C’è un problema
molto serio sul piano teorico, e molto grave riguardo alle sue conseguenze
pratiche, nell’affermazione che occorre lasciare al mercato la disciplina della
spesa pubblica, della tassazione, del deficit e del debito pubblico.
E’ una proposta
che può suonare convincente. Che cosa c’è di meglio di affidare a operatori
indipendenti la valutazione delle finanze statali ? è il sistema di controllo
più efficace per evitare, o quantomeno per mantenere sotto controllo, eccessi e
utilizzi impropri dei soldi pubblici, vero ? lo Stato che si gestisce male
subisce un’immediata penalizzazione che limita la capacità di politici
disonesti, incompetenti e spreconi di fare danni ai propri cittadini, giusto ?
No, non è giusto.
Proprio per niente. Per vari motivi.
In primo luogo, perché
il presupposto implicito è che il mercato allochi in maniera efficiente le
risorse e valuti con correttezza e precisione il merito di credito e/o il
rischio di un determinato investimento – sempre e comunque.
Su un arco di
tempo lungo, questo è vero. Ma si parla di svariati anni. Sul breve termine,
no.
“In the long run,
the market is a weighing machine. In the short run, it’s a voting machine” –
per citare Benjamin Graham (grande investitore teorico e pratico, nonché
maestro di Warren Buffett).
Prendiamo ad
esempio il cambio euro – dollaro. Come si determina un valore “corretto” nel
lungo termine ? un sistema semplice, e probabilmente affidabile almeno quanto
qualsiasi altro, è calcolare la media dei cambi dal momento in cui l’euro è
stato introdotto.
Abbiamo a
disposizione una serie storica di 19 anni, dal 1999 al 2017. La media generale
è poco sopra 1,20 (1,2082 per la precisione).
Andiamo ora a
vedere le medie dei singoli anni. La
situazione che si presenta è questa:
1999
|
1,0661
|
2000
|
0,9235
|
2001
|
0,8960
|
2002
|
0,9425
|
2003
|
1,1341
|
2004
|
1,2441
|
2005
|
1,2464
|
2006
|
1,2563
|
2007
|
1,3704
|
2008
|
1,4714
|
2009
|
1,3945
|
2010
|
1,3274
|
2011
|
1,3927
|
2012
|
1,2857
|
2013
|
1,3285
|
2014
|
1,3292
|
2015
|
1,1097
|
2016
|
1,1066
|
2017
|
1,1301
|
Stimare in 1,20
circa il valore “mediamente corretto” è sensato. Ma è un valore intorno al
quale si sono registrate ampie oscillazioni. I primi cinque anni – dal 1999 al
2003 – sotto. Poi undici anni consecutivi
sopra. Poi ancora tre anni sotto.
A partire dal 2004
sarebbe stato plausibile affermare che l’euro si era rafforzato troppo, e
quindi che era raccomandabile vendere euro e comprare dollari. E questa
strategia alla fine si sarebbe anche
rivelata corretta. Ma non nell’arco di un mese o di un trimestre. Dopo undici
anni…
Per inciso, questo
non significa che le sotto- e le sopravvalutazioni possano raggiungere livelli
grandi a piacere. Come si vede dalla serie storica, rispetto al plausibile valore
di equilibrio di 1,20 circa, le oscillazioni delle medie annue sono state tra
0,90 (nel 2001) e 1,47 (nel 2008). I massimi e minimi assoluti del dollaro
rispetto all’euro hanno toccato (per un singolo giorno) rispettivamente 0,82 e
1,60. Le oscillazioni sono quindi state nell’ordine di +/- 30%: poi i valori
fondamentali hanno ripreso il sopravvento e si è verificata la mean reversion, il ritorno verso la
media.
Lo stesso discorso
potrebbe essere fatto per le quotazioni dell’indice di borsa. C’è un trend, e
ci sono delle oscillazioni: gli eccessi in un senso o nell’altro rientrano
verso il trend, certamente. Ma non necessariamente in periodi di tempo brevi.
Anzi, la correzione è un evento sicuro: ma
solo se l’orizzonte dell’analisi è pluriennale. E non parliamo di un paio
d’anni, ma da dieci in su – se vogliamo avere delle certezze, o quantomeno dei
gradi molto elevati di probabilità.
Se poi prendiamo
in considerazione attività ancora più volatili e speculative, la tendenza
“oscillatoria” dei valori di mercato diventa naturalmente molto più esasperata.
Un bitcoin valeva 1.000 dollari un anno fa, 19.000 a dicembre scorso, e meno di
10.000 oggi.
L’implicazione è
che prendendo per “razionale e corretto” il comportamento di breve termine del
mercato, si finisce con l’agire in modo prociclico – comprando a valori alti e
vendendo a valori bassi. La ricetta più sicura per rovinarsi.
Che cosa ha a che
vedere tutto questo con la gestione del debito pubblico ?
Molto semplice:
anche la valutazione dei titoli di Stato è soggetta a mode, manie speculative e
oscillazioni intorno a un trend. Il trend ha un senso, le oscillazioni di breve
termine no. Ma se prendo decisioni di politica economica sulla base delle
oscillazioni di breve termine, commetto lo stesso errore dell’investitore sopra
descritto: agisco in maniera prociclica.
E’ esattamente
quanto accaduto con la crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona: si sono
“prescritte” a vari paesi azioni di finanza pubblica restrittive (più tasse,
tagli di spesa pubblica) perché “il mercato” nella sua “saggezza” e
“correttezza” stava richiedendo tassi più alti e abbassava, quindi, il valore
dei titoli.
Chi ha seguito
queste ricette ha ottenuto soltanto di aggravare drammaticamente una situazione
economica che si stava a fatica riprendendo dagli effetti della crisi
finanziaria mondiale del 2008. E questo, è doloroso ogni volta constatarlo e
ripeterlo, è stato in particolare il caso dell'Italia.
Anche i tassi
d’interesse sul debito pubblico possono oscillare per ragioni di breve termine,
speculative e infondate. Peggio ancora: nel caso dell’Eurozona, possono
scontare (come scontavano nel 2011-2012) un elevato rischio di rottura, con
rivalutazione delle monete di alcuni paesi e svalutazione di altre. Tanto è
vero che, nonostante una serie di interventi shock sulla finanza pubblica (che
all’Italia sono costati tredici trimestri consecutivi di caduta del PIL reale,
tra metà 2011 e inizio 2014), i tassi d’interesse sul debito pubblico sono
rientrati solo nel momento in cui la BCE ha fornito una garanzia credibile in
merito alla sua volontà di intervenire per impedire il break-up dell’euro (il whatever it takes di Draghi, luglio
2012).
Il modo di gran
lunga più certo ed efficiente affinché gli stati non si trovino in catastrofiche
situazioni di questo genere è proprio quello non di sottoporre i propri
meccanismi di finanziamento alla “disciplina di mercato”, ma di sottrarvisi. Perché di questa “disciplina” non ci si può
assolutamente fidare come sistema di regolazione e controllo nel breve termine.
Lo Stato del
resto, se è emittente di moneta, non ha bisogno del mercato per finanziarsi.
Può stamparla e introdurla nell’economia nella misura necessaria – spendendo in
eccesso rispetto alla tassazione.
L’eccesso di spesa
rispetto alla tassazione rimane in tasca al settore privato sotto forma di
risparmio. E lo Stato può offrire un servizio di gestione del risparmio
offrendo un impiego sicuro in conti correnti senza rischio, con una
remunerazione modesta ma certa: il cosiddetto “debito pubblico” (a cui
bisognerebbe, una buona volta, cambiare nome, chiamandolo per esempio “liquidità
dei privati presso il ministero dell’economia”…).
Questo significa
che i politici devono avere mano totalmente libera nel gestire le politica di
spesa e tassazione ? no, devono esistere principi, finalizzati alla piena occupazione e alla stabilità monetaria. Correttamente definiti ed applicati,
questi principi definiscono i livelli appropriati di delta tra spesa pubblica e
prelievo fiscale.
Ma piena
occupazione e stabilità monetaria non
significa “compiacere i mercati” e le loro oscillazioni di breve termine.
Tutto ciò è
ottenibile se lo Stato emette la propria moneta e se il cosiddetto “debito
pubblico” è denominato nella moneta stessa. Nell’Eurozona si è venuta a creare
una situazione del tutto differente, e di difficile gestione, perché la potestà
di emissione monetaria è stata demandata a un’entità – la BCE – che non
risponde a nessuno stato.
Un modo efficiente
e rapido per risolvere il problema è fare in modo che ogni stato mantenga in
equilibrio, anno per anno, incassi e pagamenti in euro – con la conseguenza che
il debito pubblico da rimborsare in euro non aumenti più, neanche di un
centesimo (l’obiettivo del Fiscal Compact). Che sotto questa condizione, la BCE
garantisca i debiti pubblici (significa, semplicemente, confermare il “whatever it takes”). E che nella misura
necessaria, le politiche anticicliche vengano condotte emettendo uno strumento fiscale complementare quale i CCF: un titolo utilizzabile per soddisfare obbligazioni
fiscali, senza che lo Stato emittente possa mai essere forzato al default in
quanto non c’è impegno al rimborso cash,
in euro.
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