martedì 26 febbraio 2013

CCF o uscita dall’euro ? riflessioni sulla fattibilità politica (e pratica)


Continuo a ricevere commenti, costruttivi e stimolanti, in merito al progetto Certificati di Credito Fiscale. Grazie per i complimenti e anche per le critiche, molto utili per mettere a fuoco le caratteristiche e le implicazioni dell’idea.

Le opinioni sono state in larga maggioranza positive, suddivise però tra chi è convinto (= sono riuscito a convincere…) che i CCF funzionerebbero altrettanto bene quanto l’uscita dell’Italia dall’euro e il ritorno alla moneta nazionale, e chi pensa che siano una strada utile ma “di ripiego” e/o transitoria.

La mia posizione su effetti dei CCF e loro efficacia anche a lungo termine la trovate sintetizzata qui e qui.

In questo post mi propongo invece di esaminare il tema sotto il profilo degli impatti sulla pubblica opinione, che ritengo comunque determinanti per arrivare, concretamente, a uscire dalla “trappola dell'euro” (per dirla alla Badiale & Tringali).

Una prima precisazione, superflua magari per molti (ma non per tutti). Capisco che l’”euroexit” e il ritorno alle monete nazionali e ai cambi flessibili sono un percorso che ci porta a uno scenario conosciuto. Mentre l’idea CCF – appunto perché innovativa – può suscitare una reazione legittima: “caro Cattaneo, non trovo “buchi” nel tuo ragionamento, ma comunque mi fido di più di una scenario già sperimentato”.

Questo è comprensibile. E state sicuri che se ci trovassimo (che so) Alberto Bagnai e io con pieni poteri di decidere, con due pulsanti tra cui ci fosse solo da scegliere quale schiacciare, “uscita dall’euro” o “CCF”, non mi metterei certo a litigare. A me il ritorno alla moneta nazionale, l’uscita dall’euro pura e semplice, va benissimo.

Solo che non funziona così. Ritengo molto difficile arrivare a prendere una o l’altra decisione senza che ci sia un forte sostegno da parte dell’opinione pubblica.

L’affidabilità dei sondaggi può essere opinabile, ma colpisce che questo, pubblicato sul Wall Street Journal e riportato nel blog di Giovanni Zibordi, dia percentuali del 70%-75% a favore della permanenza nell’euro, rilevate in tutti i paesi europei oggi in difficoltà.

Nello stesso tempo, sono convinto che un sondaggio che ponesse una domanda diversa – non “sei favorevole all’uscita” ma “ritieni che l’attuale sistema monetario vada riformato”, darebbe percentuali ben diverse, magari ribaltate – 70% a favore del sì.

Incoerente ? no. Che qualcosa di importante non vada, l’hanno capito in parecchi. Che ritornare a un sistema monetario flessibile sia necessario, penso anche. Ma se dite “usciamo dall’euro” l’unica cosa chiara alla maggior parte degli interlocutori è che i loro soldi vengono trasformati in qualcos’altro. Che vale di meno.

I vantaggi superano di gran lunga gli svantaggi ? io ne sono certissimo, molti tra chi mi legge anche, ma arriveremo mai a convincere la maggioranza dell’opinione pubblica ?

Anche perché un conto è dire “l’exit si PUO’ gestire senza danni collaterali” un altro “sarà SICURAMENTE così perché tutto sarà condotto in modo ottimale”. Fin qui, di tutti i temi e i problemi riguardanti la moneta unica, in modo ottimale non s’è fatto nulla…

Tra l’altro stiamo parlando di un processo che dovrebbe essere attuato nel giro di pochi giorni, idealmente nel corso di un fine settimana, e in un contesto di totale segretezza, per ridurre al minimo i fenomeni di speculazione, corsa agli sportelli bancari eccetera.

Questo è un grosso limite della proposta del Movimento 5 Stelle di sottoporre l’uscita dall’euro a referendum popolare. Proposta che ha due meriti importanti: quella di porre sul tavolo il tema, e quella di rivendicare che ci debba essere una chiara espressione di volontà popolare su argomenti così rilevanti. Ma che non mi sembra applicabile come tale.

Una domanda su cui riflettere è: se nel settembre 1992 si fosse sottoposta a referendum la permanenza italiana nello SME, a che risultato si sarebbe arrivati ? Esisteva, più in generale, un’opinione pubblica favorevole ? o predominavano i timori (infondati, come si è visto poi) di inflazione a due cifre, impennata delle materie prime eccetera ?

A mio parere non esisteva un’opinione pubblica a favore della svalutazione, e neanche una volontà politica. Tanto è vero che si proseguì a sostenere il cambio fino all’esaurimento delle riserve valutarie da parte della Banca d’Italia.

Un sistema di cambi fissi ha infatti, rispetto a un’unione monetaria (scusate l’ironia semi-involontaria) un “vantaggio”: le riserve valutarie prima o poi finiscono. E a quel punto, MA SOLO A QUEL PUNTO, la lira uscì dallo SME. Per tenercela, a comprare lire contro marchi a un valore sopravvalutato avrebbero dovuto provvedere i tedeschi…

Tornando a oggi: l’euroexit per essere attuato deve superare varie resistenze. I problemi operativi, che non sono insormontabili ma neanche banali. L’ostilità di BCE e Unione Europea, che può essere un vincolo o magari no. I paesi che subiscono di conseguenza una rivalutazione (Germania in primis) – idem. I mercati finanziari internazionali – stesso discorso.

Ma anche e soprattutto, la formazione di un forte consenso nella pubblica opinione, e quindi della necessaria volontà politica.

Dall’altro lato, abbiamo il progetto Certificati di Credito Fiscale. Che può essere discusso e sviscerato in tutti i suoi elementi, alla luce del sole, prima di attuarlo. Che non pesta i piedi ai partner europei. Che lascia in essere l’euro: quindi nessun problema di mismatch di attivi e passivi per banche e aziende, di saldi Target2 dei quali non si capisce che cosa succede (si vaporizzano ?). Che non tocca la posizione dei detentori di attività finanziarie italiane denominate in euro: creditori internazionali, ma anche cittadini italiani.
 
Mi sembrano elementi che devono spingere a valutarlo molto seriamente. Anche perché il progetto CCF ha, certo, grossi elementi di novità, e quindi non centreremo magari subito le modalità di applicazione perfette (ad esempio la ripartizione tra ammontare destinato a sgravare la fiscalità dei dipendenti e quello destinato alle aziende, se dargli contenuti di progressività, e varie altre).  Ma è uno schema adattabile e migliorabile nel tempo. E dà grossi benefici, invertendo la tendenza declinante e depressiva dell’economia e producendo una forte ripresa, fin da subito.

sabato 23 febbraio 2013

Perchè (certi) politici non cambiano mai idea

Forse non è niente di particolarmente originale ma… non guasta riflettere sui motivi per i quali i politici non ammettono i propri errori, a dispetto delle smentite che la realtà quotidiana fornisce. Dal blog di Paul Krugman, questo commento (oggi) in merito al Cancelliere dello Scacchiere (il Ministro delle Finanze) inglese George Osborne, e ai pessimi risultati delle sue politiche di austerità.

“Suppose George Osborne were to admit that austerity isn’t working. What, then, would be left of his claim to be qualified to do, well, anything? He has to stick it out until something turns up, no matter how many lives it destroys… The point is that a large part of the reason we’re locked into such a mess is careerism. And yes, that’s quite vile, if you think about it: politicians and pundits alike letting the world burn — probably unconsciously, but still — because their personal position would be hurt if they admitted to past mistakes.”

“Immaginate che George Osborne ammetta che l’austerità non sta funzionando. Che cosa rimarrebbe, allora, della sua pretesa di essere qualificato per – bè, qualsiasi cosa ? E’ costretto a sostenere la sua posizione finchè qualcosa capita, e non importa quante vite si distruggono nel frattempo… Il punto è che buona parte del motivo per cui siamo incastrati in questo disastro è il carrierismo. E sì, è alquanto ripugnante se ci pensate: politici, così come esperti, che lasciano bruciare il mondo – probabilmente in modo inconscio, ma così è – perché la loro personale posizione sarebbe danneggiata se ammettessero gli errori passati”.
 
”In modo inconscio” non ci giurerei. Per il resto, ho solo da aggiungere che quanto sopra è ancora più vero se a “George Osborne” sostituiamo per esempio “Mario Monti”, “Alberto Alesina”, “Herman Van Rompuy” o “Olli Rehn".

giovedì 21 febbraio 2013

CCF: volevate i numeri ? eccoveli…

Come giustamente richiesto da parecchi lettori, trovate qui di seguito


 una simulazione numerica degli effetti del progetto Certificati di Credito Fiscale.

Mi scuso se fornisco tabelle di numeri e non grafici più gradevoli e accattivanti alla vista… mi riesce più facile maneggiare le tabelle, sarà perché alle medie ero una frana in educazione artistica (sotto minaccia costante di esame a settembre, mai attuata solo perché andavo bene nelle altre materie…)
La simulazione è basata sull’emissione (a partire dall’1.1.2014) di 150 miliardi annui di CCF, destinati alla riduzione del cuneo fiscale sul lavoro. Negli anni successivi gli importi crescono in modo da mantenere una proporzione costante rispetto al monte retribuzioni dell’economia italiana.

Si ipotizza che i CCF emessi producano un’espansione della domanda e del PIL pari a 1,3 l’importo: quindi ogni miliardo di CCF accresce il PIL di 1,3 miliardi di euro. 1,3 è il valore intermedio dell’intervallo recentemente ipotizzato dal Fondo Monetario Internazionale per il cosiddetto “moltiplicatore keynesiano” (0,9 – 1,7).

L’espansione di PIL peraltro è prevista non essere tutta immediata ma (cautelativamente) distribuita su tre anni: quindi c’è un’accelerazione della crescita (rispetto alla previsione senza CCF) di circa il 4% annuo (5% medio invece di 1% circa) tra il 2014 e il 2016.

Successivamente la crescita reale è simulata costante all’1,5% annuo sia nello scenario “senza” che in quello “con” i CCF.

Nello scenario “senza” si prevede che l’Italia riesca a ottenere, e a mantenere negli anni, il pareggio di bilancio pubblico. Nello scenario “con”, dato che i CCF sono uno sgravio fiscale (sia pure con effetto differito) il rapporto deficit / PIL si assesta nel tempo a poco meno del 3% annuo.

Nel 2016, l’Italia ha quindi un PIL più alto del 12% circa, e un rapporto debito pubblico / PIL sotto il 100%, mentre nel caso “senza CCF” è ancora vicino al 116%.

Negli anni successivi il rapporto scende più velocemente nel caso “senza” rispetto al caso “con”. All’incirca nel 2021, in entrambi i casi, il rapporto converge al 96-97% circa.

Va detto che ci sono almeno tre motivi per i quali queste previsioni appaiono ottimistiche nel caso “senza CCF” e invece molto più plausibili nel caso ”con”.

In primo luogo, nel caso “con” l’economia italiana torna vicina alla piena occupazione, dopo aver conseguito un importante recupero nel 2014-2016. Proseguire da qui con tassi reali di sviluppo dell’1,5%, o anche meglio, è plausibile. Nel caso “senza CCF” c’è invece una situazione di stagnazione protratta e non sono chiari gli elementi che dovrebbero portare a una ripresa della crescita.

In secondo luogo, conseguire e mantenere il pareggio di bilancio pubblico in un contesto depresso e stagnante è un obiettivo ambizioso, che probabilmente richiederebbe ulteriori manovre restrittive e quindi difficoltà ancora maggiori nel conseguire tassi di crescita anche modesti.

In terzo luogo, le previsioni del caso “senza CCF”, basate su quanto fornito dal Ministero dell’Economia nel settembre 2012, incorporano cessioni di attivi pubblici per 15 miliardi all’anno. Nello scenario depresso “senza CCF” è un obiettivo molto ambizioso, per non dire irrealistico. Nello scenario di recupero “con CCF” è fattibile, e probabilmente anche prudente.

Un commento, infine, sul saldo delle partite correnti (esportazioni di merci e servizi, meno importazioni, meno le rimesse nette degli emigranti e i redditi netti degli investimenti finanziari). Nel 2012 questo saldo ha raggiunto in Italia una sostanziale parità, in buona parte “grazie” alla crisi e alla conseguente caduta dell’import.

Negli anni successivi, si prevede che l’export cresca in linea con il PIL mondiale, e l’import in linea con il PIL italiano. Con l’eccezione del 2014: in quell’anno c’è un beneficio in termini di maggiori esportazioni e minori importazioni (rispetto al trend) dovuto al fatto che i CCF abbassano il costo del lavoro delle aziende italiane e le rendono più competitive. E’ quindi possibile sia vendere di più all’estero sia recuperare quote di mercato rispetto alle importazioni.

Questo vantaggio è ipotizzato nel 5% sia dal lato export che dal lato import ed è coerente con quanto si è registrato nel 1992, dopo l’uscita dell’Italia dallo SME. L’effetto netto compensa, all’incirca, la crescita di import dovuta al recupero del PIL italiano. Il saldo delle partite correnti rimane quindi permanentemente in sostanziale equilibrio.

In conclusione lo scenario “con CCF” permette il ritorno dell’Italia a condizioni prossime alla piena occupazione, abbassa molto più velocemente il rapporto debito pubblico / PIL e crea presupposti molto più convincenti per mantenere nel tempo adeguati tassi di sviluppo.

Il saldo delle partite correnti si mantiene intorno alla parità, il che prova che questi risultati non sono ottenuti tramite politiche di “beggar-thy-neighbour”. Rappresentano quindi un riequilibrio sano e sostenibile della situazione italiana e – estendendo ad altri paesi il progetto CCF – anche europea.

mercoledì 20 febbraio 2013

La Francia sta andando sulla strada...

...dei Certificati di Credito Fiscale ? a una prima lettura superficiale di questo articolo ne avevo avuto la sensazione, ma non è così. O almeno, non nella forma che questo blog illustra, e che (ritengo) è quella che funziona.

Si parla di 20 miliardi di crediti fiscali, concessi all'aziende per ridurre la tassazione del lavoro (il cuneo fiscale). Compensati da un aggravio di IVA.

L'effetto sarebbe di ridurre i consumi interni e migliorare i saldi commerciali. Ma ci sono alcuni problemi.

La dimensione è sicuramente troppo bassa rispetto a quanto necessario per coprire l'"output gap", ovvero la differenza tra PIL odierno e PIL potenziale, della Francia. L'ordine di grandezza necessario è più vicino a 100 miliardi che a 20.

Ma ancora più importante è che lo Stato dà da una parte e prende dall'altra. Quindi è una manovra che non inserisce maggior potere d'acquisto nel sistema economico. Migliora la competitività francese a danno dei vicini (ammesso che non ci siano manovre di ritorsione). Ma è un gioco a somma zero.

Il gioco è a somma positiva solo se gli sgravi fiscali vengono concessi senza che ci siano contemporaneamente interventi restrittivi. Meglio ancora se assumono la forma di titoli negoziabili, quindi, a tutti gli effetti, attuando un'espansione di natura monetaria. Che non è, come detto in vari altri post, inflazionistica fino al momento in cui non si recupera l'"output gap",  e quindi la piena occupazione.

Apparentemente (giudico sulla base dell'articolo, in attesa di maggiori dettagli) in Francia si sta cercando di riallineare la competitività interna a quella tedesca, ma continua a sfuggire che per tornare a un corretto livello di occupazione, il saldo netto della manovra deve essere espansivo.


lunedì 18 febbraio 2013

La guerra delle valute non è un problema. L’autolesionismo europeo sì.


Paul Krugman è tornato, pochi giorni fa, sul tema della “guerra delle valute”. Come al solito ha illustrato la sua posizione con sintesi e chiarezza: è un problema che non esiste.
 
La cosiddetta guerra delle valute è la conseguenza della politica messa in atto da varie banche centrali, e finalizzata ad espandere la circolazione monetaria per sostenere la domanda. Si tratta di azioni molto opportune, perché tutte le principali economie mondiali hanno tassi di riferimento, stabiliti dalle banche centrali, prossimi allo zero. Ed esiste un notevole ”output gap”: PIL effettivo molto inferiore al potenziale e quindi alta disoccupazione.
 
In questo contesto, espandere la circolazione monetaria (come da analisi keynesiana ben nota fin dagli anni Trenta) non produce innalzamento né dell’inflazione né dei tassi d’interesse. E’ quindi un’azione assolutamente corretta.
Casomai, la critica da muovere è quella che l’azione è stata fin qui effettuata comprando attività finanziarie – titoli di Stato, mutui ipotecari – invece di destinare le emissioni monetarie direttamente al sostegno della spesa (pubblica oppure – mediante rimborsi d’imposte o sostegno al reddito – privata). Questo ha reso meno efficace (perché indiretto) l’effetto delle azioni espansive.
 
Attualmente, pare che sia il Giappone a muoversi verso azioni più incisive. Questo ha prodotto un deprezzamento dello yen ma, come sottolinea giustamente Krugman, siamo ben lontani da rischiare che l’inflazione o i tassi d’interesse giapponesi salgano a livelli indesiderati, quindi dov’è il problema ?
 
Un effetto indesiderato in realtà c’è: lo yen si è svalutato soprattutto contro l’euro, e quindi l’euro ha guadagnato terreno anche nei confronti del dollaro. Questo è un paradosso, perché l’economia di Eurolandia è, di tutte, quella nella situazione peggiore.
 
Ma Eurolandia è anche l’area valutaria che continua a essere più reticente a aumentare l’espansione di moneta, ed è questo – solo questo – che ha spinto l’euro al rialzo.
L’ultima cosa che serviva. Ma il motivo si capisce. Eurolandia nel suo complesso ha bisogno di più moneta in circolazione. L’Europa del Sud ne ha disperatamente bisogno. Ma per la Germania sarebbe inflazionistico.
 
Per cui… Krugman conclude: “L’Europa può avere la sensazione di soffrire per una perdita di competitività. Ma c’è una risposta: imitare gli altri paesi avanzati, con la BCE che si unisce all’espansione monetaria”.
 
Giusto, peccato che (beninteso, Krugman lo sa benissimo) Eurolandia non è un’area valutaria ottimale: le condizioni dei vari paesi sono fortemente disomogenee e la politica monetaria opportuna per l’Italia non lo è per la Germania.
 
Per cui, Jens Weidmann ritiene l’espansione monetaria inopportuna (e ha ragione, dovrebbe soltanto aggiungere “per la Germania”… ma lui è il capo della Bundesbank, non della BCE, giusto ?...)
 
E con mezza Europa in pesante depressione, ci ritroviamo con l’euro rafforzato (del quale, ha commentato qualche trader, c’era bisogno “come di una rivoltellata in testa”).
La guerra della valute non esiste. L’autolesionismo europeo, l’aver sottratto ai paesi la loro autonomia monetaria, esiste, ed è vivo e vegeto.

giovedì 14 febbraio 2013

I CCF: che cosa succede “dopo”…

…dopo che li abbiamo introdotti, s’intende.
Questo è la domanda che mi è stata rivolta più di frequente da parecchi commentatori, in merito al mio progetto di riforma del sistema monetario europeo mediante i Certificati di Credito Fiscale.
Più in dettaglio: immaginiamo di avere introdotto questa strumento, che in pratica è un equivalente della moneta nazionale, per espandere il potere d’acquisto interno in Italia e nello stesso tempo per ridurre la tassazione sul lavoro.
Abbiamo tarato bene le dimensioni dell’intervento, in modo tale che il costo del lavoro per unità di prodotto italiano è sceso ai livelli della Germania. Nello stesso tempo c’è più potere d’acquisto in circolazione. Le aziende italiane vendono di più e i consumatori comprano di più. I saldi commerciali italiani, che nel 2012 si sono riportati in sostanziale equilibrio ma solo grazie al crollo della domanda interna e dell’import, in equilibrio rimangono: recuperano, contemporaneamente, sia l’import che l’export. L’Italia ritorna alla piena occupazione. E non c’è una significativa crescita dell’inflazione perché il maggior potere d’acquisto in circolazione ha permesso di rimettere al lavoro risorse (persone e impianti) prima inutilizzati.
Tutto bene ma… come reagisce la Germania (questo è il dubbio) ? i tedeschi hanno goduto, dall’introduzione dell’euro in poi, di un significativo e crescente vantaggio di costo rispetto ai paesi dell’Europa mediterranea, grazie alla loro capacità di disciplinare e moderare le richieste salariali. Anche in maniera eccessiva, secondo alcuni, e certamente muovendosi in modo non coordinato con gli altri paesi dell’area euro.
Ora, la Germania vede d’improvviso venir meno il vantaggio di competitività verso l’Italia. Perché non dovrebbe dare un nuovo “colpo di reni” alla sua strategia mercantilistica, con un altro giro di riforme stile Hartz IV ? finanziate mediante l’introduzione della sua versione di CCF ? o semplicemente con maggior deficit pubblico, visto che non ha problemi a collocare il proprio debito sul mercato ?
Bene, la Germania potrebbe, ma l’Italia e gli altri paesi oggi in deficit di competitività hanno un modo molto semplice di parare il colpo: emettere CCF in maggior quantità.
Riflettendo ulteriormente, si vede l’analogia tra questa ipotetica situazione e quella in cui ogni paese è ritornato alla sua valuta (c’è stato il break-up dell’euro, in altri termini), ma la Germania non accetta un NeoMarco che quota per esempio 1,20 contro la NeoLira. Aumenta allora l’emissione di NeoMarchi e compra NeoLire per riportare il cambio a 1. Ma anche l’Italia può fare lo stesso. In pratica tutti stampano moneta, con il risultato di aumentare i prezzi dappertutto. Il vantaggio si avrebbe solo verso i partner commerciali asiatici e americani per via di una svalutazione generale di NeoMarchi e NeoLire contro dollaro, yen, yuan eccetera. A quel punto però con ogni probabilità scatterebbero azioni di rivalsa dei partner esteri. E comunque il vantaggio dovuto alla svalutazione viene rapidamente eroso dall’inflazione interna europea.
Difficile pensare che la Germania tenti di seguire un percorso del genere. Certo, a inibirli contribuirebbe anche la sua antipatia atavica verso l’inflazione e le politiche di espansione monetaria.
Nello scenario CCF questo fattore d’inibizione non c’è perché si tratta invece di imporre ulteriore disciplina salariale per mantenere il vantaggio di competitività verso l’Europa mediterranea. Non è però una strategia sensata, e questo – ritengo – sarebbe ben chiaro anche ai tedeschi. Significa comprimere i consumi interni per continuare ad accumulare sbilanci commerciali, quindi crediti, verso il Sud Europa, con crescenti dubbi riguardo alla loro esigibilità: la situazione odierna, in altri termini.
Del resto, va detto che in Germania si stanno oggi concedendo aumenti salariali per cercare in qualche misura di attenuare le disfunzioni del sistema euro. Il problema è che, non tollerando i tedeschi livelli di inflazione interna superiori a poco più del 2%, il processo è di gran lunga troppo lento. Salvo che nel Sud Europa la deflazione salariale diventi ancora più violenta di oggi… ma si arriverebbe presto al collasso economico e sociale.
Sia che avvenga il break-up dell’euro, sia che i vari paesi in deficit di competitività rispetto alla Germania tornino all’autonomia monetaria mediante i CCF, la situazione si riequilibra. Strategie mercantilistiche aggressive da parte dalla Germania sono possibili in entrambi i casi, ma i partner europei hanno modo di parare il colpo. Nel caso dei cambi flessibili, espandendo a loro volta l’emissione di moneta se lo fa la Germania. Nel caso dei CCF, aumentandone la dimensione se la Germania dà un altro giro di vite alla moderazione salariale.
Chiamiamolo se vogliamo equilibrio del terrore… il punto è, per quante intenzioni maligne si vogliano attribuire alla Germania, le difese funzionano - che è la migliore tutela (anche preventiva) contro un atteggiamento aggressivo.
La disciplina salariale della Germania, peraltro, è stata la sua caratteristica anche prima dell’entrata in vigore dell’euro. Non si è ricercata la competitività di costo nei confronti dell’Europa del Sud in particolare, ma dei partner commerciali internazionali in genere. I tedeschi contavano sul fatto che l’Italia (per esempio) non avrebbe tenuto il passo, non avrebbe esibito la stessa disciplina ? probabile, ma non si sarebbero comunque comportati diversamente.
D’altra parte, dopo una riforma del sistema euro con i CCF, la Germania che incentivi ha a esibire ulteriore aggressività ? la competitività verso Asia e America è inalterata perché i tedeschi non si ritrovano con un NeoMarco rivalutato. I saldi commerciali verso il Sud Europa sono in equilibrio, ma è già così oggi: l’austerità imposta al Sud ha già fatto sparire i surplus. Che senso ha tentare di nuovo di squilibrare il sistema, sapendo che i Sud Europei hanno lo strumento per impedirlo ? con il solo risultato peraltro (se mai per qualche motivo il Sud non si attivasse aumentando l’utilizzo dei CCF) di rinfocolare il rischio di break-up dell’euro ?
Io sono un critico delle politiche tedesche, ma molto più riguardo alla loro influenza nell’imporre austerità ai partner europei – una “soluzione” profondamente iniqua e controproducente. La ricerca della competitività di costo è nel loro DNA. E’ sterile criticarli per questo, fondamentale invece è che il sistema monetario abbia la flessibilità per prevenire i disequilibri che l’attuale assetto dell’euro implica.
In conclusione, che scenario ci si può attendere dopo che il sistema monetario europeo è stato riformato ? una tendenza del Nord Europa a minori tassi di crescita dei costi di lavoro per unità di prodotto rispetto al Sud probabilmente continuerà, com’è sempre stato – 1 / 1,5% per anno contro 2,5% / 3% ad esempio. In un regime di cambi flessibili, ci si può aspettare quindi una costante tendenza alla rivalutazione (per esempio) del NeoMarco contro la NeoLira, al ritmo dell’1%-2% annuo.
In un regime di euro che continua a esistere ma i paesi in deficit di competitività recuperano mediante i Certificati di Credito Fiscale, questi ultimi avranno lo spazio per parare il colpo, continuando a limare anno dopo anno la tassazione sul lavoro. Mantenendo l’euro in un contesto in cui i CCF hanno consentito il ritorno alla piena occupazione, tra l’altro, il debito pubblico italiano in euro avrà costi un po’ più bassi rispetto a un debito ridenominato in NeoLire. Attenzione, il minor costo non è certo quello stimato fantasiosamente da Giannino e Boldrin. Parliamo magari di un 1% all’anno in meno, che fa 20 miliardi di euro a regime – quanto basta per mantenere la situazione in equilibrio.
Concludo: i Certificati di Credito Fiscale sono una modalità di riforma del sistema monetario europeo valida quanto il break-up dell’euro nei suoi effetti immediati, e altrettanto sostenibile ed efficiente anche negli anni successivi. Quale delle due vie percorrere (sperando che se ne prenda rapidamente una !) è un problema politico e operativo. Su questo, appuntamento a uno dei prossimi post !

martedì 12 febbraio 2013

Pizzarotti e Monti, ovvero: come e perché gestire un comune e gestire una nazione sono due cose MOLTO diverse


Un paio di settimane fa, il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti (esponente del Movimento 5 Stelle) è stato intervistato da Servizio Pubblico, trasmissione condotta da Santoro su La7.

Ne è nata una polemica relativa a come l’intervista è stata tagliata, montata e trasmessa, in forma secondo alcuni fuorviante riguardo all’effettivo contenuto delle dichiarazioni di Pizzarotti.

Io ho visto l’intervista solo nella sua versione integrale, disponibile in rete. Non mi pronuncio quindi sull’azioni di videoediting effettuata da La7.

Un altro tema secondo me è più significativo. L’intervistatrice ha incalzato Pizzarotti, come sicuramente è giusto che una giornalista faccia, specialmente su un argomento: voi del M5S esprimete certe posizioni su temi nazionali, poi nel principale ente locale che vi siete trovati a gestire state agendo con tagli di costi, avete l’IMU alle aliquote massime, insomma che cosa cambia rispetto a quanto Monti ha fatto nella sua azione di capo del governo ? detto in altri termini, nei fatti anche il M5S finisce per non avere alternative rispetto all’austerità.

Bene, è giusto e legittimo porsi questa domanda, ma è importante chiarire che una nazione e un ente locale sono due cose molto differenti.

Un ente locale gestisce quote di spesa e di tassazione equivalenti a pochi punti percentuali del reddito generato nella sua zona di competenza.

In altri termini, mancano le leve per effettuare significative azioni di politica economica. Il PIL generato nell’area di competenza dipende molto poco da quello che fa il sindaco di una città, o anche dal governatore – per esempio – della Lombardia (che pure ha popolazione e PIL superiori a quelli di parecchi dei 27 paesi dell’Unione Europea). E se si trovano risorse per incentivare la produzione e l’occupazione locale, il maggior gettito fiscale finisce quasi tutto allo Stato, non all’ente locale. L’impiego di risorse a livello locale dà benefici in buona parte all’esterno dell’ente territoriale: il cerchio non si chiude.

Prendiamo per esempio il mio progetto Certificati di Credito Fiscale, che se applicato restituisce autonomia monetaria all’Italia e permette quindi di condurre una politica economica di piena occupazione. E’ possibile un’applicazione a livello locale (domanda che mi è stata posta) ?

E’ possibile (Maroni sta, pare, pensando a qualcosa del genere per la Lombardia) ma le ricadute sono limitate. Ammettiamo che Parma o la Lombardia introducano dei Certificati di Credito Fiscale parmigiani o lombardi, che possono essere utilizzati per pagare tasse o servizi locali. L’emissione di questi strumenti potrebbe essere effettuata, ma non certo nelle dimensioni necessarie a riportare le economie locali alla piena occupazione.

Attenzione, non sto dicendo che un progetto di Certificati comunali o regionali, integrato magari con i sistemi SCEC  che si stanno diffondendo, non possa dare contributi apprezzabili. Ma le politiche di piena occupazione possono (e devono !...) essere perseguite a livello dell’ente che gestisce il grosso della tassazione e della spesa pubblica. Quindi dello Stato.

Che cosa c’entra tutto questo con Pizzarotti e Monti ? c’entra perché Pizzarotti è un amministratore locale, e quindi la sua posizione assomiglia più a quella di chi gestisce un bilancio domestico, o un’azienda, che a quella di un capo di governo. Date risorse limitate, deve pensare a far quadrare i conti e a fornire al meglio i servizi di cui è responsabile.

Un capo di governo ha una priorità superiore a queste: deve creare le condizioni per la piena occupazione a livello nazionale.

Allora dire che “in fondo Pizzarotti sta facendo a Parma più o meno quello che Monti ha fatto a Roma” può essere superficialmente vero, ma è fuorviante.

sabato 9 febbraio 2013

Ahi ahi Bagnai… che bella serie di cantonate…


Alberto Bagnai, economista e docente all’Università di Pescara, redige da un anno abbondante un blog di successo – Goofynomics – che divulga le cause macroeconomiche dell’inefficienza dell’euro, e i problemi conseguenti.

Richiesto da un lettore, ha fornito (8.2.2013) la seguente opinione in merito ai Certificati di Credito Fiscale da me proposti.

“La contraddizione è ovvia. Qualsiasi persona veda nella "creazionedimonetasovranadentrol'euro" la soluzione semplicemente non ha capito che la causa della crisi è nel debito estero, e quindi nel rapporto di cambio fra le moneta italiana e le altre monete dell'Eurozona (e non solo), o non ne trae le corrette conseguenze.
Mi spiego: qualsiasi cosa faccia ripartire, con una bacchetta magica, la nostra economia, mantenendo il cambio Italia-Germania fisso non fa che aumentare le nostre importazioni dal Nord, e quindi peggiorare la nostra situazione (rendendo necessaria ulteriore austerità). Questo vale anche per la proposta del volenteroso autore, la quale, come tutti vedono, è asimmetrica, perché renderebbe più convenienti i prodotti italiani (abbattendo il costo del lavoro in Italia con una politica di dumping sostanzialmente analoga negli effetti alla riforma Hartz), ma non renderebbe più costosi i beni tedeschi. Una svalutazione del cambio, invece, come i dilettanti spesso non capiscono, ha come PRIMO effetto quello di rendere più costosi i prodotti esteri, e quindi di attuare una import substitution, e come SECONDO effetto quello di rendere meno costosi i prodotti interni (e questo è l'unico effetto che avrebbe la svalutazione fiscale finanziata con "moneta" di cui parla l'autore). L'effetto sulla competitività (cioè sul rapporto fra i prezzi) è quindi doppio: diminuisce il numeratore, aumenta il denominatore.
Sentite, vi spiego una cosa: gli uomini usano monete da alcuni millenni, e da altrettanti millenni le svalutano se è necessario. Poi suppongo che anche all'epoca di Hamurrabi ci sia stato un commercialista che ha fatto proposte alternative. Ma nessuno lo ha preso sul serio, forse perché non c'erano i blog...”

“Come i dilettanti spesso non capiscono…” Bagnai, ricercatore e docente universitario, è un professionista. Io, che mi occupo dal 1985 di finanza aziendale e investimenti, anche (s’ils vous plait).

Tra l’altro nel 1992 ho vissuto la crisi dello SME in qualità di membro del comitato di direzione finanziaria di un gruppo industriale che fatturava 20.000 miliardi (di lire, bei tempi…) e il cui fatturato e indebitamento era per il 70% denominato in valuta estera. Come dire, qualcosa in materia di competitività industriale e sostenibilità del debito estero ho imparato. Sul campo oltre che sui testi, diciamo.

Bagnai è un professionista, ma anche ai professionisti capita di peccare di superficialità. “La causa della crisi è nel debito estero, e quindi nel rapporto di cambio fra le moneta italiana e le altre monete dell'Eurozona (e non solo)”. Come no. Ma il debito estero si accumula e diventa insostenibile perché il mancato riallineamento dei cambi impedisce ai costi produttivi interni, di cui il principale è il costo del lavoro per unità di prodotto, di tornare a livelli equilibrati tra i vari paesi. Cosa che i Certificati di Credito Fiscale, per un’altra via, ottengono.

“Qualsiasi cosa faccia ripartire, con una bacchetta magica, la nostra economia, mantenendo il cambio Italia-Germania fisso non fa che aumentare le nostre importazioni dal Nord, e quindi peggiorare la nostra situazione (rendendo necessaria ulteriore austerità).” E perché se aumenta il mio potere d’acquisto interno (quindi importo di più) ma il mio export è nello stesso tempo più competitivo (quindi esporto anche di più) ?

“Una svalutazione del cambio, invece, come i dilettanti spesso non capiscono, ha come PRIMO effetto quello di rendere più costosi i prodotti esteri, e quindi di attuare una import substitution, e come SECONDO effetto quello di rendere meno costosi i prodotti interni (e questo è l'unico effetto che avrebbe la svalutazione fiscale finanziata con "moneta" di cui parla l'autore).” Ma la svalutazione del cambio ha anche l’effetto di rendere più costose le materie prime e gli input produttivi importati. C’è quindi una serie di effetti, il cui saldo netto è sicuramente positivo, ma che non vanno tutti nella stessa direzione:

Riallineamento del cambio: import di prodotti finiti meno concorrenziale, export di nostri prodotti finiti più competitivo, materie prime più care.
Progetto Certificati di Credito Fiscale: export di nostri prodotti finiti più competitivo, non c’è differenza sulla competitività degli import di prodotti finiti ma neanche il danno di pagare di più le materie prime.

E’ chiaro quindi che i due scenari non sono IDENTICI, ma sono ENTRAMBI IN GRADO di produrre un riallineamento di competitività che riporta il sistema in equilibrio.

Anche ai professionisti capita di peccare di superficialità, dicevo. Se una persona competente come Bagnai legge una proposta un po’ di fretta (solo le parole in posizione dispari divisibile per sette, diciamo) gli può succedere di infilare tre sfondoni in venti righe. Pazienza. Invito a una rilettura più attenta.

E anche a ricordare che un problema, un grosso problema – l’inefficienza del sistema monetario europeo – può avere più di una soluzione. Proposta da Marco Cattaneo, dal commercialista di Hamurrabi, da qualcun altro ancora. L’essenziale è capirle prima, e giudicarle poi.

mercoledì 6 febbraio 2013

I CCF - Certificati di Credito Fiscale: Frequently Asked Questions


D. Come funziona il progetto CCF - Certificati di Credito Fiscale per un lavoratore dipendente ?
R. Molto semplicemente, il dipendente riceve un’integrazione di reddito sotto forma di Certificati. La misura proposta è il 10%. Se il tuo netto mensile è 2.000 euro, continui a percepire 2.000 euro e, in aggiunta, un Certificato dell’importo di 200 euro (ogni mese).

 
D. E per il datore di lavoro ?
R. Riceve a sua volta un contributo, sotto forma di CCF, pari al 10% del suo costo totale. Per dare 2.000 euro netti a un dipendente, l’azienda sostiene un costo totale di circa il doppio, 4.000 euro (netto + tasse + contributi sociali ecc.) L’azienda continua a versare 4.000 euro al mese, parte al dipendente, parte al fisco, parte all’INPS. Gli viene però nello stesso tempo assegnato un Certificato di 400 euro di importo.

 
D. In che modo i CCF assumono valore per chi li percepisce ?
R. I CCF sono un equivalente della moneta statale. Lo Stato si impegna ad accettarli, a partire da due anni dopo la loro emissione, per qualsiasi tipo di pagamento dovutogli: tasse, imposte, ticket sanitari, multe ecc.

 
D. Ma se ho bisogno di monetizzarli in anticipo ?
R. Il progetto prevede di emettere ogni anno circa 150 miliardi di CCF, che verranno poi utilizzati due anni dopo l’emissione. Ci saranno quindi costantemente in circolazione circa 300 miliardi di CCF: quelli emessi nell’anno in corso e quelli dell’anno precedente. Hanno un valore di utilizzo finale certo, in quanto lo Stato li accetterà illimitatamente. Potranno essere monetizzati in anticipo perché si verrà a creare un mercato, esattamente come per i titoli di Stato: vado in banca e li vendo con un piccolo sconto calcolato con tassi analoghi a quelli di un BOT a due anni.

 
D. Ma chi sarà il compratore ?
R. Un soggetto che li utilizza, alla data finale, per soddisfare oneri che avrà nei confronti dello Stato.

 
D. Perché è previsto un utilizzo differito, dopo due anni ?
R. Se l’utilizzo fosse immediato, sarebbe come attuare subito una forte riduzione delle imposte. Questo graverebbe sul deficit pubblico. Con il differimento, lo sgravio fiscale produce, a parità di condizioni, un aumento del deficit, ma dopo due anni: a quel punto si è prodotta una forte ripresa e quindi maggiori entrate fiscali, che compensano l’utilizzo dei CCF.

 
D. Come possiamo essere certi che si produrrà una forte ripresa dell’economia ?
R. Circolerà molto più potere d’acquisto, da un lato, e i costi delle aziende si abbasseranno fortemente, dall’altro. Quindi più domanda interna, più competitività nelle esportazioni, possibilità di proporre beni e servizi a condizioni migliori ai clienti sia italiani che esteri.

 
D. I CCF circoleranno anche come denaro contante ?
R. Non c’è necessità che circolino CCF sotto forma di monete e banconote, farebbe anzi forse confusione. Magari ci saranno per esempio forme di pagamento elettronico verso soggetti che accettano i CCF, con un piccolo sconto rispetto al pagamento in euro. Comunque non è un punto essenziale del progetto.

 
D. Ma i Certificati emessi non sono un incremento del debito pubblico ?
R. No, perché non esiste un impegno di rimborso. Lo Stato italiano non darà, alla scadenza, euro a rimborso dei CCF; li accetterà a pagamento delle sue spettanze: esattamente come avviene per la moneta.

 
D. Ma se i CCF sono una forma di moneta, emettendoli non si produce inflazione ?
R. Espandere la circolazione monetaria provoca inflazione solo quando l’economia, la produzione sono a livelli normali. Oggi l’economia italiana è fortemente depressa. Dal 2007 abbiamo subito un calo di produzione industriale del 25% ! aumentare il potere d’acquisto non produce inflazione se serve a rimettere al lavoro risorse (persone e impianti) che oggi sono inattivi.

 
D. L’Unione Europea non si opporrà all’introduzione dei CCF ?
R. Non ne ha la possibilità: è uno strumento che rientra nell’autonomia dell’Italia in materia fiscale. E francamente neanche l’interesse. La UE e la BCE hanno esercitato pressioni sull’Italia nei momenti in cui è stato ritenuto opportuno effettuare interventi o fornire garanzie sul debito pubblico italiano, inteso come il debito oggi esistente e collocato sul mercato. Se l’Italia emette CCF, non chiede nulla né alla UE né alla BCE.

 
D. In che modo i CCF risolvono il difetto strutturale dell’euro ?
R. Il difetto dell’euro è che i vari paesi che lo utilizzano hanno costi del lavoro e produttività differenti. La Germania, per esempio, ha costi di lavoro per unità di prodotto che si stimano inferiori del 20% all’Italia. Quando ogni paese aveva la sua moneta, i cambi si riallineavano e compensavano le differenze. Il paese più competitivo rivalutava, i suoi cittadini avevano maggior potere d’acquisto e lo utilizzavano per comprare più beni dall’estero. Con la moneta unica, si cerca di ottenere questa compensazione abbattendo i salari dei paesi meno competitivi, ma questo manda le loro economie in depressione. I CCF riallineano i costi per un'altra strada, riducendo cioè la fiscalità sul lavoro.

 
D. Se l’Italia diventa più competitiva, migliora il saldo commerciale per esempio verso la Germania. Non c’è il rischio di ritorsioni ?
R. Il deficit commerciale dell’Italia verso la Germania si è già ridotto molto nel 2012 perché la nostra economia è caduta in grave depressione e l’import è crollato. Con i CCF le aziende italiane diventano più competitive ma c’è anche più potere d’acquisto per i cittadini. L’Italia aumenterà contemporaneamente export e import e i saldi commerciali resteranno in equilibrio, ma a un livello ben più alto.

 
D. Si possono utilizzare i CCF anche per altre finalità: finanziamento di spesa pubblica, sostegno ai ceti sociali disagiati, reddito di cittadinanza ?
R. In parte sì. E’ però fondamentale che le emissioni destinate a ridurre le tasse sul lavoro siano sufficienti a riportare in equilibrio la competitività italiana rispetto ai paesi nord europei.

 
D. Le politiche di austerità – IMU, aumento dell’IVA, aumento delle accise sui carburanti, tagli alle pensioni – sono state inutili ?
R. Applicate da sole, sono state controproducenti e hanno mandato l’economia in depressione. Avevano un senso se contemporaneamente si fosse detassato il lavoro: maggiore competitività, ripresa produttiva, meno consumi interni ma miglioramento dell’export, riequilibrio dei saldi commerciali. Questo è quanto fanno i CCF, che se vogliamo giustificano, ex post, l’austerità (almeno nelle sue dimensioni totali, naturalmente si possono discutere e migliorare le singole azioni). Austerità = medicina amara, CCF e detassazione del lavoro = ricostituente. Hanno senso se applicate in combinazione.

 
D. In che misura i CCF dovrebbero essere applicati negli altri paesi della zona euro ?
R. In quella necessaria a riallineare la competitività rispetto alla Germania e ai paesi limitrofi. Se per l’Italia si interviene con 10+10 (10% di integrazione di reddito al dipendente, 10% di riduzione del costo per l’azienda) serve probabilmente 15+15 per la Grecia (e anche un ulteriore, ma finale, stralcio del debito), 12+12 per Spagna e Portogallo, 5+5 per Francia e Belgio.

 
D. Perché i CCF sono preferibili all’uscita dall’euro ?
R1. Più facili da far accettare all’opinione pubblica, che per disinformazione è spesso ancora timorosa.
R2. Non aumentano i costi per materie prime, e quindi non ci sono conseguenze sull’inflazione (peraltro, in caso di uscita dall’euro, stimabili in non più di qualche punto percentuale per un paio d’anni).
R3. Più facile operativamente: l’uscita dall’euro andrebbe decisa in segreto e attuata in tempi rapidissimi (pochi giorni), i CCF possono essere discussi e messi in atto alla luce del sole.
R4. Non si ledono gli interessi dei creditori perché non si svaluta il debito italiano.
R5. Non ci saranno opposizioni dei gruppi d’interesse industriali del Nord Europa perché non costringiamo Germania e paesi limitrofi a rivalutare.

 
D. E’ comunque necessario rinegoziare MES e Fiscal Compact ?
R. Con la continuazione delle politiche di austerità, l’Italia resterà in situazione economica depressa e non potrà assolutamente avviare un processo costante di riduzione del rapporto debito pubblico / PIL, come previsto dal Fiscal Compact. Se l’Italia recupera il suo pieno potenziale di produzione e occupazione questo diventa possibile. La diminuzione tendenziale del rapporto debito pubblico / PIL è in sé positiva, SE NON impedisce il raggiungimento della piena occupazione. In realtà le due cose non solo sono compatibili, ma la seconda è necessaria alla prima.

martedì 5 febbraio 2013

Tax Credit Certificates to start-up the recovery and to solve the Eurocrisis


Costs and productivity differences between Northern and Southern Europe caused the crisis. Since 1999 the gap has been gradually increasing, reaching an estimated 20-25% nowadays.

Northern Europeans are more disciplined and controlled than Latins: in the past D-Mark, Gulden etc. ongoing revaluation against the lira, the peseta as well as the French franc provided for a continued realignment of competitiveness and prevented trade unbalances. The monetary union makes it impossible today.

Since 2004, those differences caused Northern Europe to achieve annual trade surpluses of € 150-200 bln per year (1,500 cumulated as of today) which not surprisingly are equal to the Southern Europe trade deficits (total eurozone trade is balanced against the rest of the world).

The Southern area piles up indebtedness due to its deficits and this deteriorates solvency. Currently Southern Europe has problems in financing governmental and/or private indebtedness as debt has reached levels unsustainable in the long term, due to their weak production and growth perspectives.

 

Actions taken to cope with the crisis in troubled countries summarize as follows.

  • Government expenditures are cut and taxes are raised to reduce the high (mainly public) debt.
  • Corporate costs are cut too, to improve productivity and to realign competitiveness with Northern Europe.

Then more taxes, less pensions and social expenditure, reforms in labor laws.

But: (1) the productivity gap was created in 13 years and cannot be significantly reduced in 1-2. Wages are sticky and not easy to reduce due to contracts expiration dates and political protections enjoyed by several pressure groups.

(2) Banks are not willing to extend credit as customers face declining pre-tax income and even more (due to higher taxes) post-tax income and saving.

A negative feedback loop is created: less income and consumption, more taxes, less saving, credit and production. Higher tax rates notwithstanding, GDP falls which prevents the public debt / GDP ratio to significantly improve.

 

Conventional policies are currently ineffective in troubled countries:

Fiscal policy is ineffective as financing additional spending or tax reductions would be too expensive. On the contrary, debt control forces fiscal policy to be contractionary.

Monetary policy is ineffective: in depressed economies monetary expansion could take place without seriously raising prices. But this would create inflation in Northern eurozone countries, which currently are close to full employment.

 

Tax Credit Certificates (TCC) are the appropriate policy tool. TCC would be:

·         Issued to residents in the issuing countries.

·         Usable two years after their issuance (not immediately) to pay taxes (or other obligations) due to the issuing country.

·         Negotiable before the utilization date, based on a market discount rate, eg 5% on a yearly basis.

 

TCC will primarily be issued to employees and employers to reduce the burden created by social costs (the “tax wedge”).

Total 2012 labor costs in Italy are expected to be € 985 bln (818 in the private sector, 167 in the public sector). This includes € 216 bln of contributions paid (one third by employees, two third by employers) to finance the public pension scheme and the national health system. TCC would be issued equal to 70% of contributions (excluding those paid by public sector employers, which are a self-offsetting accounting entry).

Employees and employers will pay euro contributions in the same amount as today (no cash deficit for the government) BUT the burden will be reduced as they receive TCC.

Total annual TCC issued would be € 134 bln which reduces by 16% private sector labor costs, after-tax employees’ income being equal (public sector is not taken account as it mainly produces non-internationally-tradable services).

This strongly reduces the Italy-Germany difference in labor costs per produced unit (approximately 20%) which caused the crisis as currency realignments are no more available to compensate it.

Eg a € 50,000 annual wage corresponds to 32,000 net of taxes and contributions; total cost to the employer (TCE) is 61,500. TCC would increase the after-tax income to the employee by € 2,800 while reducing TCE by 5,600.

 

TCC could also be used to supplement low-earners’ incomes. Eg € 21 bln in TCC could be issued to the less affluent half of the Italian population (30 millions): € 700 annually per capita (2,800 per four-persons family). This until the economy recovers a good employment status (say two years).

TCC could also finance public expenditure. Interventions mix and size will clearly be a matter of political choices.

 

2012 Italian GDP is running approximately 10% below potential:

·         5% fall in 2009 due to the “Lehman crisis”

·         minus 2.5% in 2012 due to austerity

·         from 1999 Italian growth was mostly below potential.

Austerity aims at stabilizing the public debt at € 2,000 bln (126% of 2012 GDP): not an easy task. Meanwhile contractionary tax and expenditure policies prevent GDP to recover. Recently the government forecast further contraction in 2013, and growth to be only marginally higher than 1% in 2014-15.

The debt / GDP ratio would fall from 126% to 120% and employment would not recover. Eurozone would stay in a precarious status.

Southern Europe as a whole, not just Italy, is in trouble, which is slowing down the world economy. Further deterioration could easily occur, straining the financial markets and preventing consolidation of public finances to take place.

 

TCC will change the scenario. Total proposed issue is € 155 bln per year ie 10% of GDP, which increases incomes and purchasing power, and reduces labor costs.

A GDP recovery in the same order of magnitude is likely, which would bring it back to its potential. Assuming the recovery is completed in three years, public debt / GDP falls to 106% by 2015 year-end.

Further, this would occur while production and employment grow strongly, thus ending the depression.

 

FORECAST - Council of Ministers – September 20, 2012
 
 
 
2012
2013
2014
2015
GDP
1,564
1,583
1,631
1,683
Real Growth
 
 
 
-0.2%
1.1%
1.3%
Price Effect
 
 
 
1.4%
1.9%
1.9%
Public Debt
1,977
1,996
2,007
2,018
% GDP
 
 
126%
126%
123%
120%
BENEFIT FROM TCC
 
 
 
GDP
 
 
1,564
1,635
1,740
1,854
Higher Growth (*)
 
3.3%
3.3%
3.3%
Real Growth
 
3.1%
4.4%
4.6%
Price Effect
 
 
 
1.4%
1.9%
1.9%
Higher GDP
 
52
109
171
Tax Revenues / GDP
 
49.5%
49.0%
48.8%
Higher Tax Revenues
 
26
53
83
TCC issued
 
 
 
 
155
155
134
TCC applied against payments to the State
 
 
 
 
155
Public Debt
1,977
1,951
1,897
1,969
% GDP
 
 
126%
119%
109%
106%
TCC outstanding (not included in the public debt) (**)
 
155
310
289
(*)  Estimated based on the (annual TCC) / (2012 GDP) ratio, achieved in the 2013-15 timeframe.
(**) As they are not to be reimbursed. All other things being equal TCC will reduce future revenues, but this will be offset by the expansionary effect on the economy. Were it not the case, actions on the deficit will be required. However, this does not make TCC a form of debt. Eg hidden public pensions liabilities are not included in today public debt, even if current laws imply a deterioration in the pensions / contributions ratio; rather, they are a factor to be included in future debt forecasts.

 

TCC makes austerity virtuous. Higher taxes and lower expenditure reduce demand and production. Austerity improves public finances GDP being equal, but GDP gets reduced. This largely offsets the benefit on public debt. Meanwhile GDP and consumptions fall.

TCC allow the State to raise more euro revenues while avoiding incomes and net worth to fall (or, if the fall already occured, allow them to recover). Austerity strengthens public finances while TCC avoids a GDP permanent depression.

 

TCC will be applicable, two years from their issue, against payments to the State. When this occurs, the recovery will have produced a meaningful increase in tax revenues, offsetting the redemption of TCC.

As GDP potential is much higher than the current level a tool which supports demand and reduces production costs generates a strong recovery and breaks the negative feedback loop of: austerity introduced to reduce public deficit -> lower GDP -> failure to heal public finances.

 

Last and very important: TCC make the euro system flexible and sustainable. Each troubled country can issue its own TCC in amounts such to reduce labor costs per produced unit and to attain levels comparable to the most efficient countries.

This eliminates the source of trade unbalances and of the excess in Southern European debt. TCC are the appropriate tool to realign costs and productivity in a system where flexible exchange rates do not exist anymore. As each country can introduce them according to its own requirements, they solve the problems created by a single currency used in different countries. In addition, they make it possible to expand demand where appropriate, without inflationary effects elsewhere.