Negli ultimi quindici
anni, dalla crisi finanziaria del 2008 in poi, l’Italia si è fortemente
impoverita. Gli individui in situazione di povertà assoluta erano stimati dall’ISTAT,
nel 2007, in meno di due milioni; oggi si aggirano intorno ai sei.
Naturalmente abbiamo
avuto una serie di eventi esogeni che hanno innescato peggioramenti del
contesto economico internazionale e di conseguenza anche italiano. La crisi
finanziaria mondiale del 2008, la crisi dei debiti sovrani europei del 2010-2012,
il Covid nel 2019-2020. Ma il mondo è sempre stato un posto complicato e crisi paragonabili
per complessità e intensità – gli oil shocks del 1973 e del 1979, la
rottura dello SME nel 1992, gli attentati al
World Trade Center nel 2001 – non avevano avuto nessun impatto paragonabile
sulla situazione economica di larghe fasce della nostra popolazione.
Gli eventi esterni interferiscono
con lo sviluppo economico delle nazioni, ma in passato l’Italia aveva sempre
dimostrato la capacità di superarli e di riprendere un percorso di crescita.
In questi ultimi lustri,
no. Cos’è cambiato ?
E’ cambiato che dall’introduzione
dell’euro in poi, la gestione dell’economia italiana è dominata dall’allucinazione
collettiva di credere che il debito pubblico rappresenti un fattore di povertà
del paese e che sia quindi necessario fare di tutto per ridurlo, in proporzione
al PIL se non addirittura in valori assoluti.
Questa allucinazione non
è, beninteso, diffusa solo in Italia, e in effetti non nasce con l’euro. Ma per
un paese che emette e gestisce la propria moneta, non rappresenta un vincolo insuperabile
quando si tratta di generare i deficit pubblici che sono necessari ad assicurare uno sviluppo armonico dell’economia. Il
divorzio Tesoro – Bankitalia del 1981, cioè il venir meno dell’impegno dell’istituto
di emissione a sottoscrivere l’eventuale inoptato in sede di collocamento dei
titoli di Stato, aveva in una certa misura creato un vincolo del genere, ma fino
a un certo punto. Bankitalia non era formalmente impegnata, ma non era
credibile, e infatti non è accaduto, che il rifinanziamento del debito pubblico
in lire non trovasse una copertura, in caso di necessità, da parte dell’istituto
di emissione.
La conversione del debito
pubblico in moneta straniera, in euro, ha dato una sostanza molto ma molto più
forte al vincolo esterno. Da qui sono nate le scellerate politiche di austerità
imposte al paese durante la crisi dei debiti sovrani, nonostante l’economia
fosse – qui come altrove – convalescente dopo la crisi mondiale del 2008. Da
qui sono nati anni di compressione dei deficit pubblici sotto il 3% nonostante
l’inflazione non fosse minimamente un problema, anzi lo fosse casomai (a
giudizio della stessa BCE) per il suo livello troppo basso, non troppo alto.
Il vincolo esterno e la delirante
idea che il debito pubblico sia un impoverimento del paese – mentre è un
impiego della ricchezza finanziaria che i deficit pubblici mettono a
disposizione del settore privato – hanno compresso redditi e risparmio. Hanno
generato disoccupazione e sottoccupazione. Hanno prodotto la crisi della
natalità e la fuga dal paese di centinaia di migliaia di giovani brillanti e
preparati.
La mistificazione del
ruolo di deficit e debito pubblico è all’origine della povertà del paese.
Giuseppe Donadi: sempre lucide e puntuali nonché inconfutabili su basi probatorie le sue analisi. Continui a pubblicare e non si scoraggi anche se rimaniamo una minoranza. Arriverà il redde rationem prima o poi, ne sono certo.
RispondiEliminaIn proposito consiglio vivamente un libro di Luciano Barra Caracciolo "Euro e (o?) democrazia costituzionale".
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