NOVE: Qui ci sarebbero senz’altro degli spazi. E’ oggettivo che le circostanze siano profondamente mutate. Prevedere i risultati di un’azione di questo genere è però, evidentemente, molto difficile.

DIECI: Il decreto legge, se venisse utilizzato come via per l’Italexit, non comporterebbe la modifica dei vincoli di bilancio.

COMMENTO DIECI: Ma il medesimo decreto legge potrebbe dichiararli decaduti, e alla UE / BCE verrebbe comunque a mancare lo strumento di enforcement per farli rispettare.

UNDICI: L’articolo 81 della Costituzione si pone in contrasto con un decreto legge che volesse sfruttare il sistema della lex monetae, perché verosimilmente le parti contrattuali svantaggiate dal decreto per effetto ad esempio della svalutazione dovrebbero essere aiutate con spesa dello Stato, senza contare quanti ricorsi ne potrebbero derivare.

COMMENTO UNDICI: Non lo vedo come un punto insuperabile perché l’articolo 81 parla di “equilibrio… tenuto conto delle fasi favorevoli e delle fasi avverse del ciclo economico” che non è in realtà la stessa cosa del saldo “zero aritmetico” (che infatti non è mai stato raggiunto). I ricorsi sono un altro tema (uno dei più complessi, vedi seguito).

DODICI: La costituzionalizzazione del principio di sovranità monetaria potrebbe risultare incostituzionale alla luce degli articoli 10, 11 e 117 della Costituzione.

COMMENTO DODICI: Veramente sono in molti a ritenere che siano casomai i trattati UE a violare l’articolo 11… comunque il punto chiave è chi saranno i componenti della Corte che verrà (eventualmente) chiamata a esprimersi.

TREDICI: Anche uscendo dall’euro, ci ritroveremmo a fare i conti con il pareggio di bilancio ex art. 81 Costituzione.

COMMENTO TREDICI: Che, vedi sopra, parla però di “equilibrio”, non di pareggio. E non vedo un’Italexit aver luogo senza che venga attuata anche una modifica dell’art. 81, peraltro.

QUATTORDICI: A mio avviso, per uscire serve una legge costituzionale, tendendo presente che da quel momento non è che possiamo fare ciò che vogliamo, ma dobbiamo comunque rispettare gli altri vincoli economici UE.

COMMENTO QUATTORDICI: Su quest’ultimo punto, vedi il COMMENTO DIECI. Sul primo, il decreto legge di exit è operativo: casomai il rischio è quello di un ricorso presso la Corte Costituzionale – ma “rotto l’uovo non lo rimetti insieme”: la Corte può anche pronunciarsi in favore del ricorso, ma non può (in pratica) annullare gli effetti del break-up che già si sarebbero a quel punto prodotti, e da parecchio tempo.

QUINDICI: Una legge costituzionale servirebbe anche per uscire dalla UE, pur avendo in questo caso (a differenza dell’uscita dall’euro) un appiglio giuridico ex articolo 50 del TFUE.

COMMENTO QUINDICI: Al contrario - se invece si agisse con legislazione ordinaria, in questo caso non vedo neanche il presupposto di un eventuale ricorso: si sta semplicemente attuando una possibilità esplicitamente prevista dal TFUE.

SEDICI: Serve un ministero ad hoc per curare le trattative con la UE.

COMMENTO SEDICI: Può essere, ma non mi sembra un problema.

DICIASSETTE: Serve una commissione parlamentare per curare gli atti che sono entrati a far parte del nostro ordinamento, per decidere quali far cessare e in che modo.

COMMENTO DICIASSETTE: Idem.

***

La prima considerazione che mi nasce dall’aver riflettuto su questi temi, in ogni modo, è che le difficoltà strettamente giuridiche del break-up non sono insormontabili, ma introducono un ulteriore, significativo, livello di difficoltà in un processo già di per sé complicato.

E a renderlo complicato sono, principalmente, due fattori.

In primo luogo, le reazioni dei mercati finanziari in una fase interinale di incertezza, in cui sussiste il dubbio – ma non è sicuro – che il break-up verrà posto in atto.

In secondo luogo, le complicazioni legate alla ridenominazione di crediti e debiti (da euro a Nuova Lira) e i contenziosi che ne potranno nascere.

E non sto neanche prendendo in considerazione i riflessi politici che ne deriverebbero.

Tutto questo non fa che confermare quanto affermo fin dall’inizio della mia attività di sviluppo e di promozione del progetto Moneta Fiscale / CCF.

Il progetto MF / CCF è in grado di risolvere le disfunzioni dell’Eurosistema, e nello stesso tempo non viola nessun trattato né nessun regolamento, e non richiede nessuna autorizzazione.

Il progetto MF / CCF va attuato con la massima determinazione, affermando nello stesso tempo, con la massima chiarezza, che:

UNO, non è l’avvio di un processo finalizzato al break-up, ma costituisce un assetto permanente e stabile per quanto attiene alla partecipazione dell’Italia all’Eurozona.

DUE, consentirà all’economia italiana una rapida e vigorosa ripresa, bloccando nello stesso tempo, una volta per tutte, qualsiasi incremento del Maastricht Debt, cioè del debito pubblico così come definito dai trattati e dai regolamenti che governano il funzionamento dell’Eurozona.