mercoledì 29 gennaio 2014

Che cosa ci insegna la situazione argentina ?


Non certo che la sovranità monetaria non serve.

La sovranità monetaria è essenziale per promuovere corrette politiche di piena occupazione e di stabilità monetaria. Se volete ripassarvi perché sia così, rileggete questo (se avete dieci minuti) o questo (se avete mezz’ora).

Ma della sovranità monetaria si può anche abusare, certamente. Se si finanzia con emissione di moneta una domanda eccessiva rispetto alla capacità produttiva del sistema economico (quindi una spesa a deficit troppo elevata rispetto al necessario, per effetto di spesa pubblica troppo alta o di tasse troppo basse) il risultato è l’inflazione. Stampare moneta di per sè non produce inflazione, ma spingere la domanda oltre la capacità produttiva della propria economia sì.

L’Argentina ha, a quanto pare, cercato di tamponare artificialmente gli effetti di questo fenomeno sul cambio, fissandolo a livelli irrealistici (cioè disallineati rispetto all’inflazione interna).

Ma per sostenere artificialmente il cambio ha dovuto vendere dollari contro pesos e depauperare le proprie riserve valutarie. Il gioco, come sempre accade, ha un suo limite.

Non confondiamo il possibile abuso della sovranità monetaria con la necessità di esserne in possesso. Oggi l’Italia è come una famiglia che vive in una casa a zero gradi di temperatura. Deve portare il termostato a venti. Che qualcun altro sia arrivato a quaranta, trasformando la casa in una serra, o le abbia addirittura dato fuoco (alla casa) non cambia nulla riguardo a quanto è necessario fare da noi.

Ricordiamo comunque che vanno in crisi finanziaria i paesi che hanno debito in valuta estera. Se hai sovranità monetaria come l’Argentina puoi comunque decidere di indebitarti in valuta, e corri dei rischi.

Se ti spossessi della sovranità monetaria come l’Italia, per definizione tutto il tuo debito è in valuta estera.

Che cosa preferite ?

lunedì 27 gennaio 2014

Il sarchiapone CCF


“Passera, Grillo e Letta studiano il sarchiapone pro-crescita chiamato CCF”, informa il sito Formiche.net.

Quanto a Passera, le cose stanno (a quanto mi consta) sempre al punto di cui vi avevo riferito qui.

Quanto a Grillo, il progetto CCF è a conoscenza di almeno una quindicina di parlamentari M5S. Parecchi di loro li ho incontrati direttamente io, a Montecitorio, tra marzo e aprile. Ci sono poi state altre azioni di sollecito da parte di cittadini e di elettori.

Non sono in grado di commentare la voce di un interesse di Letta, che avrebbe incaricato Fabrizio Pagani di occuparsi della cosa. Per la verità fino a ieri non avevo neanche mai sentito nominare Fabrizio Pagani, ma nel frattempo ho colmato questa mia lacuna via google e wikipedia. Scoprendo che è un coetaneo di Letta, suo compagno di studi, nonché attuale consigliere alla presidenza del consiglio per gli affari economici e internazionali e molto altro ancora.

Bene, a questo punto ne sapete quanto me. O meglio, a quelli di voi che sono un po’ o molto più giovani di me potrebbe non essere noto che cosa sia un sarchiapone. Ecco qui.
 
 

sabato 25 gennaio 2014

L’”unicità” del modello tedesco


L’eurocrisi NON è risolvibile mediante l’adozione generalizzata delle riforme effettuate in Germania dal 2002 in poi. E’ difficile esprimerlo con maggiore chiarezza e concisione di quanto ha fatto Jacques Sapir in questa recente intervista.

“La Germania non è un modello: non possiamo parlare di un modello che può essere generalizzato. In altre parole, possiamo affermare che le soluzioni adottate in Germania hanno funzionato solo perché i paesi che la circondano non le hanno imitate. E’ la peculiarità della Germania che ne ha determinato il successo: se tutti la imitassero, il risultato sarebbe un fallimento generalizzato.”

“La Germania ha applicato all’interno dell’Eurozona una politica da battitore libero. Mentre tutti i paesi erano impegnati a rilanciare l’economia a partire dal 2002, la Germania ha deciso di abbassare i suoi salari, ossia di caricare sulle famiglie una parte dei costi che in precedenza venivano pagati dalle aziende, riducendo così i suoi consumi interni. Ciò è stato possibile perché nel frattempo i consumi dei paesi confinanti continuavano ad aumentare. Se tutti avessero applicato il modello tedesco, si sarebbe creata una grave crisi nell’Eurozona già a partire dal 2003 / 2004. E’ chiaro quindi che il modello non è generalizzabile”.

E infatti la maggior crescita tedesca rispetto al resto dell’Eurozona si è accompagnata a surplus commerciali dell’ordine di 200 miliardi di euro all’anno, pari al 6-7% circa del PIL tedesco. Fino al 2011, a questo si sono accompagnati deficit commerciali all’incirca uguali nel resto dell’Eurozona. A tutti gli effetti, la Germania, spesso definita la “locomotiva” dell’Eurozona, è stata in realtà un rimorchio.

Ne è seguito l’accumulo di grossi crediti finanziari della Germania verso il Sud Europa, crediti che nel 2011 hanno raggiunto dimensioni tali da suscitare dubbi sulla solvibilità dei debitori. Da qui l’imposizione di politiche di austerità per “distruggere domanda interna” al Sud (Monti dixit) ed evitare ulteriori accumuli di debiti. Austerità tra l’altro imposta in una situazione in cui la contrazione generalizzata di domanda, prodotta a livello mondiale dalla “crisi Lehman” del 2008, era ancora ben lontana dall’essere completamente recuperata.

Oggi di conseguenza abbiamo:

fortissima depressione della domanda in tutto il Sud Europa, con estensione del fenomeno ormai evidente anche in Francia, Paesi Bassi e Finlandia;

pesante crisi economica e sociale nell’Europa mediterranea;

tutta l’Eurozona sta scivolando lungo una spirale di depressione e deflazione;

rallentamento netto anche in Germania;

il surplus commerciale tedesco è rimasto intorno ai 200 miliardi annui, perché buona parte del calo dell’export verso il resto dell’Eurozona è stato sostituito da vendite verso America e Asia, e a seguito della minor crescita la Germania ha peraltro ridotto le sue importazioni;

si diffondono malumori in USA e in Cina perché le controparti dei 200 miliardi di surplus commerciale tedesco sono adesso loro, non più il Sud Europa (anche se naturalmente 200 miliardi verso tutto il resto del mondo “infastidiscono” molto meno che 200 miliardi verso il solo Sud Europa).

L’Eurozona ha evidentemente urgente necessità di interventi di rilancio della domanda.

Rilancio che però si deve accompagnare a una politica di riallineamento della competitività – gli altri paesi devono riportarsi ai livelli tedeschi, per evitare che il recupero della domanda non ricrei gli sbilanci commerciali interni all’Eurozona che si sono avuti fino al 2011.

Il riallineamento di competitività deve avvenire rapidamente e senza penalizzare i livelli salariali, in quanto la domanda interna va rilanciata, non certo compressa.

Inutile pensare di risolvere il problema mediante “riforme strutturali” che hanno per definizione tempi di attuazione lunghi. E che peraltro si sono fin qui tradotte soprattutto in precarizzazione del lavoro, e ulteriore (controproducente) tendenza alla riduzione delle retribuzioni.

L’unica via per riallineare le competitività dei vari paesi senza “spaccare” l’euro passa per un forte intervento di riduzione del cuneo fiscale sul lavoro, il quale NON deve però essere compensato da riduzioni di altre forme di spesa pubblica o privata (che anzi devono aumentare).

O questi interventi vengono finanziati da emissioni di strumenti monetari o finanziari concordati a livello dell’intera Eurozona (eurobond o debito pubblico dei vari paesi incondizionatamente garantito dalla BCE).

Oppure ogni paese deve riappropriarsi della possibilità di emettere una propria forma di moneta per finanziare questi interventi. Cosa possibile anche mantenendo (se si vuole) in essere l’euro, mediante l’emissione di Certificati di Credito Fiscale, paese per paese.

giovedì 23 gennaio 2014

Tutti in ripresa meno che l’Italia ?


La stampa e i talk-show “allineati”, di questi tempi, battono su un tema ricorrente. La crisi economica europea è finita, diversi paesi hanno ormai girato l’angolo. Purtroppo l’Italia è in ritardo.

Ne avevo già parlato qui con riferimento alla Spagna, ma vale la pena di allargare l’analisi, perché siamo in presenza di un caso emblematico di disinformazione economica. I paesi che hanno “girato l’angolo” vengono di salito indicati essere, oltre alla Spagna, l’Irlanda e il Regno Unito.

Queste nazioni hanno effettivamente ottenuto, nel 2013, una prestazione macroeconomica migliore (sarebbe meglio dire “meno disastrosa”…) dell’Italia. Ma i migliori risultati non sono per niente riconducibili all’aver “fatto le riforme”, all’aver eseguito con maggiore efficienza e sollecitudine le prescrizioni di Bruxelles.

Affermarlo è una vera e propria mistificazione, e per rendersene conto basta osservare i dati riportati qui di seguito.

 



 

Deficit pubblico / PIL

 

Variaz. PIL

tot 2011-3

media

2013

reale 2013

Regno Unito

21,8%

7,3%

6,1%

1,4%

Irlanda

28,3%

9,4%

7,6%

0,6%

Spagna

27,1%

9,0%

6,7%

-1,3%

Media RU / Irl / Spa

25,7%

8,6%

6,8%

0,2%

Italia

 

9,8%

3,3%

3,2%

-1,8%

 

Sono le stime più recenti elaborate dal Fondo Monetario Internazionale, e il dato 2013 potrebbe a consuntivo variare di qualche decimale (il deficit / PIL italiano per esempio era ancora dato due decimi sopra la fatidica soglia del 3%, che dovrebbe invece essere stata centrata – con immani sforzi, decisamente degni di miglior causa). Ma nulla cambia ai fini di quanto segue.

Il PIL reale italiano nel 2013 si è contratto dell’1,8%; la Spagna è scesa di meno e l’Irlanda e il Regno Unito hanno addirittura registrato un segno positivo.

Ma questa differenza di prestazione è totalmente riconducibile al fatto che questi paesi hanno stimolato le loro economie con deficit pubblici ben più alti rispetto a quanto è stato consentito all’Italia.

Ragionando per praticità sulle medie aritmetiche, il deficit pubblico italiano 2013 (3,2%) è stato, in percentuale del PIL, pari a meno della metà rispetto alla media dei tre “paesi virtuosi” (6,8%).

E questa non è neanche una situazione episodica. Il deficit pubblico / PIL cumulato del triennio 2011-2013 è stato contenuto sotto il 10% (poco più del 3% annuo) in Italia, contro quasi il 22% (oltre il 7% medio) nel Regno Unito e il 27-28% (9% medio o più) in Irlanda e in Spagna.

Quanto incidono sul PIL 3,6 punti di maggior deficit annuo ? un’ipotesi cautelativa è che avrebbero generato maggior PIL in proporzione 1:1. Cautelativa perché, in situazioni di domanda depressa come l’attuale, lo stimolo che i deficit producono sul PIL è più che proporzionale (maggior domanda implica maggior reddito e produzione, maggiore occupazione, ulteriore feedback positivo sulla domanda eccetera). E, inoltre, il maggior PIL implica maggiori entrate fiscali che compensano in parte il maggior deficit.

E’ vero, d’altra parte, che la maggiore domanda interna a parità di condizioni tende ad aumentare l’import, “limando” il beneficio sulla produzione interna e sul PIL. Qui peraltro si sarebbe potuto facilmente parare il colpo destinando una parte del maggior deficit alla riduzione delle imposte sui costi di lavoro (quindi del cuneo fiscale). Ottenendo tra l’altro un parziale, ma significativo riallineamento della competitività italiana rispetto a quella nordeuropea (tedesca in particolare), secondo lo schema noto a chi ha esaminato il progetto CCF.

Rimaniamo comunque con la semplice, ma plausibile e anzi prudenziale, ipotesi di maggior deficit = maggior PIL in proporzione 1:1.

Rispetto a questi dati 2013 (pressoché finali) per l’Italia:

 


PIL

 

1.557

Variazione PIL reale

-1,8%

Deficit pubblico

50

Deficit / PIL

 

3,2%

Debito pubblico

2.031

Debito / PIL

 

130,4%

 

avremmo invece una situazione di questo tipo:

 


PIL

 

1.617

Variazione PIL reale

2,0%

Deficit pubblico

110

Deficit / PIL

 

6,8%

Debito pubblico

2.091

Debito / PIL

 

129,3%

 

Un +2% di PIL reale rispetto al 2012, dato significativamente migliore rispetto ai tre paesi “virtuosi”, che hanno “svoltato l’angolo”, che hanno “fatto le riforme”…

Ma deficit più alti non sono stati consentiti all’Italia, perché (si dice) il maggior livello di debito pubblico “non lo consente”.

Bene, grazie al più alto livello del denominatore, anche il rapporto debito pubblico / PIL sarebbe stato migliore (più basso).

L’Italia è “in ritardo” ? l’Italia è il paese che con enorme scrupolo e diligenza ha seguito, e continua a seguire, le istruzioni dell’Unione Europea.

Problema: le istruzioni sono sbagliate

martedì 21 gennaio 2014

Progetto CCF: il percorso


Primo, assegnazione di 200 miliardi annui di Certificato di Credito Fiscale destinati a lavoratori e aziende, nonché ad altre forme di sostegno della domanda.

La quota destinata alle aziende (circa 80 miliardi) abbassa il loro costo del lavoro per unità di prodotto, allineando il livello italiano a quello tedesco.

Secondo, lo Stato italiano cessa di emettere titoli in euro. Al loro posto, vengono effettuate emissioni di titoli che, a scadenza, possono essere utilizzati per soddisfare obbligazioni finanziarie verso la pubblica amministrazione italiana (Mosler Bonds = tax-backed bonds = CCF di finanziamento).

Anno per anno, il debito pubblico italiano con obbligo di rimborso in valuta non sovrana (euro) si riduce (a meno della metà nel giro di tre-quattro anni, quasi a zero nel giro di sei-sette).

Quindi l’Italia conseguirà immediatamente due risultati:

===> attuazione di politiche di sostegno della domanda che avviano una forte ripresa

===> allineamento della competitività delle aziende italiane con i livelli tedeschi, permettendo alla ripresa di svilupparsi senza creare squilibri nei saldi commerciali esteri.

La soluzione del terzo fattore di inefficienza dell’attuale sistema monetario, l’esistenza di un debito pubblico con obbligo di rimborso in valuta non sovrana, avverrà gradualmente, ma rapidamente, nell’arco di alcuni anni.

 

Benchè non sia strettamente indispensabile ai fini del funzionamento di quanto sopra, con ogni probabilità lo stato italiano comincerà a sostenere quote via via crescenti della sua spesa pubblica in moneta sovrana (Nuove Lire).

Le Nuove Lire saranno anch’esse utilizzabili per pagare tasse e per onorare qualsiasi impegno finanziario nei confronti della pubblica amministrazione. Senza bisogno di ridenominare da euro in Nuove Lire gli impegni attualmente in essere per stipendi a dipendenti pubblici, pensioni eccetera, le nuove spese saranno effettuate in Nuove Lire.

Le Nuove Lire, una volta in circolazione, saranno via via utilizzate con sempre maggiore frequenza anche nei rapporti privati.

Non si verificheranno mai “rotture” dell’euro nel senso formale del termine, ma in pochi anni la moneta utilizzata in Italia sarà, in netta predominanza, la Nuova Lira. L’euro avrà un utilizzo limitato a casi particolari (contratti di finanziamento, rapporti con controparti estere eccetera). Non ci saranno impedimenti al suo utilizzo, semplicemente l’euro diventerà una moneta straniera, come il dollaro, lo yen, il franco svizzero o la sterlina.

 

L’Italia non ha MAI perso la sua sovranità monetaria

In regime “fiat”, la moneta sovrana è un credito fiscale.

Uno stato che ha sovranità fiscale ha anche sovranità monetaria.

L’Italia oggi non la sta utilizzando, ma può riprendere a farlo in qualsiasi momento.

sabato 18 gennaio 2014

Il M5S non si è schierato, è un problema ?


Non si è esplicitamente schierato a favore dell’uscita dall’euro “senza se e senza ma”, e questo disturba parecchi eurocritici.

Allora, il M5S è esplicitamente a favore della rimozione / ridiscussione dei vincoli di governance economica che caratterizzano l’eurozona e la UE – il 3% deficit / PIL, il MES, il fiscal compact, il pareggio di bilancio.

Però non dice “break-up” e continua invece a parlare di referendum. E questa è ritenuta una posizione troppo blanda, ambigua, confusa da chi sostiene che “o break-up o sei PUD€”.

Ma ci sono un paio di elementi oggettivi che sfuggono all’attenzione di molti, e che è invece bene aver presente.

In primo luogo, il sistema monetario europeo può essere efficacemente ristrutturato, per iniziativa autonoma di ogni singolo paese, senza passare tramite un break-up. Questo è un dato tecnico, un elemento di fatto - a modesto avviso di chi come me ha elaborato in dettaglio una via per effettuare questa ristrutturazione. Chi non ne è a conoscenza dovrebbe, mi sembra, approfondirla e (se non è in grado di confutarla sul piano tecnico) prendere atto che il break-up non è l’unica strada, e neanche la migliore.

In secondo luogo, il referendum è una via impercorribile in quanto, si dice, nell’imminenza delle sua effettuazione si avrebbero turbative di mercato, fughe di risparmio all’estero, rischi di corse agli sportelli eccetera. E questo è inaccettabile perché tra l’annuncio del referendum e la sua effettuazione passano necessariamente diversi mesi.

Già. Ma i breakuppisti duri e puri non hanno pensato a una cosa. Se un partito (o movimento che sia) che abbia una concreta chance di vincere le elezioni, di diventare il prossimo partito di governo, mette nel suo programma con grande determinazione e credibilità il break-up… tutto quanto sopra (turbative, fughe di risparmio, bank-runs) avviene, appunto, nel momento in cui le condizioni per accedere al governo si verificano.

Detto altrimenti, non c’è effetto sorpresa.

Dice: ma la Lega Nord si è schierata per il break-up “senza se e senza ma”. Ma la Lega Nord sa bene che non arriverà mai a essere il partito di riferimento di una coalizione di governo.

Chiarisco: valuto positivamente la presa di posizione della Lega, perché ritengo che si debba ragionare in termini di Comitato di Liberazione Nazionale: formare l’aggregazione di forze politiche più ampia possibile che attui l’uscita dalla camera a gas economica che è, oggi, l’Eurozona.

Quindi ben vengano tutti i soggetti che saranno disponibili a far parte di questa aggregazione. Ma la Lega ne potrà essere un partecipante, non il perno: che dica “break-up” a voce spiegata non è determinante su come realmente si agirà.

Ancora: ma Marine Le Pen in Francia ? beh a quanto mi consta neanche il Front National ha MAI detto “break-up o niente”. Ha detto e sta dicendo: fuori dai trattati, dai vincoli, dalla gabbia. Sulle modalità specifiche non mi risulta che si sia espresso – come un movimento politico che aspira alla leadership di governo effettivamente NON è tenuto a fare, e probabilmente NON è opportuno che faccia, fino al momento in cui l’azione verrà effettivamente attuata.

Tornando al M5S: quello che oggi deve dire, e sta dicendo, è: no a questa governance economica e a questo sistema monetario e finanziario.

Sulle modalità, è corretto che si tenga le mani libere. Primo, perché la via riformista, morbida, esiste.

Secondo, perché ove mai si imboccasse la strada del break-up, sarebbe (per ammissione dei breakuppisti stessi…) non solo possibile o opportuno, ma addirittura indispensabile restare nell’ambiguità fino all’ultimo momento.

giovedì 16 gennaio 2014

Che cosa hanno in testa gli eurocrati ?


La domanda me l’ha posta Fabio Cattaneo, che, in nessun particolare ordine di importanza (ai fini di quanto segue) (1) è una persona molto intelligente (2) non ha studiato economia (è ingegnere elettronico) (3) si sta, come tanti altri, formando un’opinione su quello che succede (4) è allibito da quanto legge e sente dire in merito a euro, crisi economica, austerità, fiscal compact, MES eccetera (5) è mio fratello.


Più precisamente la domanda è: se tutto quanto sta accadendo è privo di qualsiasi logica di corretta gestione macroeconomica, se sta prolungando e aggravando la crisi senza nessuna possibilità di risolverla, se in altri termini per andare da Milano a Venezia ci si è incamminati per Torino – e si rifiuta di invertire il percorso – beh, per quanto sbagliati, distorti, confusi, contraddittori, autolesionisti, dei motivi ci saranno - vero ?


Provo a indicarli e a quantificare il loro peso.


Cospirazione per creare una dittatura tecnocratica (20%)


Afflato verso la creazione del nobile ideale degli Stati Uniti d’Europa, ritenuto un grande salto evolutivo per l’umanità (qualcosa tipo il paradiso sovietico dei lavoratori, insomma un fine che giustifica la triste ma inevitabile necessità storica di rovinare la vita di qualche decina di milioni di persone) (50%)


Incompetenza in buona fede (60%)


Consapevolezza che l’euro non funziona, ma incapacità di immaginare un’alternativa applicabile senza i traumi del break-up (90%)


Autoreferenzialità e carrierismo: vivi in un mondo slegato dalla realtà quotidiana, dove si fa carriera allineandosi alle opinioni di chi in quel momento conta di più (60%)


Collusione con interessi economici che in passato hanno beneficiato moltissimo (oggi meno) da questa situazione (60%)


Rifiuto di ammettere gli errori e di assumerne le conseguenti responsabilità (60%)


Il totale fa 400% e non 100%, che non è un errore perché in ogni persona si mischiano varie motivazioni.


Non so se è utile, questa riflessione, ma l’ho trovata interessante. Graditi commenti (come sempre…)

martedì 14 gennaio 2014

Euro break-up, riforma morbida e posizione patrimoniale dell’Italia sull’estero


Uno dei principali argomenti di questo blog è descrivere un progetto di recupero della sovranità monetaria da parte dell’Italia, basato però su un meccanismo “morbido” e non su uno schema di break-up.


Quindi, introduzione di una forma di moneta nazionale, i Certificati di Credito Fiscale, immediatamente utilizzati per rilanciare la domanda e la capacità di spesa, nonché per ridurre i costi di lavoro effettivi delle aziende (senza penalizzare le retribuzioni, anzi aumentandole).


Si evita, per questa via, la “spaccatura” dell’euro, che vorrebbe dire cambiare la moneta di denominazione di debiti, crediti, contratti, retribuzioni, pensioni – trasformandoli da euro a Nuove Lire (con connessa svalutazione).


I vantaggi dello schema “morbido” rispetto al break-up sono descritti in parecchi articoli del blog, per esempio qui in forma sintetica e qui in modo più esteso.


Un punto apparentemente sfavorevole è invece il seguente. L’Italia è, nel suo complesso, un paese debitore verso l’estero. Se i debiti vengono convertiti in Nuove Lire e svalutati, per il paese c’è un vantaggio patrimoniale, che con il meccanismo “morbido” al contrario non si ottiene.


Una prima considerazione tuttavia è che nel progetto CCF, una parte significative delle emissioni vanno a ridurre i costi effettivi delle aziende e producono un recupero di competitività analogo a quello che sarebbe conseguito mediante la svalutazione della Nuova Lira conseguente al break-up.


Riguardo al debito estero, la cosa importante non è tanto il suo importo quanto la sua sostenibilità. Se l’Italia svaluta e converte il debito in Nuove Lire, la sostenibilità migliora.


Ma lo stesso tipo di miglioramento viene ottenuto se tutto il debito rimane in euro, e anche i costi delle aziende rimangono espressi in euro, MA vengono fortemente ridotti grazie alle assegnazioni di CCF previste dalla “riforma morbida”.


Questa è già una motivazione molto forte a favore del progetto CCF, rispetto alle ipotesi di break-up: si ottengono benefici analoghi evitando la “deflagrazione” dell’eurozona.


Per approfondire il tema, comunque, è utile analizzare i dati relativi alla posizione patrimoniale sull’estero dell’Italia. La situazione al 30.6.2013 si può sintetizzare come segue (fonte Banca d’Italia, dati in miliardi di euro).

 

DATI TOTALI
Attivo
Passivo
NETTO
% PIL 2013
Investimenti diretti e altri investimenti azionari
798
-415
383
Finanziamenti, obbligazioni e altri crediti / debiti (incluse posizioni in derivati)
1.075
-1.919
-844
TOTALE ITALIA
 
 
1.873
-2.334
-461
-30%

 

Il saldo netto delle posizioni patrimoniali attive e passive dell’Italia nei confronti dell’estero era, al 30 giugno 2013, negativo per 461 miliardi di euro, corrispondenti a circa il 30% del PIL.


Non si tratta di un valore molto elevato: per intenderci, in rapporto al PIL siamo in una situazione non molto differente dalla Francia o dagli Stati Uniti.


La posizione patrimoniale, tuttavia, va analizzata più in dettaglio effettuando alcune disaggregazioni.


Intanto i 461 miliardi sono un saldo netto tra la posizione relativa ad attività e passività che hanno natura di crediti e debiti, e gli investimenti di natura azionaria (compresi gli investimenti diretti, cioè le aziende italiane controllate da stranieri e, dall’altro lato, quelle straniere possedute da italiani).


I residenti italiani hanno debiti netti verso l’estero per 844 miliardi, parzialmente compensati da un saldo netto degli investimenti di natura azionaria positivo per 383 (844 meno 383 uguale 461, appunto).


Gli 844 miliardi di debiti netti a loro volta sono un saldo: i residenti italiani hanno debiti esteri per 1.919 ma anche crediti verso l’estero per 1.075.


Idem per gli investimenti azionari, dove invece c’è un saldo positivo. L’attivo è 798 (il signor Rossi che possiede azioni Apple, ma anche la Ferrero che ha filiali produttive in Germania o commerciali in Malesia), il passivo 415 (il fondo pensioni californiano che ha azioni Generali, ma anche l’IBM che ha una controllata italiana), per un netto come visto di 383.


Ora, se l’Italia svalutasse che cosa ci aspettiamo che accada alla sua posizione patrimoniale verso l’estero ? è in realtà estremamente aleatorio rispondere, perché l’effetto totale dipende da molti fattori non completamente noti e/o difficilmente prevedibili.


Debiti verso l’estero (1.919): quali si convertirebbero in Nuove Lire e quindi rimarrebbero nella loro valuta originaria ? In quest’ultima fattispecie rientrerebbero tutti quelli denominati in monete diverse dall’euro (dollari, yen, sterline, franchi svizzeri, valute asiatiche ecc.) Ma probabilmente anche i debiti in euro governati da contratti di diritto internazionale e non di diritto italiano. Per i debiti governati da contratti di diritto italiano è possibile dare applicazione alla lex monetae e trasformarli in Nuove Lire, per quelli governati dal diritto internazionale presumibilmente no.


Crediti verso l’estero (1.075): questi sono in euro o in altre valute, e in teoria se l’Italia adotta la Nuova Lira aumentano il loro valore (dal punto di vista del residente italiano che li detiene). In teoria: in quanto c’è da immaginare che se l’Italia svaluta i suoi debiti, ci saranno azioni di ritorsione da parte dei debitori stranieri (tu mi paghi Nuove Lire svalutate, e allora io ti rimborso, a mia volta, in moneta svalutata).


Rimane un saldo netto (844, come si diceva) di eccesso dei debiti rispetto ai crediti. Il beneficio netto della svalutazione potrebbe forse essere stimato in base a quello. Per esempio, una svalutazione del 20% corrisponde in questa ipotesi a un vantaggio di 20% x 844 = 169 miliardi di euro.


Ma è una stima, dicevo, molto aleatoria. Presuppone di convertire in Nuove Lire tutti i debiti esteri: e in parte, per quelli di diritto internazionale, presumibilmente questo sarebbe impossibile. E sicuramente non si convertirebbero quelli in valute diverse dall’euro.


La situazione potrebbe migliorare se i titolari italiani di crediti verso l’estero (i 1.075 di cui sopra) riuscissero a evitare di vederseli convertire in Nuove Lire. Ma qui si tratta di formulare previsioni sull’esito di contenziosi legali che sicuramente nascerebbero e coinvolgerebbero pesantemente non solo i privati ma anche e soprattutto i governi.


Teniamo anche conto che i residenti italiani detengono attività estere di natura azionaria (investimenti diretti e azioni) per, come si diceva, 798 miliardi, superiori ai corrispondenti passivi (415): e se si arriva a situazioni di contenzioso, non è affatto da escludere che possano esserci sequestri e azioni di rivalsa che toccherebbero anche queste attività.


Vi sembra che la situazione sia complicata ? bene, non ho ancora finito… fin qui si è ragionato come se esistesse un “signor Italia” che detiene attivi e passivi verso l’estero. Naturalmente non è così. C’è un settore pubblico italiano, che si trova nella seguente situazione.

 

SETTORE PUBBLICO
Attivo
Passivo
NETTO
% PIL 2013
Investimenti diretti e altri investimenti azionari
80
-49
31
Finanziamenti, obbligazioni e altri crediti / debiti
648
-1.642
-994
TOTALE SETTORE PUBBLICO
 
728
-1.691
-963
-62%

 

Il settore pubblico ha investimenti diretti e investimenti azionari di importi relativamente trascurabili. I numeri importanti sono i debiti verso l’estero (1.642) e i corrispondenti crediti (648), per un saldo totale negativo dell’ordine di un migliaio di miliardi.


Poi c’è il settore privato:

 

SETTORE PRIVATO
Attivo
Passivo
NETTO
% PIL 2013
Investimenti diretti e altri investimenti azionari
718
-366
352
Finanziamenti, obbligazioni e altri crediti / debiti
427
-277
150
TOTALE SETTORE PRIVATO
 
1.145
-643
502
32%

 

Al settore privato fa capo il grosso degli investimenti diretti e degli investimenti azionari (sia attivi che passivi) e questo non sorprende. Ma anche una parte non trascurabile dei crediti e dei debiti, con un saldo netto positivo (150 miliardi, risultato di 427 di attivo e 277 di passivo).


Peraltro, i privati non sono un soggetto unico, e quindi andrebbero capite le posizioni dei singoli, dove si avranno dei danni per alcuni e dei benefici per altri.


Tutto si può gestire, possono essere previsti dei meccanismi di compensazione eccetera. Tuttavia mi preme sottolineare quanto già detto in altri articoli: la situazione post un eventuale euro-breakup è alquanto diversa da quella che segue alla rottura delle parità nell’ambito di un sistema di cambi fissi (lo SME, per intenderci).


Nel 1992, l’Italia abbandonò la parità di 750 lire contro marco, uscì dallo SME e svalutò. Ma rimasero in essere, senza variazioni, tutti i contratti precedentemente stipulati: che si detenessero crediti o debiti in lire, marchi, dollari, yen o qualsiasi altra cosa, la valuta rimaneva quella. Non c’era alcun presupposto per megacontenziosi legali, che infatti non si verificarono.


Inoltre, chi aveva posizioni attive o passive in valuta sapeva che esisteva un rischio di modifica delle parità: i cambi fissi durano finché durano, e i riallineamenti sono sempre possibili (prima del 1992 in realtà se ne erano già avuti diversi, anche se di minore entità). Il rischio di cambio poteva quindi essere stimato. E se un’azienda o un investitore lo riteneva opportuno, poteva limitarlo o azzerarlo con opportune operazioni di copertura (vendita di valuta a termine, opzioni, finanziamenti in valuta ecc.): il che infatti è quanto avvenne nella maggior parte dei casi.


Per tutti questi motivi, la rottura dell’euro sarebbe sicuramente un evento dalle ripercussioni più complicate della rottura dello SME. Se “un po’” più complicate o enormemente più complicate, è una valutazione estremamente aleatoria.


In conclusione formulo una serie di domande ai sostenitori dell’”exit mediante break-up”:


Primo, è stata elaborata un’analisi di dettaglio delle implicazioni giuridiche e quantitative di tutti i fenomeni che ho sommariamente ricapitolato ? non mi risulta, ma sarò grato a chi mi fornirà indicazioni.


Secondo, non ritenete indispensabile definire un piano di dettaglio per attuare una procedura di break-up minimizzando gli effetti di quanto sopra ?


Terzo, vi è chiaro che il vantaggio patrimoniale per l’Italia di una svalutazione del suo passivo netto è estremamente aleatorio da stimare, ma peraltro non è neanche di un ordine di grandezza tale da fare una differenza significativa ?

(Chiarisco: sopra ho formulato l’ipotesi di un beneficio di 169 miliardi. Ora, premesso che l’imprecisione della valutazione, come spiegavo, è altissima, l’Italia attuando la “riforma morbida” si riappropria della sovranità monetaria, della possibilità di sviluppare politiche di pieno impiego e beneficia di un recupero di PIL stimabile nell’ordine di 300 miliardi nel giro di pochi anni. In queste condizioni non ha nessun problema di solvibilità sul suo debito estero: un beneficio una tantum di 100 o 200 miliardi, o quello che sia, non è determinante).


Quarto: ma in realtà non è nemmeno vero che ci sia un beneficio più elevato, nell’ipotesi di break-up, rispetto alla “riforma morbida”. Nel caso di break-up, miglioro la mia solvibilità perché svaluto. Nel caso di “riforma morbida”, la miglioro perché riduco fortemente il carico fiscale effettivo sul lavoro (e quindi abbasso il CLUP). Gli effetti (in termini di recupero del PIL e di sostenibilità del debito) sono analoghi. Mi sbaglio ?


Mi sembra molto importante che si avvii, con i sostenitori del break-up, un dibattito su questi temi.