sabato 24 febbraio 2018

Padoan e la doppia circolazione monetaria

Curiosa uscita del ministro dell’economia Pier Carlo Padoan, un paio di giorni fa a Siena. Commentando la proposta Minibot di Claudio Borghi della Lega, ha dichiarato che si tratterebbe di “un’ipotesi di circolazione monetaria parallela e l’esperienza storica ci dice che, in questi casi, un paese che adotta la doppia circolazione monetaria peggiora drasticamente le proprie finanze pubbliche, la possibilità di crescita e stabilizzazione”.

Se non altro, Padoan non si è esposto a figure barbine dichiarando che gli strumenti fiscali paralleli – quali sono i Minibot, così come i CCF - sono illegali, o che sono debito pubblico aggiuntivo (riguardo a quest’ultimo punto, nell’arrampicata sugli specchi senza ventose si è invece cimentata, ahilei, Bankitalia).

Resta il fatto che la dichiarazione di Padoan è priva di qualsiasi fondatezza economica. Certamente, un paese può effettuare una politica economica sbagliata, inflazionando all’eccesso la propria economia o, al contrario, facendo venir meno la circolazione di potere d’acquisto necessaria per ottenere adeguati livelli di occupazione.

Ma politiche macroeconomiche scorrette non sono un problema di singola o di doppia circolazione, bensì di ben precise scelte politiche.

L’eurosistema oggi è impostato sulla base di un sistema di vincoli che impedisce a vari paesi, e in particolare all’Italia, di uscire da una gravissima situazione di depressione della domanda che dura ormai da dieci anni.

Con il Fiscal Compact, l’Italia ha assunto l’impegno a bloccare la crescita del debito pubblico da rimborsare in euro. E del resto è assolutamente auspicabile che quel debito smetta di incrementarsi, perché non essendo il nostro paese emittente della moneta di denominazione, il debito da rimborsare in euro comporta un rischio molto grave.

Ma estremamente necessario, dall’altro lato, è anche immettere potere d’acquisto nell’economia. Se non si può / vuole farlo emettendo euro, o debito da rimborsare in euro, la soluzione logica e coerente è proprio introdurre uno strumento nazionale su cui l’Italia non potrà mai essere costretta al default. I Minibot hanno questa caratteristica, come l’hanno i CCF. La via adeguata da percorrere richiede appunto strumenti di questo tipo – che possono anche essere combinati e rafforzarsi vicendevolmente.

Ogni tanto si legge che lo strumento fiscale parallelo potrebbe essere interpretato come un ponte verso la rottura dell’euro. Ma se la preoccupazione di Padoan è questa, il ministro dovrebbe anche avere in mente che i rischi di rottura sono già oggi assolutamente presenti.

Anzi: le proposte di riforma della governance dell’Eurosistema aumentano – a giudizio di due europeisti convinti come Marcello Messori e Stefano Micossi, e di molti altri – il rischio di “ridenominazione”. Di rottura dell’euro, in altri termini. E un Weidmann alla guida della BCE – evento il cui verificarsi, a novembre 2019, è molto probabile – lascia aperti molti dubbi in merito alla conferma del “whatever it takes” di Draghi.

Padoan, e in generale il governo in carica, su questi temi – di enorme criticità – si fanno notare per il loro fragoroso silenzio.

Il sistema è instabile oggi. CCF e/o Minibot non sono “attivatori di instabilità”. Sono proposte che con grande senso di responsabilità vengono messe sul tavolo per risolvere le gravissime disfunzioni dell’eurosistema odierno. O per agevolare la transizione se alla rottura si arrivasse in conseguenze di decisioni prese fuori dal nostro paese.


giovedì 22 febbraio 2018

La razionalità inconscia dei mercati finanziari


Dice il mio amico e collega Andrea Angelelli, dopo aver letto questo post: “io per la verità non vedo operatori finanziari che ragionano come spieghi tu, non hanno in mente questi trend storici, queste medie di lungo termine”.

Vero, salvo rare eccezioni è così. Gli operatori parlano di mille cose – geopolitica, elezioni, risultati aziendali del prossimo trimestre, analisi tecnica (perfino…) – ma mai (beh mai è un'esagerazione: diciamo molto più raramente) di tendenze pluriennali.

Questo, tuttavia, non vuol dire che il mercato, nel suo complesso, non si orienti in base a quelle. Anzi.

Il comportamento collettivo del mercato si orienta in una certa direzione, senza necessità che gli operatori conoscano consciamente ed esplicitamente le linee di tendenza dei fondamentali economici.

Analogamente, se avete in mano una matita e la lasciate cadere, la matita si dirige verso terra. Non perché sappia che esiste la legge di gravità, né tanto meno perché conosca il valore della costante di Newton.

La matita non lo sa, ma la gravità esiste. Ed esistono anche i fondamentali economici. Il mercato se ne può discostare, ma solo temporaneamente. L’effetto di attrazione verso i fondamentali a un certo punto riprende il sopravvento.

E riprende il sopravvento anche se una grandissima parte, forse la maggioranza, degli operatori di mercato ha una conoscenza solo vaga e approssimativa dei fondamentali economici, o comunque non prende (non sembra prendere…) le sue decisioni quotidiane in base ad essi.


martedì 20 febbraio 2018

Spesa pubblica e PIL


Leggo su twitter - “Possibile che nel 2018 non ci sia ancora risposta unanime alla domanda: la spesa pubblica si somma o si sottrae dal PIL ?”

In realtà la risposta c’è, semplicemente è un po’ più articolata rispetto al semplice “si somma” o “si sottrae”.

Sul piano contabile, il PIL è la somma di consumi privati, investimenti privati, spesa pubblica, ed esportazioni nette (esportazioni meno importazioni).

Non c’è quindi alcun dubbio che a parità di ogni altra condizione, l’incremento di spesa pubblica incrementi anche il PIL.

Chi afferma che non è (necessariamente) così, dice qualcosa di sensato solo se fa riferimento agli effetti indotti.

Esiste un limite fisico di capacità del sistema economico, in un determinato momento storico, che deriva dalle persone e dagli impianti che possono essere messe al lavoro per produrre beni e servizi, e dalla qualità dell’apparato produttivo (qualità dell’organizzazione, della tecnologia, dei prodotti).

Il limite nel tempo si sposta, per effetto di innovazioni tecnologiche, miglioramenti organizzativi, investimenti che incrementano la base produttiva del paese (al netto del deterioramento fisico e dell’obsolescenza che invece la diminuiscono), variazioni demografiche. Ma in un determinato momento, il limite di capacità esiste.

Allora, se la capacità produttiva del sistema economico è sottoutilizzata, e la spesa pubblica ne incrementa l’utilizzo, la spesa pubblica incrementa il PIL.

Se invece le risorse produttive (risorse fisiche) sono già pienamente utilizzate, la spesa pubblica avrà l’effetto di riallocarle. Ci sarà meno produzione di beni e servizi da parte di operatori privati, e più produzione da parte del settore pubblico.

Poi ci sono valutazioni più complesse e incerte sulle conseguenze successive delle variazioni di spesa pubblica: a seconda di come avvengono le riallocazioni tra un tipo di spesa e un altro, ci possono essere effetti indotti, positivi o negativi, sulla capacità produttiva futura del sistema economico.

Ma se la domanda “la spesa pubblica si somma o si sottrae dal PIL ?” si riferisce all’impatto immediato, la risposta è chiara. Se mette al lavoro risorse fisiche che altrimenti restano inattive, incrementa il PIL. Altrimenti di per sé è neutrale.

Quindi l’effetto non è mai di decrementare il PIL. Mentre è di incrementarlo quando esiste un significativo sottoutilizzo delle risorse fisiche (forza lavoro e impianti). E oggi in Italia ci troviamo, senza alcun dubbio, in quest'ultima situazione.


venerdì 16 febbraio 2018

Anche gli europeisti non credono alla riforma dell'Eurosistema...


Dopo il decollo della nuova Grosse Koalition tedesca (evento per la verità non sicurissimo, vedremo il risultato del referendum tra gli attivisti SPD – che sarà noto il 4 marzo, stesso giorno delle elezioni italiane…) si dovrebbe mettere in moto un processo di riforma della governance economica eurozonica.

Ufficiosamente, si afferma da tempo che la riforma dovrebbe seguire le linee di un documento predisposto da 14 economisti francesi e tedeschi, che collaborano con il CEPR (Center for Economic Policy Research).

La mia opinione, tuttavia, è che ancora una volta la proposta sia completamente fuori strada. E per una volta mi trovo in sintonia con commentatori decisamente pro-UE come Marcello Messori e Stefano Micossi. La loro posizione è ben illustrata da Wolfgang Munchau (vedi questo link, il secondo in data 14.2.2018) :

“La crisi dell’Eurozona è stata prodotta dalla percezione del mercato che esisteva un rischio di ridenominazione – cioè che alcuni stati membri non sarebbero stati in grado di provvedere al servizio del proprio debito in euro e avrebbero quindi deciso di farlo in una moneta di nuova emissione. La loro (di Messori e Micossi) principale critica al documento CEPR è che non fa nulla per affrontare il rischio di ridenominazione, in effetti formula proposte che lo peggiorano. In merito all’unione bancaria, il documento CEPR prende spunto dall’idea tedesca di ridurre le quote di possesso di debito pubblico delle banche, che in una crisi possono agire da stabilizzatore. Lo stabilizzatore viene rimosso, accrescendo il potenziale di instabilità finanziaria. Il documento CEPR propone che l’ESM (il fondo salvastati) entri in processi di risoluzione bancaria o di assicurazione dei depositi solo quando le risorse nazionali sono esaurite, e con rigorose condizionalità di policy. Recepisce l’idea di insolvenze sovrane all’interno dell’Eurozona. E le regole fiscali continuano a rendere più difficile la stabilizzazione anticiclica. Messori e Micossi affermano quindi che il mercato non potrà mancare di accorgersi delle implicazioni di tutto ciò per la stabilità di banche e governi in vari paesi dell’Eurozona, e agirà di conseguenza. L’unico fattore di impedimento – che permette al documento CEPR di ignorare le implicazioni finanziarie destabilizzanti della sua proposta – è il “whatever it takes” di Mario Draghi, che potrebbe non proseguire oltre il 2019”.

Munchau, ricordo, è anch’egli un europeista, ma possiamo definirlo un europeista disilluso: vorrebbe che il processo di integrazione politica facesse passi in avanti, ma si rende conto che non sta accadendo – o non a condizioni che giustifichino di perseguirlo. C’è da riflettere ulteriormente sul suo commento finale:

“Dal punto di vista italiano, il documento CEPR appare o una totale capitolazione francese alle richieste tedesche, oppure un allineamento della Francia alla Germania basato sul presupposto che il rischio di ridenominazione comunque per la Francia non vale. E in questo potrebbero avere ragione – sappiamo dalla caduta dello SME nel 1992 che la Bundesbank ha voluto intervenire sul mercato per proteggere la Francia, non l’Italia o il Regno Unito. Oggi la volontà tedesca di intervenire a favore dell’Italia appare casomai ancora inferiore. Gli economisti francesi giudicano che il problema italiano non si applichi al loro paese ? o si stanno illudendo che la Francia possa essere la Germania ?”

Fin qui Munchau. Ma c’è una domanda da porsi, ancora più rilevante per l’Italia in particolare, e per la stabilità del sistema in generale. Se è vero, come sospetta Munchau, che la futura leadership della BCE (Weidmann o chi per esso) lascerà cadere il “whatever it takes”, la fuoriuscita dell’Italia dall’Eurozona è un evento molto, ma molto più probabile di quanto i mercati credano oggi. E la data plausibile è fine 2019. Un futuro tutt’altro che distante.

Tirando le somme: (1) il documento CEPR è una proposta che l’Italia non può neanche immaginare di prendere in considerazione, men che meno di considerare accettabile (2) la strada alternativa che l’Italia può proporre – ma anche percorrere autonomamente – è sempre la stessa: strumento fiscale a base nazionale in affiancamento all’euro (3) se questo sarà poi un assetto permanente dell’Italia nell’ambito dell’Eurozona, o lo scivolo verso l’Italexit, dipenderà essenzialmente da fattori politici. Ma è indispensabile essere pronti.


lunedì 12 febbraio 2018

Quel cartalista di Adam Smith


A prince, who should enact that a certain proportion of his taxes should be paid in a paper money of a certain kind, might thereby give a certain value to this paper money”.

Adam Smith, “An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations”, 1776.


Qui si rende necessaria una traduzione molto accurata. Per fortuna, Biagio Bossone (che ha segnalato la citazione) è un profondo conoscitore della lingua inglese.


Un sovrano che promulgasse l’obbligo di pagare una determinata proporzione delle tasse in una tipologia di moneta cartacea, conferirebbe in tal modo un valore certo a quella moneta”.


Altrimenti detto: Adam Smith approverebbe in pieno i Certificati di Credito Fiscale


sabato 10 febbraio 2018

Scende la borsa ma che fa…

Il ribasso dei mercati azionari alimenta supposizioni, commenti e tentativi di spiegazione. Ogni volta che la borsa entra in un periodo di alta volatilità (e la volatilità di solito è verso il basso, i rialzi tendono a essere graduali e costanti) è inevitabile che ci si chieda (1) perché succede (2) quanto durerà (3) se si aprono opportunità per gli investitori o al contrario è meglio affrettarsi a uscire (4) se ci sono da temere conseguenze per l’economia reale.

Sul “perché succede”, se ne leggono di tutti i colori. Possibile ripartenza dell’inflazione sia in USA che in Europa (ma nei dati ancora non si vede). Possibile salita più rapida del previsto dei tassi d’interesse (ma la Fed, nelle dichiarazioni dei suoi esponenti, rimane gradualista, e la BCE ha tuttora in corso – senza una previsione affidabile su quando terminerà – il Quantitative Easing).

Poi ci sono altre incertezze, di cui magari si parla meno ma che non sono affatto da escludere. Hard Brexit (e sì, non è per niente sicuro che tra Regno Unito e UE si trovi un accordo ragionevole). Instabilità politica (e no, non è ancora certo che in Germania la Grosse Koalition si faccia; per non parlare dei pochissimo prevedibili scenari italiani post voto del 4 marzo). Eurosistema che rimane fortemente disfunzionale (e no, le proposte di riforma franco-tedesche NON risolveranno nulla, al massimo si può sperare in un nulla di fatto - o in "riforme" puramente cosmetiche, che perlomeno non facciano danni). Tensioni commerciali tra USA e UE che potrebbero sfociare in guerre valutarie, applicazione di dazi o altro ancora.

Tutto questo è, o può rivelarsi, vero. Ma le incertezze sono, in realtà, sempre esistite. Il mondo non è diventato un posto più agitato del solito adesso (nel senso che lo era altrettanto anche prima).

Molto più banalmente: i punti di svolta del mercato sono imprevedibili. Ma diventano più probabili (a) quando i valori sono alti, nonché (b) in seguito a una lunga fase ascendente dei prezzi, senza correzioni.

Riguardo al mercato azionario di maggiore dimensione – gli USA - e prendendo a riferimento l’indice più liquido e significativo, l’SP500, la condizione (b) si è senza dubbio verificata. Contrariamente alle previsioni di allora, l’elezione di Trump ha innescato una lunga fase rialzista. Tra la chiusura dell’8.11.2016 e il massimo del 26.1.2018, l’indice è passato da 2.140 a 2.873: un incremento del 34% in 15 mesi scarsi. Di per sé non è un fatto inusitato. Ma colpisce (ed è un’anomalia) che si sia trattato di un rialzo pressoché ininterrotto, senza mai storni o correzioni (rispetto al massimo precedente) superiori al 3%.

Riguardo alla condizione (a), la domanda da porsi è: i valori massimi – o quelli attuali, dopo la correzione degli ultimi giorni – erano / sono sopravvalutati, o no ?

Da marzo 2009 in poi, i mercati azionari sono fortemente saliti: ci sono stati aggiustamenti, rientrati però in tempi di solito rapidi, generalmente in poche settimane. Ma i livelli di allora (in particolare il livello da cui è partito il recupero, 666) erano decisamente a buon mercato, in quanto riflettevano il crollo prodotto dalla crisi finanziaria internazionale del 2007-8 e in particolare dal fallimento Lehman.

Le correzioni venivano quindi riassorbite abbastanza prontamente perché riconducevano i valori azionari su soglie molto attraenti per i compratori.

Dopo quasi nove anni di incrementi, la situazione oggi è diversa.

Un metodo che trovo particolarmente affidabile per stimare i livelli “equilibrati” del mercato azionario si basa sull’analisi di serie storiche di lunga durata. Nel suo “Stocks for the Long Run”, Jeremy Siegel è arrivato a determinare che il rendimento reale (inclusi i dividendi e al netto dell’inflazione) del mercato azionario converge, su archi di tempo pluridecennali, intorno al 6,5% - 7% annuo.

Sulla base di questa constatazione, è possibile - utilizzando dati riferiti a un arco temporale il più lungo possibile - determinare una curva di crescita per il valore “corretto” (“Fair Value”) del mercato azionario. “Corretto” nel senso che i valori effettivi oscillano nel tempo, al disopra e al disotto, ma le fasi di sopravvalutazione e di sottovalutazione (tenuto conto sia della durata che dell’intensità) si equivalgono.

Il metodo implica delle approssimazioni perché si ottengono risultati un po’ differenti a seconda della lunghezza del periodo esaminato. Il risultato, comunque, è un valore (riferito alla data odierna) di 2.400, più o meno 100 punti circa. Quindi un intervallo ragionevolmente stimabile in 2.300 – 2.500.

Ieri sera Wall Street ha chiuso a 2.620. In altri termini, il mercato non è diventato sottovalutato. E’ meno alto di prima, ma con ogni probabilità ancora sopra il Fair Value.

Le previsioni di breve termine, riferite al mercato azionario, sono così aleatorie che è scarsamente utile dedicarci troppo tempo. Ma il fattore che negli anni scorsi produceva rapidi rimbalzi dopo uno storno (valutazioni scese a livelli attraenti) in questo momento non sussiste.

Se la flessione di borsa non verrà rapidamente recuperata, vanno messe in conto ricadute sull’economia reale ? Non è detto. Ai valori attuali, il mercato è comunque un 20% circa più alto rispetto a un anno fa. Non è che si sia creata di colpo una vasta platea di investitori impoveriti: quasi tutti, comunque, hanno ampiamente guadagnato. E del resto, per citare Paul Samuelson, “il mercato azionario ha previsto nove delle ultime cinque recessioni…”.

Ma ricordiamoci anche, banalmente, che le recessioni prima o poi arrivano. Nessuna fase espansiva dell’economia mondiale dura senza interruzioni. E il problema, nel caso dell’Italia, è che non si è visto nulla che possa realmente essere definito una ripresa.

La fase congiunturale negativa dell’economia mondiale può non essere imminente, ma prima o poi arriverà. Il che sottolinea una volta di più come per l’Italia sia VITALE, INDISPENSABILE svincolarsi dall’attuale eurosistema. Chi lo nega (se in buona fede) dimostra un colossale, inaccettabile livello di incompetenza.

Dobbiamo recuperare output gap, crisi di domanda, disoccupazione e sottoccupazione. Riportare la nostra economia a corrette condizioni di funzionamento. Uscire da un sistema perverso, che ha generato danni enormi imponendo azioni procicliche nel momento più sbagliato.



giovedì 8 febbraio 2018

"Sovranità monetaria e sviluppo economico": il video

Convegno organizzato lo scorso sabato 3 febbraio a Bologna, da Fabio Conditi coadiuvato da Claudio Zanasi.

Interventi di Giovanni Zibordi, Marco Mori, Giacomo Bracci, Nino Galloni nonché... del sottoscritto.

Io parlo all'incirca da 2.16.30 a 2.35.30. Ma è molto interessante anche tutto il resto, ovviamente...



martedì 6 febbraio 2018

Contabilizzare l'emissione di moneta


Un articolo di Biagio Bossone e Massimo Costa, recentemente apparso su Economia & Politica, ha suscitato vivaci discussioni, coinvolgendo parecchi amici tra cui Fabrizio Vanzan, Nicoletta Forcheri, Fabio Conditi, Francesco Chini e altri.

Su richiesta di Fabrizio, dico volentieri la mia su un tema che non manca mai di animare il dibattito: è appropriata la contabilizzazione delle emissioni monetarie da parte dalla Banca Centrale ? è giusto indicarle come passività dell’emittente ?

La mia opinione è che una moneta fiat emessa dallo Stato – o da parte di una Banca Centrale che agisce come agente statale – non può essere considerata una passività, in nessun senso.

L’emittente non ha impegni di rimborso. Naturalmente, un’emissione che produca effetti inflazionistici (cosa che NON avviene nell'attuale condizione di domanda depressa, ma questo è un altro tema) non arricchisce la collettività, perché non innesca maggiore produzione di beni e servizi reali. Arricchisce però l’emittente… a danno dei cittadini. A maggior ragione, non è sensato iscriverla al passivo dell’emittente.

Mettiamola così: se Marco Cattaneo ha il potere di emettere moneta NON C’E’ DUBBIO che Marco Cattaneo non incrementa il suo passivo, BENSI’ IL SUO ATTIVO (e quindi il suo patrimonio). E a fronte di questo, se non si verifica incremento di PIL reale, si impoverisce la collettività: beni e servizi reali sono gli stessi ma Marco Cattaneo si appropria di un potere d’acquisto corrispondente all’x% del loro valore. Marco Cattaneo è più ricco, e tutti gli altri sono più poveri.

Naturalmente questo trasferimento di valore a favore dell’emittente non si verifica se la moneta emessa viene introdotta nell’economia reale, non a titolo di finanziamento ma di incremento della spesa pubblica al netto delle tasse. In questo caso, l’emittente della moneta se ne spossessa e non aumenta il suo patrimonio. Ma questo è un altro discorso.

Beninteso, parlo di moneta fiat prodotta dall’istituto di emissione. Una banca commerciale quando eroga finanziamenti incrementa IN CONTEMPORANEA attivi e depositi (e i depositi sono passività). Non si verifica alcun arricchimento all’atto dell’erogazione.

Detto ciò, tutta questa dissertazione è la conseguenza di un assetto istituzionale che non ha necessità di esistere. Perché l’emittente della moneta deve essere una Banca Centrale, o comunque un’entità dotata di uno stato patrimoniale, con la conseguenza che ci si debba preoccupare del trattamento contabile utilizzato per le operazioni che effettua ?



sabato 3 febbraio 2018

Krugman sul valore fiscale della moneta

Grosso modo, le critiche al progetto CCF / Moneta Fiscale si possono raggruppare in quattro categorie principali.

La prima consiste nel negare che l’Italia stia attraversando una depressione dovuta all’insufficiente livello di potere d’acquisto, e quindi di domanda interna: tesi facilmente smentita dal confronto dei dati macroeconomici pre- e post-crisi, e dall’enorme differenza tra trend delle esportazioni e trend delle vendite sul mercato italiano.

La seconda, nel non ammettere che in periodi di domanda depressa si ottiene un forte recupero di produzione e occupazione immettendo potere d’acquisto nell’economia – al contrario dei periodi in cui l’economia viaggia a una corretta velocità di crociera e la spinta sulla domanda, di conseguenza, crea inflazione, non maggior PIL. Il cosiddetto “moltiplicatore keynesiano” è alto nel primo caso e basso del secondo. Le analisi che tentano di mostrare l’inesistenza (o l’insufficiente livello) del moltiplicatore invariabilmente omettono di tener conto nel modo appropriato della differenza tra un’economia depressa e un’economia in condizioni normali.

La terza è l’affermazione che CCF / MF dovrebbero essere considerati debito al momento della loro emissione: chi ha studiato trattati, regolamenti e principi contabili internazionali sa che si tratta di un'asserzione del tutto infondata.

Infine, la quarta: alcuni commentatori di ispirazione keynesiana (o quantomeno sedicenti tali) esprimono il sospetto che CCF e MF semplicemente non verrebbero accettati, che non gli verrebbe riconosciuto valore dagli agenti economici (cittadini, imprese e investitori) perché “sono una cosa strana” o “non sono soldi veri” o, ancora, perché “ci puoi pagare le tasse ma nessuno è obbligato a usarli”.

Di tutte, quest’ultima è forse la critica più sorprendente. Un titolo che permette di ridurre pagamenti altrimenti dovuti per tasse, imposte, contributi o qualsiasi altra forma di impegno finanziario nei confronti dello stato emittente ha valore: è così intuitivo che faccio fatica a capire perché debba essere spiegato.

Senza scomodare Knapp e il cartalismo, o la Modern Monetary Theory, prendiamo quanto afferma un economista keynesiano mainstream, Paul Krugman (in un recente articolo che spiega come il bitcoin, essendo un’attività finanziaria priva di qualsiasi sostegno di valore, sia una bolla destinata a scoppiare).

Although the modern dollar is a fiat currency, not backed by any other asset, like gold, its value is ultimately backed by the fact that the U.S. government will accept it, in fact demands it, in payment for taxes”.

Traduco (non perché dubito che sappiate leggere l’inglese, ma perché traducendo metto in atto un esercizio di riflessione sul testo: esercizio sempre utile…):

Benché il dollaro moderno sia una moneta fiat, non convertibile in nessun’altra attività, quale l’oro, il suo valore è in definitiva supportato dal fatto che il governo USA lo accetterà, in effetti lo richiederà, in pagamento delle tasse”.

Tutto qui: un’attività finanziaria accettata dallo Stato ha valore. Naturalmente, esiste la possibilità che questo valore si deteriori tramite un processo di inflazione, a sua volta causato da un eccesso di emissione.

Ma riguardo al progetto CCF / MF, questo rischio si presenta solo nel caso in cui non sussista un adeguato rapporto tra incassi lordi della pubblica amministrazione (da un lato) e CCF utilizzabili per onorare i relativi impegni finanziari (dall’altro).

Nel caso della proposta CCF, questo rapporto di copertura è altissimo: gli incassi lordi della pubblica amministrazione italiana sono oggi circa 800 miliardi, i CCF utilizzabili annualmente per conseguire sconti fiscali sono previsti arrivare non oltre, all’incirca, un centinaio (o poco più anche in caso di situazioni congiunturali particolarmente sfavorevoli).


Il valore dei CCF derivante dalla loro utilizzabilità fiscale è, in altri termini, fuori discussione.

giovedì 1 febbraio 2018

Il mercato deve disciplinare la finanza pubblica ? no


C’è un problema molto serio sul piano teorico, e molto grave riguardo alle sue conseguenze pratiche, nell’affermazione che occorre lasciare al mercato la disciplina della spesa pubblica, della tassazione, del deficit e del debito pubblico.

E’ una proposta che può suonare convincente. Che cosa c’è di meglio di affidare a operatori indipendenti la valutazione delle finanze statali ? è il sistema di controllo più efficace per evitare, o quantomeno per mantenere sotto controllo, eccessi e utilizzi impropri dei soldi pubblici, vero ? lo Stato che si gestisce male subisce un’immediata penalizzazione che limita la capacità di politici disonesti, incompetenti e spreconi di fare danni ai propri cittadini, giusto ?

No, non è giusto. Proprio per niente. Per vari motivi.

In primo luogo, perché il presupposto implicito è che il mercato allochi in maniera efficiente le risorse e valuti con correttezza e precisione il merito di credito e/o il rischio di un determinato investimento – sempre e comunque.

Su un arco di tempo lungo, questo è vero. Ma si parla di svariati anni. Sul breve termine, no.

“In the long run, the market is a weighing machine. In the short run, it’s a voting machine” – per citare Benjamin Graham (grande investitore teorico e pratico, nonché maestro di Warren Buffett).

Prendiamo ad esempio il cambio euro – dollaro. Come si determina un valore “corretto” nel lungo termine ? un sistema semplice, e probabilmente affidabile almeno quanto qualsiasi altro, è calcolare la media dei cambi dal momento in cui l’euro è stato introdotto.

Abbiamo a disposizione una serie storica di 19 anni, dal 1999 al 2017. La media generale è poco sopra 1,20 (1,2082 per la precisione).

Andiamo ora a vedere le medie dei singoli anni. La situazione che si presenta è questa:


1999
1,0661
2000
0,9235
2001
0,8960
2002
0,9425
2003
1,1341
2004
1,2441
2005
1,2464
2006
1,2563
2007
1,3704
2008
1,4714
2009
1,3945
2010
1,3274
2011
1,3927
2012
1,2857
2013
1,3285
2014
1,3292
2015
1,1097
2016
1,1066
2017
1,1301


Stimare in 1,20 circa il valore “mediamente corretto” è sensato. Ma è un valore intorno al quale si sono registrate ampie oscillazioni. I primi cinque anni – dal 1999 al 2003 – sotto. Poi undici anni consecutivi sopra. Poi ancora tre anni sotto.

A partire dal 2004 sarebbe stato plausibile affermare che l’euro si era rafforzato troppo, e quindi che era raccomandabile vendere euro e comprare dollari. E questa strategia alla fine si sarebbe anche rivelata corretta. Ma non nell’arco di un mese o di un trimestre. Dopo undici anni…

Per inciso, questo non significa che le sotto- e le sopravvalutazioni possano raggiungere livelli grandi a piacere. Come si vede dalla serie storica, rispetto al plausibile valore di equilibrio di 1,20 circa, le oscillazioni delle medie annue sono state tra 0,90 (nel 2001) e 1,47 (nel 2008). I massimi e minimi assoluti del dollaro rispetto all’euro hanno toccato (per un singolo giorno) rispettivamente 0,82 e 1,60. Le oscillazioni sono quindi state nell’ordine di +/- 30%: poi i valori fondamentali hanno ripreso il sopravvento e si è verificata la mean reversion, il ritorno verso la media.

Lo stesso discorso potrebbe essere fatto per le quotazioni dell’indice di borsa. C’è un trend, e ci sono delle oscillazioni: gli eccessi in un senso o nell’altro rientrano verso il trend, certamente. Ma non necessariamente in periodi di tempo brevi. Anzi, la correzione è un evento sicuro: ma solo se l’orizzonte dell’analisi è pluriennale. E non parliamo di un paio d’anni, ma da dieci in su – se vogliamo avere delle certezze, o quantomeno dei gradi molto elevati di probabilità.

Se poi prendiamo in considerazione attività ancora più volatili e speculative, la tendenza “oscillatoria” dei valori di mercato diventa naturalmente molto più esasperata. Un bitcoin valeva 1.000 dollari un anno fa, 19.000 a dicembre scorso, e meno di 10.000 oggi.

L’implicazione è che prendendo per “razionale e corretto” il comportamento di breve termine del mercato, si finisce con l’agire in modo prociclico – comprando a valori alti e vendendo a valori bassi. La ricetta più sicura per rovinarsi.

Che cosa ha a che vedere tutto questo con la gestione del debito pubblico ?

Molto semplice: anche la valutazione dei titoli di Stato è soggetta a mode, manie speculative e oscillazioni intorno a un trend. Il trend ha un senso, le oscillazioni di breve termine no. Ma se prendo decisioni di politica economica sulla base delle oscillazioni di breve termine, commetto lo stesso errore dell’investitore sopra descritto: agisco in maniera prociclica.

E’ esattamente quanto accaduto con la crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona: si sono “prescritte” a vari paesi azioni di finanza pubblica restrittive (più tasse, tagli di spesa pubblica) perché “il mercato” nella sua “saggezza” e “correttezza” stava richiedendo tassi più alti e abbassava, quindi, il valore dei titoli.

Chi ha seguito queste ricette ha ottenuto soltanto di aggravare drammaticamente una situazione economica che si stava a fatica riprendendo dagli effetti della crisi finanziaria mondiale del 2008. E questo, è doloroso ogni volta constatarlo e ripeterlo, è stato in particolare il caso dell'Italia.

Anche i tassi d’interesse sul debito pubblico possono oscillare per ragioni di breve termine, speculative e infondate. Peggio ancora: nel caso dell’Eurozona, possono scontare (come scontavano nel 2011-2012) un elevato rischio di rottura, con rivalutazione delle monete di alcuni paesi e svalutazione di altre. Tanto è vero che, nonostante una serie di interventi shock sulla finanza pubblica (che all’Italia sono costati tredici trimestri consecutivi di caduta del PIL reale, tra metà 2011 e inizio 2014), i tassi d’interesse sul debito pubblico sono rientrati solo nel momento in cui la BCE ha fornito una garanzia credibile in merito alla sua volontà di intervenire per impedire il break-up dell’euro (il whatever it takes di Draghi, luglio 2012).

Il modo di gran lunga più certo ed efficiente affinché gli stati non si trovino in catastrofiche situazioni di questo genere è proprio quello non di sottoporre i propri meccanismi di finanziamento alla “disciplina di mercato”, ma di sottrarvisi. Perché di questa “disciplina” non ci si può assolutamente fidare come sistema di regolazione e controllo nel breve termine.

Lo Stato del resto, se è emittente di moneta, non ha bisogno del mercato per finanziarsi. Può stamparla e introdurla nell’economia nella misura necessaria – spendendo in eccesso rispetto alla tassazione.

L’eccesso di spesa rispetto alla tassazione rimane in tasca al settore privato sotto forma di risparmio. E lo Stato può offrire un servizio di gestione del risparmio offrendo un impiego sicuro in conti correnti senza rischio, con una remunerazione modesta ma certa: il cosiddetto “debito pubblico” (a cui bisognerebbe, una buona volta, cambiare nome, chiamandolo per esempio “liquidità dei privati presso il ministero dell’economia”…).

Questo significa che i politici devono avere mano totalmente libera nel gestire le politica di spesa e tassazione ? no, devono esistere principi, finalizzati alla piena occupazione e alla stabilità monetaria. Correttamente definiti ed applicati, questi principi definiscono i livelli appropriati di delta tra spesa pubblica e prelievo fiscale.

Ma piena occupazione e stabilità monetaria non significa “compiacere i mercati” e le loro oscillazioni di breve termine.

Tutto ciò è ottenibile se lo Stato emette la propria moneta e se il cosiddetto “debito pubblico” è denominato nella moneta stessa. Nell’Eurozona si è venuta a creare una situazione del tutto differente, e di difficile gestione, perché la potestà di emissione monetaria è stata demandata a un’entità – la BCE – che non risponde a nessuno stato.

Un modo efficiente e rapido per risolvere il problema è fare in modo che ogni stato mantenga in equilibrio, anno per anno, incassi e pagamenti in euro – con la conseguenza che il debito pubblico da rimborsare in euro non aumenti più, neanche di un centesimo (l’obiettivo del Fiscal Compact). Che sotto questa condizione, la BCE garantisca i debiti pubblici (significa, semplicemente, confermare il “whatever it takes”). E che nella misura necessaria, le politiche anticicliche vengano condotte emettendo uno strumento fiscale complementare quale i CCF: un titolo utilizzabile per soddisfare obbligazioni fiscali, senza che lo Stato emittente possa mai essere forzato al default in quanto non c’è impegno al rimborso cash, in euro.