Il concetto di
Moneta Fiscale
Si definisce Moneta
Fiscale qualsiasi titolo o attività che possa essere utilizzato dal detentore
per compensare obbligazioni finanziarie (di natura fiscale o di qualsiasi altro
genere) dovute al settore pubblico. È in altri termini un titolo che dà diritto
a uno sconto fiscale, e può essere scambiato ricevendo beni, servizi o un
corrispettivo finanziario da soggetti che lo accettino su base volontaria. Il
settore pubblico nazionale si impegna da parte sua ad accettarlo in
compensazione (come sopra definita) ma non, in nessun modo, ad effettuare
pagamenti in cash.
Deficit e debito
pubblico non impoveriscono l’economia nazionale
Per comprendere
la logica del progetto Moneta Fiscale è necessario sgombrare il campo da alcune
affermazioni insensate che purtroppo ancora orientano (anche se per fortuna meno
che in passato) il dibattito economico, nel nostro paese e altrove.
In particolare,
si sente tuttora dire che il deficit e il debito del settore pubblico
costituiscono gravami per l’economia di un paese.
L’affermazione è
sbagliata, e la ragione fondamentale è che il deficit del settore pubblico è l’eccesso
della spesa del settore pubblico medesimo, rispetto al prelievo fiscale. Questo
eccesso di spesa, per evidenti ragioni contabili, si tramuta in un saldo
positivo a disposizione del settore privato. Se il pubblico spende più di
quanto tassa, il privato riceve più di quanto paga: incrementa, quindi, i suoi
redditi e i suoi risparmi.
Il deficit
pubblico PUO’ rappresentare un problema ma SOLO in presenza di una di queste
due situazioni: l’immissione di potere d’acquisto nell’economia crea (a) livelli
di inflazione indesiderata, OPPURE (b) scompensi nei saldi commerciali esteri
(il potere d’acquisto immesso dal settore pubblico defluisce verso l’estero).
L’Italia NON
soffre oggi di nessuna di queste due situazioni: l’inflazione è da una decina
d’anni inferiore alle medie dell’Eurozona; la NIIP (Net International
Investment Position) è positiva; i saldi commerciali con l’estero sono, dal
2014 in poi, positivi per importi annui di 40-60 miliardi, tendenti a crescere.
In tutti questi
anni, in altri termini, maggiori deficit pubblici avrebbero generato un
ARRICCHIMENTO per il paese, senza controindicazioni. Avrebbero messo a
disposizione del settore privato nazionale capacità di spesa, senza innalzare
l’inflazione a livelli indesiderati (anzi, casomai l’avrebbero avvicinata ai
target BCE), e senza creare scompensi nei conti con l’estero.
Quanto al debito
pubblico, un paese che emette la sua moneta non ha bisogno di emettere debito
per finanziare la spesa del suo settore pubblico. Spende, semplicemente,
accreditando le controparti tramite i suoi conti correnti presso l’istituto di
emissione.
In questo modo,
come visto, immette risparmio finanziario nell’economia. L’emissione di debito
pubblico è un servizio offerto al settore privato per impiegare, in un
investimento a basso rendimento ma sostanzialmente privo di rischio, il
risparmio stesso. Non ha però una necessità logica; è un evento successivo, che
potrebbe anche non aver luogo.
La gravissima
disfunzione dell’euro consiste proprio nell’aver spossessato gli Stati membri
dalla possibilità di effettuare spesa pubblica netta senza passare tramite il
collocamento di debito presso i mercati finanziari; e di averli costretti ad
emettere debito in una moneta di cui nessuno Stato ha il controllo.
Gli Stati sono quindi
costretti a utilizzare, come canale pressoché esclusivo di finanziamento dei
deficit, un debito che incorpora un rischio di default che in circostanze
normali (emissione di moneta sovrana) non sarebbe esistito.
Si tratta di una
disfunzione pesantissima perché impedisce, in varie circostanze, agli Stati di
effettuare politiche economiche anticicliche. Ne segue il rischio – già
concretizzatosi in passato – di aggravare in modo disastroso situazioni di
difficoltà economica che adeguate politiche anticicliche avrebbero consentito
di superare rapidamente.
Insufficienza
del PNRR
L’Unione Europa
ha modificato la sua attitudine nei confronti della gestione della finanza
pubblica degli Stati membri, perlomeno rispetto a quanto avvenuto durante la
crisi dei debiti sovrani e in particolare tra il 2011 e il 2013.
Allora, si
chiedeva agli Stati in difficoltà di attuare contemporaneamente riforme
economiche e di ridurre i deficit pubblici.
Le politiche di
austerità (“consolidamento fiscale”) hanno invece pesantemente aggravato la
crisi, provocando cadute di PIL e accrescendo, in luogo di diminuire, il
rapporto tra debito pubblico e PIL medesimo.
Almeno
implicitamente, la UE ha riconosciuto l’infondatezza delle politiche prescritte
in passato. Il Piano Nazionale di Resilienza e Ripresa (PNRR), precondizione
per l’accesso ai fondi del NextGenerationEU (NGEU), non prescrive riforme “e”
austerità”, ma riforme “insieme a” politiche espansive.
Il problema è
che la dimensione del NGEU, definita da molta stampa come “immensa”, “ciclopica”,
“oceanica” e via iperboleggiando, è in realtà insufficiente.
L’ultima
versione del Documento di Economia e Finanza (DEF) predisposto dal Ministero
dell’Economia e delle Finanze (MEF) nell’aprile 2021, prevede che il deficit
pubblico italiano (“quadro programmatico”) si evolva come segue.
2021 2022 2023 2024
11,8% 5,9% 4,3% 3,4%
È quindi prevista
una violenta contrazione, soprattutto nel 2022, che potrebbe facilmente
risultare incompatibile con un’adeguata e permanente ripresa dell’economia del
paese.
Un’adeguata
ripresa richiede, per inciso, non solo di compensare pienamente il calo (-8,9%)
del PIL reale registrato nel 2020 per effetto del Covid, ma anche di porre
l’Italia su un sentiero di deciso recupero rispetto alle medie UE / Eurozona,
rispetto alle quali siamo stati pesantemente deficitari dall’introduzione
dell’euro in poi.
Questo percorso
dovrebbe ricevere un impulso dal PNRR. I mezzi finanziari messi a disposizione all’Italia
vengono stimati in circa 200 miliardi. Di questi, tuttavia, 120 sono
finanziamenti: non rappresentano quindi soldi in più immessi nell’economia, ma
solo una fonte di approvvigionamento alternativa rispetto all’emissione di
titoli di Stato. Forse a minor costo, ma la differenza non potrà essere
rilevante, dato che attualmente l’Italia emette BTP decennali con rendimento
intorno allo 0,6-0,7%.
Non stupisce, in
effetti, che molti paesi UE abbiano deciso di non utilizzare la quota di
finanziamenti del NGEU.
Gli altri 80
miliardi, cosiddetti “grants” o “contributi a fondo perduto”, a fondo perduto
in realtà non sono, in quanto dovranno essere compensati da futuri versamenti o
tasse. Almeno temporaneamente, SE verrà confermato che non verranno
contabilizzati come maggior deficit al momento dell’erogazione, danno comunque
un beneficio: ma insufficiente, tenuto conto che verranno posti a disposizione
nell’arco di 4-5 anni.
La Moneta Fiscale
risolve le disfunzioni dell’eurosistema
Il presidente
del consiglio Mario Draghi appare consapevole dell’insufficienza del PNRR. In
più occasioni, ha infatti affermato che il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) non
potrà essere riattivato in forma invariata rispetto all’assetto attuale
(temporaneamente sospeso, fino a fine 2022, a causa dell’emergenza Covid).
Il problema è
che le posizioni degli Stati membri dell’Eurozona sono sostanzialmente
antitetiche. I paesi mediterranei vogliono un PSC più flessibile ed espansivo;
i paesi del Nord chiedono che sia ripristinato in termini invariati, se non più
rigidi e restrittivi.
I paesi del Nord
temono che un eccesso di debito pubblico di altri Stati membri possa dar luogo
a eventi di default o alla spaccatura della moneta unica. Non accettano però un'illimitata e incondizionata garanzia da fornirsi da parte della BCE, che
richiederebbe una riscrittura dei trattati per la quale non appare
raggiungibile il necessario consenso, neanche in tempi lunghissimi.
Il compromesso
politicamente perseguibile tra le due posizioni consiste nel mantenere
l’impegno alla riduzione del rapporto debito pubblico / PIL degli Stati membri,
precisando però che il debito pubblico di riferimento non comprende la Moneta
Fiscale.
La Moneta
Fiscale potrà quindi essere utilizzata per attuare le politiche espansive
necessarie al raggiungimento e al mantenimento del pieno impiego delle risorse
produttive del paese.
La Moneta
Fiscale non comporta impegni di pagamento da parte dello Stato emittente, che
quindi non potrà mai essere forzato da situazioni di mercato finanziario a
disconoscere l’impegno di accettazione (per compensare obblighi finanziari
verso lo Stato emittente stesso).
Neanche un
eventuale fenomeno di “indisciplina”, di eccesso di emissione di Moneta
Fiscale, da parte di uno Stato lo porterà a essere forzato al default. Al
massimo depaupererà il valore della Moneta Fiscale di quello Stato, perché
circoleranno più titoli di quanti se ne riesca in pratica a utilizzare nelle
scadenze prestabilite. Ma questa eventualità (peraltro estremamente
improbabile) non avrà un riflesso sull’assetto generale dell’eurosistema né
forzerà la BCE o gli altri Stati membri a dover intervenire per preservarne la
stabilità. Resterà un problema interno allo Stato in questione.
Spazio sia per
maggior spesa che per minor carico fiscale
La Moneta
Fiscale potrà essere utilizzata sia per finanziare interventi di spesa pubblica
(pubblico impiego, spesa sociale, investimenti, sostegno ai redditi) che per
ridurre il carico fiscale effettivo (senza necessariamente ridurre tasse o
imposte, ma compensando, in parte, il contribuente mediante erogazione di
Moneta Fiscale).
Sul tema della
tassazione, in particolare, va notato che in questo momento si sta discutendo
di una riforma del sistema fiscale. Il problema è che, a quanto si legge, la
riforma dovrebbe essere attuata lasciando invariato (o quasi) il gettito
complessivo.
L’Italia ha
bisogno, certamente, di una riforma fiscale, ma finalizzata a lasciare più
potere d’acquisto in mano al settore privato dell’economia. Una riforma “a
saldo zero” significa che qualcuno sarà contento e qualcuno scontento, ma
l’impatto macroeconomico sarà vicino all’irrilevante. Saldo zero significa
impatto zero. Molte parole, molto lavoro per fiscalisti e commercialisti, ma
nulla che faccia una differenza apprezzabile sul raggiungimento degli obiettivi
economici del paese.
Recupero del
pieno impiego in condizione di equilibrio dei saldi esteri
Una parte delle
erogazioni di Moneta Fiscale potrà essere effettuata a beneficio dei datori di
lavoro, riducendo il peso effettivo del cuneo fiscale. Le produzioni italiane
diventeranno immediatamente più competitive, evitando che una parte
dell’effetto espansivo del progetto Moneta Fiscale si disperda in peggioramento
dei saldi esteri.
Il progetto
Moneta Fiscale mette in effetti a disposizione del governo due leve: l’espansione
della domanda interna da un lato; il recupero di competitività (via riduzione
del cuneo fiscale, appunto) dall’altro.
Le due leve
possono essere regolate nel tempo, assicurando il mantenimento del pieno
impiego unitamente all’equilibrio degli impatti sulla bilancia commerciale.
Non si chiedono
garanzie né a BCE né a nessuno, mentre il peso del “defaultable debt”
diminuisce
Non occorre che
BCE, UE o Stati membri forniscano garanzie addizionali. Sarà sufficiente la
presa d’atto che si sono create le condizioni per ridurre, gradualmente ma
costantemente nel tempo, il peso del debito a rischio di default, rispetto a un
PIL nominale e reale finalmente in stabile crescita.
La semplice
constatazione che le disfunzioni del sistema sono state finalmente risolte è
adeguata per rassicurare i detentori del debito pubblico che il sistema è
diventato, finalmente e permanentemente, stabile e affidabile.
Non serve una
perfetta equivalenza tra maggior gettito lordo e sconti fiscali utilizzati
Il progetto
Moneta Fiscale è stato criticato da alcuni commentatori in quanto, si afferma,
non c’è certezza che l’espansione economica prodotta dalla disponibilità di
maggior potere d’acquisto produca PIL e quindi gettito fiscale lordo in misura
corrispondente agli sconti fiscali, via via che questi diventano utilizzabili.
La certezza non
c’è perché l’effetto espansivo è governato dai cosiddetti “moltiplicatori
fiscali”, sulla cui dimensione (come su qualsiasi manovra di politica
economica) a priori si possono formulare ragionevoli ipotesi, non previsioni
precise al centesimo.
Va però chiarito
un equivoco: non è necessario che questa equivalenza perfetta si verifichi,
perché un eventuale ammanco potrebbe facilmente essere compensato incrementando
gradualmente nel tempo le emissioni di Moneta Fiscale.
Ad esempio, la formulazione
originaria del progetto Certificati di Compensazione Fiscale (una della
possibili forme di Moneta Fiscale) prevede che gli sconti fiscali che diventano
via via utilizzabili (con un differimento temporale di due anni rispetto
all’emissione) arrivino gradualmente a 100 miliardi di euro annui.
Gli incassi
totali lordi del settore pubblico italiano sono dell’ordine di 800 miliardi, e
tenderanno a salire con l’espansione del PIL nominale. Emettere qualcosa più di
100 nell’anno in cui 100 di sconti fiscali vengono utilizzati significa che
continuerà a esistere un’enorme differenza tra Moneta Fiscale in circolazione e
incassi lordi del settore pubblico. Il rischio che le emissioni di Moneta
Fiscale raggiungono livelli tali da svilirne il valore è, in pratica,
infinitesimale.
La BCE può
finalmente uscire da QE / politica del tasso zero / repressione finanziaria
Per evitare il
collasso dell’Eurozona, la BCE è stato costretta ad adottare politiche di
“repressione finanziaria”, tra cui il Quantitative Easing e l’abbattimento a
zero (se non a livelli negativi) dei tassi di rifinanziamento applicati alle
banche – e di conseguenza anche dei rendimenti dei titoli di Stato emessi dai
vari Stati membri.
Questa politica
è stata vivacemente contestata da molti commentatori economici, specialmente
nei paesi del Nord Europa.
In effetti, non
è più disponibile per i risparmiatori un’alternativa di impiego che garantisca,
in condizioni di sicurezza, un modesto ma positivo rendimento.
La critica ha un
fondamento, ma chi la formula dovrebbe sostenere con entusiasmo il progetto
Moneta Fiscale.
Infatti, risolvendo
le disfunzioni dell’euro e portando finalmente il sistema economico al pieno
impiego nell’intera Eurozona, non ci sarà più ragione per cui la BCE debba
proseguire con i suoi programmi di repressione finanziaria.
La posizione di
Eurostat e la dimensione politica della Moneta Fiscale
Su richiesta
dell’ISTAT, l’ufficio statistico della UE (Eurostat) ha affermato che le
detrazioni fiscali del “Transition Plan 4.0” devono essere considerate “crediti
fiscali pagabili”, e quindi ricompresi nel debito pubblico, in quanto hanno
natura di “sussidi”.
Ma lo stesso regolamento
Eurostat all’articolo 4.30 precisa al contrario che non c’è sussidio nel
momento in cui non sussiste pagamento. E la Moneta Fiscale NON prevede alcun
tipo di pagamento, anzi lo esclude in modo perentorio.
Eurostat ha
anche sollevato dubbi sulla natura di “crediti fiscali non pagabili” del “Bonus
110%” in quanto la loro cedibilità rende elevata la probabilità che vengano
effettivamente utilizzati.
Anche qui,
Eurostat fa leva su un’interpretazione che non si può neanche considerare
estensiva, bensì inventata di sana pianta. Come dice il nome stesso, “credito
fiscale pagabile” è quello che dà luogo a un impegno di pagamento. L’alta o
bassa probabilità di utilizzo da parte del detentore del credito non ha nessun
rilievo ai sensi dei regolamenti.
È legittimo il
dubbio che dietro a queste strampalate “interpretazioni” tecniche ci sia la
volontà di depotenziare uno strumento che, agli occhi delle istituzioni
comunitarie (o forse solo di qualche funzionario animato da eccesso di zelo
male indirizzato) consente agli Stati un recupero di autonomia nella
definizione delle linee di politica economica.
È comunque un
tema troppo importante perché ci si debba bloccare su fantasiose “letture” dei
regolamenti. Se il “defaultable debt” in rapporto al PIL cala, nessuno può sensatamente
eccepire che la circolazione di Moneta Fiscale crei scompensi al sistema: al
contrario, li risolve.
Governo e parlamento
italiano devono esigere che questo concetto sia inequivocabilmente recepito
dalle autorità UE, se opportuno anche ottenendo di incorporare i necessari
chiarimenti formali nel processo di revisione del PSC. Come detto, la revisione
del Patto è un passaggio cruciale, e deve portare a una sua ridefinizione che
ne elimini le disfunzionalità.
La Moneta
Fiscale non è la via per rompere l’euro: è la garanzia della sua continuità
La Moneta
Fiscale non è un meccanismo per agevolare la rottura dell’euro. Risolvendone le
disfunzioni, ne garantisce in effetti la continuità, oggi periodicamente
revocata in dubbio.
La Moneta
Fiscale non è uno strumento sostitutivo, ma integrativo dell’euro. Per
rendersene conto, basta constatare che il progetto prevede una circolazione di
Moneta Fiscale di qualche centinaio di miliardi, mentre il valore totale delle
attività finanziarie detenute dal settore privato nazionale è dell’ordine di
5.000 circa.
La Moneta
Fiscale inverte il declino dell’Eurozona, che diversamente la condanna
all’irrilevanza economica
Riformare
l’Eurozona secondo le linee del progetto Moneta Fiscale è la via per arrestare
il rapido e progressivo declino dell’Eurozona nei confronti del resto
dell’economia mondiale.
Secondo i dati
storici e previsionali del Fondo Monetario Internazionale (World Economic
Outlook, Aprile 2021) nel ventennio 2003-2022 la crescita di PIL reale degli
USA risulta pari al 51,6%. Quella dell’Eurozona, al 20,5%.
Questa enorme differenza
è la diretta conseguenza della governance
economico-monetaria: politiche adeguatamente espansive e orientate al piano
impiego negli USA; bias deflattivo e
orientamento prociclico nell’Eurozona.
Il percorso
dell’Eurozona, in assenza di un netto cambio di direzione, non la conduce, come
si vorrebbe, a farne un blocco economico in grado di competere alla pari con
USA e Cina. La condanna invece, anno dopo anno, a diventare sempre più
secondaria, sfociando alla fine in una sostanziale irrilevanza.
La Moneta
Fiscale è lo strumento tecnico adeguato per conseguire questo cambio di
direzione.