mercoledì 7 maggio 2014

Il vincolo del debito: verità, equivoco o pretesto ?


Appunti per il convegno su debito pubblico e fiscal compact, organizzato da Lista Civica Italiana – Milano, 10 maggio 2014.

 

Ringrazio gli organizzatori per l’opportunità di intervenire su un tema di così pressante attualità, sul piano sia economico che (a quindici giorni di distanza dalle elezioni europee) politico.

Spesso il problema viene visto nei termini sintetizzati, per esempio, proprio dal comunicato stampa redatto da Lista Civica Italiana in merito all’evento odierno: “Il debito pubblico italiano ha superato i 2.000 miliardi di euro e la spesa per interessi annuale è dell’ordine di 90 miliardi di euro, oltre il 5% del PIL. Per fare un confronto, la spesa sanitaria in Italia è di poco superiore. La spesa per interessi è dunque un macigno che non permette allo stato di contenere la pressione fiscale e di aiutare soprattutto le fasce di popolazione più colpite dalla crisi, come i giovani e le giovani famiglie”.

Ma è veramente così ?

In realtà, se l’Italia non torna a dotarsi degli strumenti per incrementare i livelli di domanda e per ripristinare le potenzialità della sua economia, anche azioni di stralcio del debito e della spesa per interessi non ci farebbero uscire dalla crisi.

Immaginiamo per esempio che l’Italia dimezzi gli interessi pagati sul suo debito pubblico. La spesa annua passerebbe da 90 a 45 miliardi di euro. Ma per più di metà questa minore spesa si tradurrebbe in minori redditi percepiti da residenti italiani.

Il vantaggio per il sistema economico nazionale sarebbe quindi riferibile solo alla componente della spesa per interessi pagata a soggetti esteri. Quindi circa 20 miliardi di euro annui, ipotizzando peraltro che le controparti estere non mettano in atto azioni di rivalsa verso beni o interessi italiani all’estero (che, al contrario, non sarebbero affatto da escludere).

La soluzione della crisi non richiede, in realtà, la riduzione del debito pubblico e della relativa spesa per interessi. Non c’è alcun motivo per cui la presenza di un debito pubblico relativamente elevato in rapporto al PIL (ma non molto più rispetto alle medie europee o agli USA, e inferiore a quello giapponese) debba impedire all’Italia di mettere al lavoro le sue risorse produttive, di riassorbire tutta la disoccupazione che si è creata dal 2008 in poi, di sviluppare politiche economiche che promuovano opportunità, coesione sociale, incremento dei redditi e maggiore equità nella loro distribuzione.

Nel 2008 si è verificato un grave fenomeno di dissesto nei mercati finanziari internazionali, culminato nel fallimento Lehman Brothers. E’ scoppiata una grossa bolla speculativa nel settore immobiliare e nel mercato del credito, si sono improvvisamente arrestati ordini alle aziende, produzione e consumi, e l’attività economica ha subito una pesante flessione in tutte le principali economie mondiali.

Le organizzazioni finanziarie e bancarie i cui comportamenti sono stati all’origine del dissesto includono molte istituzioni statunitense, inglesi, francesi, tedesche, svizzere. Non italiane. E infatti, rispetto a quanto avvenuto all’estero, gli interventi di salvataggio del sistema creditizio da noi non sono stati necessari, se non per importi minimi rispetto a quelli, enormi, che si sono verificati altrove.

Tra il 2009 e il 2010, i governi e le banche centrali hanno attuato azioni di sostegno dell’economia, di dimensione sufficiente a tamponare gli effetti dalla crisi ma non a produrre un completo recupero. Queste azioni sono state ridotte o interrotte in modo prematuro, sulla base della motivazione erronea che sostenere la domanda e immettere liquidità nelle economie avrebbe prima o poi causato l’aumento dei tassi d’interesse e dell’inflazione. La domanda globale e la disoccupazione erano, al contrario, su livelli tali da impedire la concretizzazione di questi rischi.

In Europa o per essere più precisi nell’Eurozona, in una situazione economica ancora convalescente, la crisi è entrata in una seconda fase durante il 2011, a causa di tensioni legate ai meccanismi di funzionamento (o di non funzionamento) della moneta unica europea.

L’utilizzo di una stessa moneta in un’area economica disomogenea, da parte di stati diversi, crea un rischio che molti economisti avevano (peraltro) chiaramente identificato parecchi anni prima dell’introduzione dell’euro. Le dinamiche delle varie economie, riguardo a vari parametri tra cui inflazione e costo del lavoro per unità di prodotto, sono difformi. Dopo alcuni anni, la moneta finisce per essere troppo debole per alcuni paesi (principalmente la Germania) e troppo forte per altri (soprattutto l’Europa mediterranea).

Questa situazione ha prodotto grossi attivi commerciali, pari al 6-7% annuo del PIL, in Germania, il cui contraltare per molti anni è stato l’accumulo di deficit di pari importo e segno contrario nel Sud dell’Eurozona.

Grazie ai surplus commerciali, nel 2011 la Germania aveva recuperato i danni prodotti all’occupazione dalla crisi del 2008. Ma nello stesso tempo i paesi mediterranei avevano raggiunto un deficit di competitività tale da far temere per la solvibilità dei loro debiti, e di conseguenza anche per la tenuta della moneta unica europea.

La diagnosi del problema e le azioni di “risanamento” messe in atto sono state completamente sbagliate. Il Sud dell’Eurozona soffriva dell’effetto combinato di una carenza di domanda e di un deficit di competitività. Si è preteso invece di risolvere il problema con azioni di contenimento dei deficit pubblici, nonché riducendo le retribuzioni e rendendo i rapporti di lavoro più “flessibili”, vale a dire più precari.

Il risultato è stato il crollo di consumi, produzione e PIL, con il risultato che il rapporto tra debito pubblico e PIL dei vari paesi è schizzato verso l’alto invece di ridursi.

La soluzione corretta della crisi non è di attuare azioni di contenimento dei deficit. Occorre invece rilanciare domanda, produzione, consumi e occupazione. Non pretendere di abbassare il numeratore del rapporto, ma alzare il denominatore.

I vincoli imposti dall’Unione Europea e dalla BCE, su cui naturalmente esercita una forte influenza la Germania, continuano invece a comprimere i livelli di attività dell’economia italiana molto al di sotto del loro potenziale, in misura stimabile in non meno del 20%.

I vincoli (3% deficit / PIL, fiscal compact) sono stati introdotti per calmare, in qualche modo, le ansie dei creditori, individuando un percorso di contenimento del debito. Ma i tentativi di rispettarli sono in realtà, anche a questi fini, controproducenti, in quanto producono la caduta dei livelli di attività economica. Dopo quasi tre anni di austerità, il debito pubblico italiano è nettamente più alto (circa quindici punti in più in rapporto al PIL). E nello stesso tempo sono crollati redditi e consumi, è esplosa la disoccupazione, si sono moltiplicati i fallimenti di aziende, il disagio sociale peggiora di giorno in giorno.

Tutto questo è inevitabile ? assolutamente no. E’ possibile adottare politiche che tutelino gli interessi dei creditori ma nello stesso tempo riportino l’Italia ad esprimere pienamente il suo potenziale economico, che è ben superiore a quanto espresso dai dati odierni.

Il progetto di riforma su cui sto lavorando da più di un anno prevede di introdurre, in Italia e nei vari paesi oggi in difficoltà dell’Eurozona, una forma di moneta complementare (i Certificati di Credito Fiscale), da emettere da parte dello Stato, attribuendola senza corrispettivo a una pluralità di soggetti.

I Certificati di Credito Fiscale sono moneta, in quanto verranno illimitatamente accettati (a scadenze predeterminate) dallo Stato emittente per pagare tasse e imposte e per onorare qualsiasi altra obbligazione finanziaria nei confronti dello Stato medesimo. Non sono debito in quanto non c’è impegno da parte dell’emittente a rimborsarli in euro.

I Certificati di Credito Fiscale verranno attribuiti ai lavoratori per integrare il loro reddito, alle aziende per diminuire i loro costi, e potranno essere utilizzati anche per finalità di interesse pubblico o sociale.

Aziende, lavoratori e pubbliche amministrazioni entreranno quindi in possesso dei mezzi finanziari necessari a risollevare la domanda e l’occupazione, assicurando peraltro la riduzione dei costi di lavoro effettivi delle aziende necessaria ad evitare che il recupero del PIL crei squilibri nei saldi commerciali esteri.

Il debito pubblico italiano espresso in euro – il vero debito pubblico, in altri termini – diminuirà in rapporto al PIL. Inoltre, ulteriori emissioni di Certificati di Credito Fiscale a varie scadenze potranno essere effettuate per rifinanziare il debito in euro via via che giunge a scadenza. La riduzione dell’effettivo rapporto debito / PIL potrà quindi essere ancora più veloce.

L’uscita dell’economia italiana dalla morsa del debito passa attraverso questa forma di intervento: introduzione di una forma di sovranità monetaria che consente al paese di espandere la domanda quando necessario e nella misura opportuna, e di finanziarsi, in buona sostanza, emettendo moneta – e non debito da rimborsare in una valuta di cui lo Stato non controlla l’emissione.

Tutto questo è possibile, secondo le linee sopra accennate, senza passare tramite la “spaccatura” dell’euro (una via percorribile, ma complicata e inefficiente).

Ritornare in possesso della propria sovranità monetaria permette all’Italia di mobilitare risorse di un ordine di grandezza stimabile in 200 miliardi annui, che “pagano” il recupero di occupazione e di produzione corrispondente, in buona sostanza, alla mobilitazione di risorse produttive oggi inattive.

Il debito non è un vincolo di per sé. Per incompetenza o pretestuosamente (un misto delle due cose, ritengo) il debito è, sì, in qualche modo all’origine della crisi economica italiana. Ma solo perché, senza una reale motivazione tecnica, è stato addotto come giustificazione di politiche economiche che stanno affossando la nostra economia. Da questa situazione assurda possiamo uscire, subito.

2 commenti:

  1. C'è un punto su cui ho delle perplessità, questo qui:
    "Immaginiamo per esempio che l’Italia dimezzi gli interessi pagati sul suo debito pubblico. La spesa annua passerebbe da 90 a 45 miliardi di euro. Ma per più di metà questa minore spesa si tradurrebbe in minori redditi percepiti da residenti italiani."

    Io direi che i minori redditi percepiti riguarderebbero in prevalenza istituzioni finanziarie le quali non consumano ed erogano finanziamenti con logiche pro-cicliche, quindi la sola riduzione della spesa per interessi dovrebbe portare un vantaggio nella lotta alla crisi nella misura in cui i soldi "risparmiati" sugli interessi vengono usati per politiche fiscali espansive. Tutto ciò se ci limitiamo alla sola riduzione della spesa per interessi senza toccare il debito. E' sbagliata la mia logica?

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    1. In parte è vero, però ricordiamo che buona parte del debito pubblico è comunque detenuto da risparmiatori, direttamente o tramite fondi d'investimento, fondi pensione, attività vincolate a polizze assicurative eccetera. Una riallocazione della spesa con effetti netti espansivi si può conseguire. Ma i benefici, evidentemente, sono di tutt'altro ordine di grandezza rispetto a quelli ottenibili tramite politiche di deficit spending supportate da espansione monetaria.

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