La Federal Reserve ha recentemente annunciato che da qui in poi interpreterà in modo “simmetrico” l’obiettivo d’inflazione. Significa che non punterà a raggiungere il 2% in ogni singolo anno, ma utilizzerà quel livello come obbiettivo per una media di più anni (quanti esattamente non è stato precisato).
In pratica, se ci sono stati anni con inflazione sotto il 2%, per esempio all’1%, ce ne potranno essere in seguito altri dove la Fed sarà “soddisfatta” di un’inflazione al 3% (detto altrimenti, non interverrà per ridurla).
Come sempre, la BCE dà segnali di muoversi con ritardo e lentezza, tendendo però ad allinearsi (si vedrà quanti anni dopo) con la posizione della Fed.
Il dibattito è interessante, ma anche alquanto surreale.
Parte infatti dal presupposto che le banche centrali siano in grado di manovrare l’inflazione al rialzo o al ribasso.
Questo era vero in passato, quando il livello dei tassi d’interesse era significativamente superiore a zero. Con i tassi al 3%, al 5%, al 7%, la banca centrale può spingere la domanda di beni e servizi reali riducendo il costo del denaro, o viceversa alzandolo.
Abbassare i tassi rende più convenienti credito al consumo, mutui, finanziamenti per investimenti industriali, e questo ha un impatto sull’economia reale.
Ma il mondo occidentale è caduto, a partire dalla crisi finanziaria mondiale del 2008, in una situazione di “trappola della liquidità”. La domanda di beni e servizi reali è caduta molto al disotto dell’offerta, l’inflazione è precipitata verso lo zero, e anche tassi d’interesse bassissimi o addirittura negativi non esercitano pressoché alcun impatto sull’economia.
Per questo il dibattito sull’obiettivo “simmetrico” d’inflazione è surreale. Nel contesto odierno le banche centrali NON governano l’inflazione. Prova ne è che l’obiettivo di “inflazione inferiore ma vicina al 2%” viene mancato dalla BCE ormai da otto anni consecutivi.
Nell’Eurozona, in particolare, riportare l’inflazione media al 2% implica un forte coordinamento tra politiche fiscali e politiche monetarie.
Tecnicamente la soluzione è molto semplice, addirittura banale.
In primo luogo la BCE deve, una volta per tutte, garantire esplicitamente i debiti pubblici dei vari paesi, sotto una condizione.
Quale condizione ? non l’esecuzione di “riforme strutturali” prescritte dalla UE, non determinati livelli di rapporto deficit pubblico / PIL o debito pubblico / PIL. Vanno buttati a mare il patto di stabilità e il Fiscal Compact.
L’unica condizione deve essere che i singoli paesi non spingano la loro azione di immissione di potere d’acquisto nell’economia, mediante la leva fiscale, al punto di aumentare l’inflazione in modo permanente (non per un anno o due) sopra il 2%.
Lo spazio di espansione fiscale non inflazionistica è enorme. Ed è quindi possibile innalzare fortemente il livello del PIL e dell’occupazione, nonché trasformare finalmente l’Eurozona in un’area economica che cresce e migliora le condizioni dei suoi cittadini, in misura omogenea in tutti gli Stati membri. La situazione di PRIMA dell’euro, in altri termini.
Tecnicamente è semplicissimo.
Politicamente
no. Che è la ragione per cui da anni propongo il progetto CCF. Una via
alternativa per raggiungere il medesimo (indispensabile) risultato.
Quel livello di inflazione al 2% non può essere fisso, in presenza di shock asimmetrici esterni importanti (una nuova crisi petrolifera, ad esempio...), si deve poter elevare quanto basta per assorbire tale shock, esattamente come successe negli anni Settanta.
RispondiEliminaDi questo infatti la Fed ha preso atto. Ma il punto è che la politica monetaria non è in grado di ottenere un livello più elevato, nelle condizioni attuali.
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