Uno scambio di
idee con Biagio Bossone mi ha spinto a mettere a fuoco alcune considerazioni in
merito a questo articolo di Antonio Fatas. Articolo, peraltro, che riprende
temi sviluppati dallo stesso Fatas in un precedente lavoro, elaborato in
collaborazione con Larry Summers.
Fatas e Summers
argomentano in termini molto convincenti che la reazione prociclica alla crisi
dell’Eurozona – in particolare l’austerità attuata da vari paesi, soprattutto
tra il 2010 e il 2014 – ha generato un processo di “aspettative
autorealizzantesi”. L’errata valutazione dei moltiplicatori fiscali ha condotto
ad azioni di consolidamento che hanno abbattuto il PIL molto più del previsto.
A sua volta, l’andamento negativo delle economie ha spinto a rivedere al ribasso
le stime in merito al PIL potenziale e ai suoi tassi di crescita.
Si è generato in
effetti un circolo vizioso in cui l’austerità abbatteva il PIL, la mancanza di
crescita creava dubbi sul potenziale di sviluppo delle economie, e la revisione
al ribasso del PIL potenziale veniva addotta come giustificazione del rifiuto
di abbandonare le politiche di austerità (perché, si sosteneva, gli spazi di
recupero, in altri termini la differenza tra PIL effettivo e PIL potenziale,
non erano poi così elevati).
Non si tratta,
in effetti, solo di psicologia. Il pessimo andamento dell’economia, in
particolare (soprattutto in Italia) tra metà 2011 e inizio 2014, ha prodotto
caduta dei redditi, fallimenti aziendali, riduzione della propensione a
investire, contrazione del credito bancario. Tutto questo crea non solo disoccupazione
e sottoutilizzo delle risorse produttive, ma anche un abbassamento del
potenziale economico del paese, dovuto in prima battuta e principalmente al
calo degli investimenti.
Premesso che si
tratta di ulteriori conferme in merito a quanto siano state scellerate le
politiche intraprese in quel periodo, il dubbio che si pone oggi è il seguente:
se il potenziale produttivo è inferiore a quanto sarebbe altrimenti stato,
attuare politiche espansive della domanda non rischia di essere meno efficace
di quanto ci si attende – appunto perché gli spazi di recupero sono meno ampi
del previsto, a causa della diminuzione del potenziale ?
Una prima
considerazione in merito è che il potenziale a breve termine è una cosa, quello
a medio-lungo termine è un’altra. Le aziende hanno a disposizione un’enorme
riserva di manodopera inattiva o sottoutilizzata, che può rientrare velocemente
in azione se la domanda riparte. La capacità impiantistica invece può essersi
in una certa misura contratta, ma ripristinarla non è difficile (anche se è
meno immediato) quando i livelli di attività tornano a crescere e (di
conseguenza) le aziende riprendono a investire.
Esempio pratico:
un’azienda aveva sei linee produttive in un capannone e ne ha disattivate due
perché la domanda si è abbassata. Quanto è difficile riportarle a sei ? è solo
questione di comprarle e di metterle in funzione. Non lo fai in pochi mesi non
perché sia impossibile, ma perché vuoi prima verificare che il recupero di
domanda sia permanente. Ma entro un paio d’anni, se la tendenza prosegue,
senz’altro sì. E gli investimenti sono un ulteriore fattore di accelerazione
della ripresa.
In altri
termini, una depressione economica che dura un anno termina con un forte e
rapido rimbalzo, una depressione che è durata dieci anni, invece, con un
recupero più graduale. Se viene ripristinato un adeguato livello di domanda,
l’Italia è in grado di generare crescite del PIL non, evidentemente, del 7% o
del 10%, ma sicuramente superiori al 3% annuo per tre o quattro anni in fila. E
questi ultimi risultati sono infatti quelli che riteniamo raggiungibili con il progetto Moneta Fiscale.
La crisi del
2008 e le catastrofiche politiche euroausteriche hanno sicuramente ridotto, in
questi anni, il potenziale di crescita del PIL italiano. Ma questo non
significa che non esista, oggi, un enorme output
gap, cioè una fortissima differenza tra PIL effettivo e PIL potenziale.
A valori
costanti 2017, il PIL reale è sceso da 1.816 miliardi nel 2007 a 1.716 nel
2017. Ipotizzando che il livello del 2007 (ultimo anno precrisi) esprimesse la
piena capacità dell’economia italiana, il PIL potenziale del 2017 sarebbe
arrivato a 2.107 crescendo dell’1,5% annuo (stima che ai tempi era ritenuta
ragionevole, e anzi cautelativa). Gli avvenimenti di questa decade hanno
sicuramente ridotto il trend di
sviluppo potenziale: ma anche stimandolo allo 0,5% (un punto annuo in meno) si
arriva, nel 2017, a 1.909.
Gli ordini di
grandezza, in sintesi, sono i seguenti: la crisi e le politiche procicliche
“prescritte” dalla UE hanno tagliato il potenziale italiano di un paio di
centinaia di miliardi, ma ciò nonostante il PIL reale è comunque un altro paio di centinaia al di sotto del potenziale
stesso.
Un’indicazione
in merito alla plausibilità di queste stime la fornisce il diverso trend delle esportazioni reali italiane rispetto al PIL: +8,7% le prime nel
2007-2017, -5,5% le seconde. Sono circa quattordici punti di differenza, che
corrisponde a un ordine di grandezza grosso modo di 240 miliardi. Questo è il
maggior PIL che l’Italia genererebbe se la sua domanda interna avesse seguito il trend della produzione rivolta
all’estero, cioè ai mercati dove la domanda non è stata artificialmente
compressa dagli eventi del 2011-2014.
Iniettando la
domanda mancante nell’economia italiana, i margini di recupero, nonostante i
danni inflitti al tessuto produttivo dalle catastrofiche azioni “europrescritte”,
sono enormi. Questa è la direzione lungo la quale procedere. E la Moneta
Fiscale è lo strumento da adottare.