Appunti per il
convegno su debito pubblico e fiscal compact, organizzato da Lista Civica
Italiana – Milano, 10 maggio 2014.
Ringrazio gli organizzatori
per l’opportunità di intervenire su un tema di così pressante attualità, sul
piano sia economico che (a quindici giorni di distanza dalle elezioni europee)
politico.
Spesso il
problema viene visto nei termini sintetizzati, per esempio, proprio dal
comunicato stampa redatto da Lista Civica Italiana in merito all’evento
odierno: “Il debito pubblico italiano ha superato i 2.000 miliardi di euro e la
spesa per interessi annuale è dell’ordine di 90 miliardi di euro, oltre il 5%
del PIL. Per fare un confronto, la spesa sanitaria in Italia è di poco
superiore. La spesa per interessi è dunque un macigno che non permette allo
stato di contenere la pressione fiscale e di aiutare soprattutto le fasce di
popolazione più colpite dalla crisi, come i giovani e le giovani famiglie”.
Ma è veramente
così ?
In realtà, se
l’Italia non torna a dotarsi degli strumenti per incrementare i livelli di
domanda e per ripristinare le potenzialità della sua economia, anche azioni di
stralcio del debito e della spesa per interessi non ci farebbero uscire dalla
crisi.
Immaginiamo per
esempio che l’Italia dimezzi gli interessi pagati sul suo debito pubblico. La
spesa annua passerebbe da 90 a 45 miliardi di euro. Ma per più di metà questa
minore spesa si tradurrebbe in minori redditi percepiti da residenti italiani.
Il vantaggio per
il sistema economico nazionale sarebbe quindi riferibile solo alla componente
della spesa per interessi pagata a soggetti esteri. Quindi circa 20 miliardi di
euro annui, ipotizzando peraltro che le controparti estere non mettano in atto
azioni di rivalsa verso beni o interessi italiani all’estero (che, al
contrario, non sarebbero affatto da escludere).
La soluzione
della crisi non richiede, in realtà, la riduzione del debito pubblico e della
relativa spesa per interessi. Non c’è alcun motivo per cui la presenza di un
debito pubblico relativamente elevato in rapporto al PIL (ma non molto più rispetto
alle medie europee o agli USA, e inferiore a quello giapponese) debba impedire
all’Italia di mettere al lavoro le sue risorse produttive, di riassorbire tutta
la disoccupazione che si è creata dal 2008 in poi, di sviluppare politiche
economiche che promuovano opportunità, coesione sociale, incremento dei redditi
e maggiore equità nella loro distribuzione.
Nel 2008 si è
verificato un grave fenomeno di dissesto nei mercati finanziari internazionali,
culminato nel fallimento Lehman Brothers. E’ scoppiata una grossa bolla
speculativa nel settore immobiliare e nel mercato del credito, si sono
improvvisamente arrestati ordini alle aziende, produzione e consumi, e
l’attività economica ha subito una pesante flessione in tutte le principali
economie mondiali.
Le
organizzazioni finanziarie e bancarie i cui comportamenti sono stati
all’origine del dissesto includono molte istituzioni statunitense, inglesi, francesi,
tedesche, svizzere. Non italiane. E infatti, rispetto a quanto avvenuto
all’estero, gli interventi di salvataggio del sistema creditizio da noi non
sono stati necessari, se non per importi minimi rispetto a quelli, enormi, che
si sono verificati altrove.
Tra il 2009 e il
2010, i governi e le banche centrali hanno attuato azioni di sostegno
dell’economia, di dimensione sufficiente a tamponare gli effetti dalla crisi ma
non a produrre un completo recupero. Queste azioni sono state ridotte o
interrotte in modo prematuro, sulla base della motivazione erronea che
sostenere la domanda e immettere liquidità nelle economie avrebbe prima o poi
causato l’aumento dei tassi d’interesse e dell’inflazione. La domanda globale e
la disoccupazione erano, al contrario, su livelli tali da impedire la
concretizzazione di questi rischi.
In Europa o per
essere più precisi nell’Eurozona, in una situazione economica ancora
convalescente, la crisi è entrata in una seconda fase durante il 2011, a causa
di tensioni legate ai meccanismi di funzionamento (o di non funzionamento)
della moneta unica europea.
L’utilizzo di
una stessa moneta in un’area economica disomogenea, da parte di stati diversi, crea
un rischio che molti economisti avevano (peraltro) chiaramente identificato parecchi
anni prima dell’introduzione dell’euro. Le dinamiche delle varie economie,
riguardo a vari parametri tra cui inflazione e costo del lavoro per unità di
prodotto, sono difformi. Dopo alcuni anni, la moneta finisce per essere troppo
debole per alcuni paesi (principalmente la Germania) e troppo forte per altri
(soprattutto l’Europa mediterranea).
Questa
situazione ha prodotto grossi attivi commerciali, pari al 6-7% annuo del PIL,
in Germania, il cui contraltare per molti anni è stato l’accumulo di deficit di
pari importo e segno contrario nel Sud dell’Eurozona.
Grazie ai
surplus commerciali, nel 2011 la Germania aveva recuperato i danni prodotti all’occupazione
dalla crisi del 2008. Ma nello stesso tempo i paesi mediterranei avevano raggiunto
un deficit di competitività tale da far temere per la solvibilità dei loro
debiti, e di conseguenza anche per la tenuta della moneta unica europea.
La diagnosi del
problema e le azioni di “risanamento” messe in atto sono state completamente
sbagliate. Il Sud dell’Eurozona soffriva dell’effetto combinato di una carenza
di domanda e di un deficit di competitività. Si è preteso invece di risolvere
il problema con azioni di contenimento dei deficit pubblici, nonché riducendo
le retribuzioni e rendendo i rapporti di lavoro più “flessibili”, vale a dire
più precari.
Il risultato è
stato il crollo di consumi, produzione e PIL, con il risultato che il rapporto
tra debito pubblico e PIL dei vari paesi è schizzato verso l’alto invece di
ridursi.
La soluzione
corretta della crisi non è di attuare azioni di contenimento dei deficit. Occorre
invece rilanciare domanda, produzione, consumi e occupazione. Non pretendere di
abbassare il numeratore del rapporto, ma alzare il denominatore.
I vincoli
imposti dall’Unione Europea e dalla BCE, su cui naturalmente esercita una forte
influenza la Germania, continuano invece a comprimere i livelli di attività
dell’economia italiana molto al di sotto del loro potenziale, in misura
stimabile in non meno del 20%.
I vincoli (3% deficit
/ PIL, fiscal compact) sono stati introdotti per calmare, in qualche modo, le
ansie dei creditori, individuando un percorso di contenimento del debito. Ma i
tentativi di rispettarli sono in realtà, anche a questi fini, controproducenti,
in quanto producono la caduta dei livelli di attività economica. Dopo quasi tre
anni di austerità, il debito pubblico italiano è nettamente più alto (circa
quindici punti in più in rapporto al PIL). E nello stesso tempo sono crollati
redditi e consumi, è esplosa la disoccupazione, si sono moltiplicati i
fallimenti di aziende, il disagio sociale peggiora di giorno in giorno.
Tutto questo è
inevitabile ? assolutamente no. E’ possibile adottare politiche che tutelino
gli interessi dei creditori ma nello stesso tempo riportino l’Italia ad
esprimere pienamente il suo potenziale economico, che è ben superiore a quanto
espresso dai dati odierni.
Il progetto di riforma su cui sto lavorando da più di un anno prevede di introdurre, in Italia
e nei vari paesi oggi in difficoltà dell’Eurozona, una forma di moneta
complementare (i Certificati di Credito Fiscale), da emettere da parte dello
Stato, attribuendola senza corrispettivo a una pluralità di soggetti.
I Certificati di Credito Fiscale sono moneta, in quanto verranno illimitatamente accettati (a
scadenze predeterminate) dallo Stato emittente per pagare tasse e imposte e per
onorare qualsiasi altra obbligazione finanziaria nei confronti dello Stato
medesimo. Non sono debito in quanto non c’è impegno da parte dell’emittente a
rimborsarli in euro.
I Certificati di
Credito Fiscale verranno attribuiti ai lavoratori per integrare il loro
reddito, alle aziende per diminuire i loro costi, e potranno essere utilizzati anche
per finalità di interesse pubblico o sociale.
Aziende,
lavoratori e pubbliche amministrazioni entreranno quindi in possesso dei mezzi
finanziari necessari a risollevare la domanda e l’occupazione, assicurando
peraltro la riduzione dei costi di lavoro effettivi delle aziende necessaria ad
evitare che il recupero del PIL crei squilibri nei saldi commerciali esteri.
Il debito
pubblico italiano espresso in euro – il vero debito pubblico, in altri termini
– diminuirà in rapporto al PIL. Inoltre, ulteriori emissioni di Certificati di
Credito Fiscale a varie scadenze potranno essere effettuate per rifinanziare il
debito in euro via via che giunge a scadenza. La riduzione dell’effettivo
rapporto debito / PIL potrà quindi essere ancora più veloce.
L’uscita
dell’economia italiana dalla morsa del debito passa attraverso questa forma di
intervento: introduzione di una forma di sovranità monetaria che consente al
paese di espandere la domanda quando necessario e nella misura opportuna, e di
finanziarsi, in buona sostanza, emettendo moneta – e non debito da rimborsare
in una valuta di cui lo Stato non controlla l’emissione.
Tutto questo è
possibile, secondo le linee sopra accennate, senza passare tramite la
“spaccatura” dell’euro (una via percorribile, ma complicata e inefficiente).
Ritornare in
possesso della propria sovranità monetaria permette all’Italia di mobilitare
risorse di un ordine di grandezza stimabile in 200 miliardi annui, che “pagano”
il recupero di occupazione e di produzione corrispondente, in buona sostanza,
alla mobilitazione di risorse produttive oggi inattive.
Il debito non è
un vincolo di per sé. Per incompetenza o pretestuosamente (un misto delle due
cose, ritengo) il debito è, sì, in qualche modo all’origine della crisi
economica italiana. Ma solo perché, senza una reale motivazione tecnica, è
stato addotto come giustificazione di politiche economiche che stanno
affossando la nostra economia. Da questa situazione assurda possiamo uscire,
subito.
C'è un punto su cui ho delle perplessità, questo qui:
RispondiElimina"Immaginiamo per esempio che l’Italia dimezzi gli interessi pagati sul suo debito pubblico. La spesa annua passerebbe da 90 a 45 miliardi di euro. Ma per più di metà questa minore spesa si tradurrebbe in minori redditi percepiti da residenti italiani."
Io direi che i minori redditi percepiti riguarderebbero in prevalenza istituzioni finanziarie le quali non consumano ed erogano finanziamenti con logiche pro-cicliche, quindi la sola riduzione della spesa per interessi dovrebbe portare un vantaggio nella lotta alla crisi nella misura in cui i soldi "risparmiati" sugli interessi vengono usati per politiche fiscali espansive. Tutto ciò se ci limitiamo alla sola riduzione della spesa per interessi senza toccare il debito. E' sbagliata la mia logica?
In parte è vero, però ricordiamo che buona parte del debito pubblico è comunque detenuto da risparmiatori, direttamente o tramite fondi d'investimento, fondi pensione, attività vincolate a polizze assicurative eccetera. Una riallocazione della spesa con effetti netti espansivi si può conseguire. Ma i benefici, evidentemente, sono di tutt'altro ordine di grandezza rispetto a quelli ottenibili tramite politiche di deficit spending supportate da espansione monetaria.
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