Sono molto attivi,
sui vari social network, alcuni
commentatori di fatti e temi economici che si caratterizzano per quanto segue.
Leggono molto, o
quantomeno più della media degli interlocutori che si incontrano su Facebook e
su Twitter. E fin qui tutto bene.
Capiscono grosso
modo il 50% di quanto leggono, e ci può stare perché gli argomenti sui quali
s’informano non sono banali.
Costruiscono
teorizzazioni su quanto credono di aver capito, e siccome appunto hanno
compreso il 50% e non il 100%, il rischio di grosse topiche è in agguato.
Quando le topiche
si verificano, rifiutano di riconoscere che tali sono, a dispetto di ogni
evidenza contraria: e qui proprio non ci siamo.
I nostri baldi SocialNetworkCommentators (SNC for short) sono, spesso, convinti
assertori della Teoria della Pizza di Fango, secondo la quale l’Italia, se
uscisse dall’euro, non sarebbe !!!giammai!!! in grado di emettere una propria
moneta dotata di un qualche valore, o comunque accettabile da parte di
qualcuno.
Forse sono troppo
giovani (alcuni di loro, quantomeno) per essersi trovati nella condizione di
lavorare, guadagnare, e risparmiare in lire. Però, suvvia, dovrebbero pur
rendersi conto di vivere in un paese che è diventato una delle principali
economie mondiali lavorando, guadagnando e risparmiando in lire. E che essere
pagati in lire non dispiaceva a nessuno. E che nessuno le usava come carta da
tappezzeria. E che tutti, ma proprio tutti i paesi di una qualche rilevanza economica,
esclusa la sola Eurozona, emettono e usano la propria moneta nazionale.
Qualche giorno fa,
ad ogni modo, uno di questi SNC ne ha sparata una più comica del solito. Ha
constatato che ai tempi della lira una parte significativa del debito delle
società italiane era in valuta estera. E ha affermato che questo costituisce
una prova della “limitata accettazione della lira”. Le aziende, in altri
termini, avevano bisogno di approvvigionarsi di dollari, marchi, yen eccetera
perché altrimenti avrebbero avuto difficoltà a operare…
E’ una fregnaccia
di dimensioni considerevoli.
Una società ha
almeno due possibili ragioni per indebitarsi in valuta estera.
La prima, che è
quella più sensata, è coprirsi dal rischio di cambio. Immaginiamo che il
business si svolga in parte all’estero, e che il 30% dei risultati operativi
vengano generati negli USA, o comunque in paesi di “area dollaro”. E che magari
la società abbia anche investito per creare uno stabilimento negli USA.
E’ senz'altro giustificato che questa società contragga in dollari una parte del proprio
indebitamento, in modo che un’eventuale svalutazione del dollaro comporti
un calo di valore degli oneri finanziari e dei debiti da pagare (una volta
convertiti nella propria moneta). Compensando così il calo dei redditi
prodotti all’estero, nonché del valore delle attività detenute al di fuori del
proprio paese.
La seconda
possibile ragione è un comportamento speculativo dell’azienda che si indebita
in valuta. Nel 1994, ho conosciuto piuttosto bene i soci di un importante
gruppo industriale italiano (a proprietà familiare), che si stavano leccando le
ferite perché avevano assunto debito in franchi svizzeri per beneficiare dei
minori tassi d’interesse.
La svalutazione
della lira in seguito alla rottura dello SME (nel 1992) creò parecchi danni a
questo gruppo (nel tempo li hanno poi recuperati, grazie ai positivi risultati
della gestione industriale). Ma si era trattato di una speculazione mal
riuscita, non diversamente da quanto accaduto a tante famiglie che avevano
comprato casa indebitandosi in ECU. Una linea d’azione deliberata (e con il
senno di poi perdente) che nessuno li costringeva a percorrere.
Comunque, e per
fortuna, delle due cause che possono indurre le aziende private ad indebitarsi
in valuta, prevale di gran lunga la prima. Ed è un motivo sano e rispettabile:
si tratta, se correttamente gestita, di un’efficiente politica di gestione del
rischio di cambio.
Qualunque cosa ne
pensi SNC, ad ogni modo, ai tempi della lira nessuno si indebitava in valuta perché
altrimenti non avrebbe potuto sviluppare la sua attività. L’alternativa di
vendere lire e comprare valuta per finanziare lo sviluppo estero era
assolutamente percorribile. Il finanziamento in valuta era utilizzabile, e
veniva spesso utilizzato, come corretta tecnica di hedging, ma si trattava di un’opportunità, non di un obbligo. Per
inciso, i finanziamenti in valuta erano in genere reperibili, senza problemi,
presso le banche italiane stesse.
In sintesi: non
c’era nessun bisogno, ma proprio nessuno, di entrare in un’unione monetaria
(leggi nell’euro…) per sviluppare l’attività delle aziende italiane, né
all’estero né sul mercato domestico, a causa di una presunta “scarsa accettazione”
della lira. Né c’era alcuna necessità, per l’Italia e per le sue aziende, di
entrare nell’euro per “meglio internazionalizzare” la propria economia.
Verissimo Dott. Cattaneo!!
RispondiEliminaBasta guardare l'Argentina.. si è ripresa a dispetto della sua valuta debole. Nessuno l'ha ripudiata o affondata anzi.
Addirittura ha emesso bond a 100 anni!
Andrea
Tra l'altro è importante notare che l'Argentina a fine 2001 si era venuta a trovare in una situazione molto più debole e logorata dell'Italia di oggi. Dinamiche simili (aggancio valutario insostenibile in combinazione con politiche deflattive) ma lì erano ben più esasperate.
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