Il Decreto Legge
“Rilancio” ha introdotto vari meccanismi di assegnazione di crediti d’imposta,
cedibili ai fornitori o, in alternativa, negoziabili contro euro sul mercato
finanziario. E di altre ancora si sta parlando.
Si va dall’Ecobonus
110% per le ristrutturazioni immobiliari, al Bonus Turismo, a indennizzi per
affitti e canoni pagati da attività commerciali che hanno ridotto il fatturato
nel periodo più acuto dell’emergenza Covid.
Non stiamo ancora parlando di un’implementazione completa
del Progetto Moneta Fiscale. Sono primi passi. Le dimensioni sono limitate, e vanno messi a
punto i meccanismi di cessione e circolazione dei crediti d’imposta.
Però sono “teste
di ponte” molto significative. Vanno estese, potenziate, migliorate. Ma ci sono, e costituiscono un importantissimo passo in avanti.
Può sembrare un
paradosso che questi strumenti siano in corso di valutazione e di introduzione
da parte di un governo pro-UE. Ma non mi stupisce: il Progetto Moneta Fiscale nasce
appunto dalla constatazione che la rottura dell’euro è troppo complessa e
controversa, sul piano tanto operativo quanto politico, per avere significative
possibilità di essere realizzata.
In altri
termini, dubito fortemente che esistano le condizioni per vincere un confronto
“muro contro muro” con la UE e con l’eurosistema.
Ma in effetti
non ne vale neanche la pena, e non ne esiste la necessità. Il Progetto Moneta Fiscale,
applicato nella sua compiutezza, risolve le disfunzioni dell’eurosistema ed è
coerente con i trattati che regolano la governance dell’eurozona, senza
necessità di romperla.
Serve, invece, adottare una posizione di “fermezza costruttiva”: abbiamo
identificato che cosa non funziona, ma sappiamo anche come correggerlo, senza
passare tramite una deflagrazione. E lo faremo.
E senza passare tramite
strumenti – il MES, il Recovery Fund – da cui non arriverebbe nulla di
concreto, se non spiccioli con vincoli e condizionamenti che produrrebbero più
danni di quanto possano valere gli (eventuali) benefici finanziari.
Il Recovery
Fund, in particolare, rischia di essere un pericolosissimo depistaggio.
Non solo perché
i soldi sono pochi, dovendo essere ripartiti tra molti stati e tra molti paesi.
Non solo perché
le erogazioni sono soggette all’”attuazione di riforme strutturali”, prescritte
dalla UE.
Non solo perché
il giudizio in merito alla loro attuazione è totalmente discrezionale, e in
qualsiasi momento, quindi, le erogazioni potranno essere sospese (mentre i
nostri contributi sono da pagare sull’unghia).
Ma anche perché
nessuno ha detto quale sarebbe il saldo di bilancio pubblico accettato,
escludendo l’impatto del Recovery Fund.
Spiego. Ante
Covid, nel 2019 il deficit pubblico italiano era stato pari all’1,6%. Del tutto
insufficiente a immettere nell’economia quanto necessario a produrre una
ripresa degna di questo nome. Sarebbe servito un 2% in più, almeno.
Adesso, per
prima cosa occorre recuperare le conseguenze economiche della crisi sanitaria.
Facciamo un’ipotesi ottimistica: tra il 2021 e il 2022, ci viene consentito di
fare (in termini di deficit di bilancio) quanto necessario a ritornare – nel
2022 – ai livelli del 2019.
Questo vuol dire
essere ai livelli di partenza: che erano livelli di pesantissima e cronica
depressione dell’economia.
Si potrebbe
pensare: OK, da lì in poi il Recovery Fund ci assicura, appunto, quel 2% in più
necessario a uscire dalla depressione.
Ma “in più”
rispetto a cosa ? Esauriti gli effetti della crisi sanitaria, il patto di
stabilità e crescita rientrerà in funzione.
E la commissione
UE non perde occasione di ripetere che il debito pubblico dovrà tornare su una
traiettoria di contenimento e discesa.
Ci vuol poco a
immaginare che la commissione UE “raccomanderà” di ottenere il pareggio di
bilancio, fatto salvo il contributo del Recovery Fund.
“Raccomandazione”
da eseguire sotto pena di sospensione dei contributi, s’intende.
Per cui: il
pareggio di bilancio diventa un’immissione di risorse pari al 2%, decimale più
decimale meno la stessa degli anni pre-Covid.
E l’economia
italiana continua quindi a rimanere nella situazione pre-Covid. Depressione
cronica, alti livelli di disoccupazione e sottoccupazione, fortissimo malessere
sociale.
Le valenze di un
programma di emissioni fiat, di uno strumento gestito e controllato dallo Stato
italiano, come la Moneta Fiscale, sono di tutt’altra portata. Si crea potere
d’acquisto supplementare e lo si distribuisce. Si riporta il sistema economico
a condizioni di piena occupazione. E si riduce, gradatamente ma costantemente,
il rapporto debito pubblico / PIL.
Si riduce, in
altri termini, il peso del debito da rimborsare e rifinanziare in euro: il vero
peso che grava sull’economia italiana e le impedisce di uscire dalla sua
cronica situazione di depressione. Il tutto, mentre l’economia italiana torna a
condizioni di crescita, di piena occupazione e di benessere via via sempre più
diffuso.
Per ottenere
questi risultati, i germogli di Moneta Fiscale presenti del DL Rilancio vanno,
come detto, estesi e potenziati. Va chiarita la cedibilità illimitata dei
crediti fiscali. Va messa a punto la piattaforma di pagamento e scambio. Va
finanziata spesa pubblica netta con assegnazioni stabili e pluriennali, fino a
un massimo di 100 miliardi all’anno circa.
Questa è la soluzione
della crisi economica, non gli inadeguati, quando non vessatori, programmi UE.