domenica 28 ottobre 2018

Titoli di Stato non speculativi


Il video dell'intervento di Guido Grossi al Convegno Sovranità Popolare (Roma, 21 settembre scorso) ha ottenuto un successo mediatico veramente notevole (oltre 500.000 visualizzazioni ! ero anch’io tra i relatori ma non mi sono certo avvicinato a quei numeri parlando di Moneta Fiscale - comunque qualcosa d’interessante spero di averlo detto).

Oltre che vedervi il video se non l’avete già fatto, vi suggerisco questo bellissimo pezzo di Guido, dove replica a un articolo critico nei confronti del suo intervento.

Veramente tutto da leggere l'articolo di Guido, con grande attenzione. Io mi limito a sottolineare un punto, perché tocca un tema che mi viene spesso chiesto di commentare.

Tra le più comuni tipologie di titoli del debito pubblico italiano, BOT e CCT sono classici strumenti destinati ai risparmiatori individuali: i BOT per la loro breve scadenza, i CCT per i meccanismi di indicizzazione di cui sono dotati, tendono entrambi a manifestare un basso livello di volatilità del loro prezzo di mercato.

I BTP, a tasso fisso e a medio-lunga scadenza,  sono invece strumenti destinati a “investitori propensi al rischio”: non chiamateli speculatori se non vi piace, ma non è comunque una forma di impiego del risparmio adatta a chi cerca semplicemente tranquillità e si accontenta di un rendimento modesto (il recupero dell’inflazione o poco più). Il tasso fisso e la scadenza più lunga amplificano infatti gli effetti (sul prezzo di mercato del titolo) delle variazioni di spread e tassi di mercato

Non a caso, nell’era ante Maastricht gli strumenti di gran lunga più comprati dal pubblico erano, appunto, BOT e CCT (molto più dei BTP). E i risparmiatori individuali li acquistavano, appunto, direttamente, cioè senza passare (in genere) tramite l’intermediazione di fondi o di altre, più o meno complicate, strutture di gestione patrimoniale.

Modificare la struttura delle emissioni – meno BTP, più strumenti stabili e NON speculativi (CCT e BTP) – è una cosa che si può fare subito, molto più velocemente del progetto CIR (che pure ha i suoi elementi d’interesse, ma non è concepito per mobilitare in tempi rapidi grandi masse di risparmio).

Si può fare, e si deve fare, immediatamente.

Naturalmente, non viene per questo meno la criticità del progetto CCF / Moneta Fiscale: perché stabilizzare il collocamento dei titoli di Stato è estremamente importante, ma avere a disposizione uno strumento per immettere potere d'acquisto nell'economia lo è ancora di più.


mercoledì 24 ottobre 2018

Economia italiana: tre problemi e una soluzione


PRIMO PROBLEMA: un pesantissimo output gap - altrimenti detto, un enorme sottoutilizzo di risorse produttive, che significa altissima disoccupazione e sottoccupazione.

SECONDO PROBLEMA: il debito da rifinanziare in moneta estera – il Maastricht Debt – è rischioso ed è elevato rispetto al PIL. Va quindi trovata una strategia per ridurlo progressivamente. Ma questa strategia è inefficace, anzi controproducente per non dire distruttiva – come visto nel 2011-2014 – se si pretende di attuarla con tagli e tasse.

TERZO PROBLEMA: la rottura dell’euro con ridenominazione in Nuove Lire del debito esistente è però operativamente complessa, è destabilizzante, e non esiste il necessario consenso politico per attuarla.

Non si risolve nulla con modesti sforamenti (rispetto alle richieste UE) del rapporto deficit / PIL: sono insufficienti per rilanciare la crescita in misura adeguata, ma sufficienti invece per agitare le acque sul piano dei rapporti politici e dell’incertezza sui mercati.

LA SOLUZIONE – non credo che ne esistano altre, al di là di possibili varianti tecniche – è emettere una attività finanziaria che abbia valore, quindi dia potere d’acquisto chi la riceve, e funzioni anche come intermediario di scambio.

Un'attività finanziaria (vedi il link precedente) che non rientra nel Maastricht Debt e che quindi può essere emessa in misura tale da produrre una forte ripresa dell’economia, riducendo nel frattempo, in modo costante e significativo, il rapporto Maastricht Debt / PIL.

Lasciamoci i timori alle spalle, e procediamo. Si sa come fare: i CCF hanno tutte le caratteristiche appropriate per raggiungere l’obiettivo.

Serve visione, coerenza, coraggio politico.

Ma non esistono alternative sensate.


sabato 20 ottobre 2018

L'interlocutore dell'Italia non è la UE: sono i mercati


L’attuale tensione in merito alla legge di bilancio italiana per il 2019 viene descritta come un conflitto tra l’Italia e la UE. E i toni sono, effettivamente, molto accesi.

Ricordiamoci, tuttavia, che il vero interlocutore dell’Italia non è la UE, e neanche singole nazioni quali Germania o Francia (per quanto nella UE abbiano un peso politico particolarmente elevato).

La UE dà “consigli” e “raccomandazioni” (seguendo le quali l’economia italiana si è ridotta nelle condizioni attuali…) ma non dà soldi né fornisce garanzie.

La UE è un consulente: la paghiamo noi (siamo contribuenti netti), diamo soldi noi e forniamo noi garanzie per altri paesi (e non viceversa) tramite i fondi salvastati. Un consulente il cui contributo alla soluzione dei problemi economici italiani non è stato esattamente brillantissimo - e che per di più si pone in termini e toni che un consulente, nei confronti del suo cliente, non userebbe mai (e se lo facesse il suo incarico non durerebbe a lungo…).

Ma al di là di questo, il punto chiave è che i soldi li danno i mercati. E’ così perché l’Italia è indebitata in una moneta che non emette. Un errore enorme, ma questa è la situazione odierna.

E i mercati devono essere convinti che l’Italia sia in grado di ridurre (in proporzione al PIL) il Maastricht Debt, il debito in euro che deve essere collocato e rifinanziato.

Come è possibile ? introducendo uno strumento finanziario che non è debito (i CCF) per effettuare azioni di politica economica espansiva.

In queste condizioni sarà possibile mostrare in modo assolutamente convincente che la strategia di riduzione del Maastricht Debt (in rapporto al PIL) esiste, è solida e fondata.

Questa è le linea da adottare, e questa è la logica sottostante. Da spiegare al mercato, non alla UE.


martedì 16 ottobre 2018

La Moneta Fiscale non porta al breakup


Dora Di Caprio e Raphael Raduzzi hanno riportato alla mia attenzione un tema che in effetti è un leitmotiv ricorrente del dibattito in merito alla Moneta Fiscale: introdurre la MF non verrà inevitabilmente visto come un passo verso lo scioglimento totale dell’Eurozona, o quantomeno verso l’uscita dall’euro dell’Italia, con tutte le turbolenze e le complicazioni insite in un processo di breakup ?

Effettivamente nell’equivoco “moneta parallela = breakup” sono caduti in parecchi (vedi qui, tra i tanti, Stiglitz). Ma le cose stanno diversamente, per varie ragioni.

In primo luogo, anche nel momento in cui esistesse già una Moneta Fiscale in circolazione, uscire dall’euro attivando un breakup è una procedura molto complessa. I problemi operativi sono molteplici: la necessità di ridenominare da euro a Nuove Lire un numero enorme di contratti, gli inevitabili contenziosi legali, le turbolenze che si produrranno sui mercati finanziari.

Nello stesso tempo, la Moneta Fiscale risolve le disfunzioni dell’eurosistema e restituisce allo Stato la possibilità di sviluppare le necessarie azioni di politica economica: immettere potere d’acquisto, ridurre il carico fiscale, rilanciare gli investimenti. A questo punto, l’incentivo a “rompere” l’euro viene meno. Nessuno si sveglia la mattina con l’idea di produrre uno sconquasso nel sistema monetario. Se l’ipotesi di breakup continua, oggi, a incombere (pur non rientrando nel programma dell’attuale governo) è per una ragione molto semplice: il sistema attuale è spaventosamente inefficiente. Le disfunzioni vanno comprese e risolte; solo a quel punto gli scenari di deflagrazione cesseranno di essere considerati una minaccia concreta.

Un altro elemento da avere ben presente è che l’immissione di Moneta Fiscale necessaria a sviluppare le adeguate politiche di rilancio dell’economia è una modesta frazione delle attività finanziarie in circolazione sul territorio italiano. Le nostre stime sono che, adottando il formato CCF (Certificati di Credito Fiscale), l’ammontare di titoli fiscali in circolazione non supererà mai un ordine di grandezza di circa 200 miliardi.

Queste poche centinaia di miliardi di CCF si confrontano con quasi 4.000 miliardi di depositi bancari e monete, e con oltre 3.000 di titoli a reddito fisso in euro (di cui 2.000 titoli di Stato).

Il confronto è quindi tra poche centinaia di miliardi di Moneta Fiscale, e molte migliaia di miliardi di attività finanziarie (denominate in euro) già oggi in circolazione – attività finanziarie che la Moneta Fiscale peraltro non è destinata a sostituire, ma a integrare.

Tra parentesi anche i CCF, pur non essendo titoli di debito (in quanto non sono soggetti a essere rimborsati cash) sono denominati in euro, in quanto sono utilizzabili per ridurre pagamenti verso la Pubblica Amministrazione (soprattutto a titolo di tasse e imposte) che andrebbero, altrimenti, corrisposti in euro.

L’euro in questo scenario rimane la valuta di conto (quella in cui si esprimono bilanci, posizioni bancarie, crediti e debiti). Non si verificano rotture del sistema, né ridenominazioni.

Il progetto Moneta Fiscale è, in sintesi, la maniera più efficace per risolvere le disfunzioni del sistema economico-monetario oggi in essere nell’Eurozona. Consente di sviluppare le necessarie azioni di politica economica bloccando, contemporaneamente, l’incremento del Maastricht Debt (il debito pubblico da rimborsare cash e da rifinanziare costantemente sul mercato dei capitali: quello che rappresenta un enorme fattore di inquietudine per tutti, perché l’Italia ha nello stesso tempo necessità di incrementare il potere di acquisto in circolazione, ma anche di ridurre – e non, viceversa, di incrementare – la dipendenza dai mercati finanziari).

E non ha neanche senso preoccuparsi più di tanto dell’ostilità dei media allineati all’establishment in merito al progetto Moneta Fiscale. Non mancherà, e già lo si è constatato. Ma è un’ostilità che va data per scontata, qualunque strada si prenda. Oggi la stiamo affrontando per una legge di bilancio che prevede un modesto incremento del deficit pubblico: un passettino nella direzione giusta, ma di per sé del tutto insufficiente. Il progetto Moneta Fiscale ha ben altre potenzialità. La sfida all’establishment va lanciata e vinta per effettuare un’azione risolutiva, non per raggiungere obiettivi di scarsa portata.


domenica 14 ottobre 2018

Bussero, venerdì 19 ottobre 2018 ore 21

Salone di Villa Casnati - via San Carlo 5 - Bussero (MI) - Linea Verde MM2

Nell'ambito del ciclo di seminari organizzato da "Sottosopra", parlerò insieme a Filippo Abbate (presidente MMT Italia) sul tema

"Debito pubblico e ricchezza dei cittadini"

Qui la locandina.

venerdì 12 ottobre 2018

Riflessioni sul PIL potenziale


Uno scambio di idee con Biagio Bossone mi ha spinto a mettere a fuoco alcune considerazioni in merito a questo articolo di Antonio Fatas. Articolo, peraltro, che riprende temi sviluppati dallo stesso Fatas in un precedente lavoro, elaborato in collaborazione con Larry Summers.

Fatas e Summers argomentano in termini molto convincenti che la reazione prociclica alla crisi dell’Eurozona – in particolare l’austerità attuata da vari paesi, soprattutto tra il 2010 e il 2014 – ha generato un processo di “aspettative autorealizzantesi”. L’errata valutazione dei moltiplicatori fiscali ha condotto ad azioni di consolidamento che hanno abbattuto il PIL molto più del previsto. A sua volta, l’andamento negativo delle economie ha spinto a rivedere al ribasso le stime in merito al PIL potenziale e ai suoi tassi di crescita.

Si è generato in effetti un circolo vizioso in cui l’austerità abbatteva il PIL, la mancanza di crescita creava dubbi sul potenziale di sviluppo delle economie, e la revisione al ribasso del PIL potenziale veniva addotta come giustificazione del rifiuto di abbandonare le politiche di austerità (perché, si sosteneva, gli spazi di recupero, in altri termini la differenza tra PIL effettivo e PIL potenziale, non erano poi così elevati).

Non si tratta, in effetti, solo di psicologia. Il pessimo andamento dell’economia, in particolare (soprattutto in Italia) tra metà 2011 e inizio 2014, ha prodotto caduta dei redditi, fallimenti aziendali, riduzione della propensione a investire, contrazione del credito bancario. Tutto questo crea non solo disoccupazione e sottoutilizzo delle risorse produttive, ma anche un abbassamento del potenziale economico del paese, dovuto in prima battuta e principalmente al calo degli investimenti.

Premesso che si tratta di ulteriori conferme in merito a quanto siano state scellerate le politiche intraprese in quel periodo, il dubbio che si pone oggi è il seguente: se il potenziale produttivo è inferiore a quanto sarebbe altrimenti stato, attuare politiche espansive della domanda non rischia di essere meno efficace di quanto ci si attende – appunto perché gli spazi di recupero sono meno ampi del previsto, a causa della diminuzione del potenziale ?

Una prima considerazione in merito è che il potenziale a breve termine è una cosa, quello a medio-lungo termine è un’altra. Le aziende hanno a disposizione un’enorme riserva di manodopera inattiva o sottoutilizzata, che può rientrare velocemente in azione se la domanda riparte. La capacità impiantistica invece può essersi in una certa misura contratta, ma ripristinarla non è difficile (anche se è meno immediato) quando i livelli di attività tornano a crescere e (di conseguenza) le aziende riprendono a investire.

Esempio pratico: un’azienda aveva sei linee produttive in un capannone e ne ha disattivate due perché la domanda si è abbassata. Quanto è difficile riportarle a sei ? è solo questione di comprarle e di metterle in funzione. Non lo fai in pochi mesi non perché sia impossibile, ma perché vuoi prima verificare che il recupero di domanda sia permanente. Ma entro un paio d’anni, se la tendenza prosegue, senz’altro sì. E gli investimenti sono un ulteriore fattore di accelerazione della ripresa.

In altri termini, una depressione economica che dura un anno termina con un forte e rapido rimbalzo, una depressione che è durata dieci anni, invece, con un recupero più graduale. Se viene ripristinato un adeguato livello di domanda, l’Italia è in grado di generare crescite del PIL non, evidentemente, del 7% o del 10%, ma sicuramente superiori al 3% annuo per tre o quattro anni in fila. E questi ultimi risultati sono infatti quelli che riteniamo raggiungibili con il progetto Moneta Fiscale.

La crisi del 2008 e le catastrofiche politiche euroausteriche hanno sicuramente ridotto, in questi anni, il potenziale di crescita del PIL italiano. Ma questo non significa che non esista, oggi, un enorme output gap, cioè una fortissima differenza tra PIL effettivo e PIL potenziale.

A valori costanti 2017, il PIL reale è sceso da 1.816 miliardi nel 2007 a 1.716 nel 2017. Ipotizzando che il livello del 2007 (ultimo anno precrisi) esprimesse la piena capacità dell’economia italiana, il PIL potenziale del 2017 sarebbe arrivato a 2.107 crescendo dell’1,5% annuo (stima che ai tempi era ritenuta ragionevole, e anzi cautelativa). Gli avvenimenti di questa decade hanno sicuramente ridotto il trend di sviluppo potenziale: ma anche stimandolo allo 0,5% (un punto annuo in meno) si arriva, nel 2017, a 1.909.

Gli ordini di grandezza, in sintesi, sono i seguenti: la crisi e le politiche procicliche “prescritte” dalla UE hanno tagliato il potenziale italiano di un paio di centinaia di miliardi, ma ciò nonostante il PIL reale è comunque un altro paio di centinaia al di sotto del potenziale stesso.

Un’indicazione in merito alla plausibilità di queste stime la fornisce il diverso trend delle esportazioni reali italiane rispetto al PIL: +8,7% le prime nel 2007-2017, -5,5% le seconde. Sono circa quattordici punti di differenza, che corrisponde a un ordine di grandezza grosso modo di 240 miliardi. Questo è il maggior PIL che l’Italia genererebbe se la sua domanda interna avesse seguito il trend della produzione rivolta all’estero, cioè ai mercati dove la domanda non è stata artificialmente compressa dagli eventi del 2011-2014.

Iniettando la domanda mancante nell’economia italiana, i margini di recupero, nonostante i danni inflitti al tessuto produttivo dalle catastrofiche azioni “europrescritte”, sono enormi. Questa è la direzione lungo la quale procedere. E la Moneta Fiscale è lo strumento da adottare.


lunedì 8 ottobre 2018

La supercautelativa NADEF


E’ finalmente disponibile la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza, predisposta dal Ministero dell’Economia.

Qui il link.

L’impressione che ne ho ricavato è che si tratta di una previsione improntata a un altissimo grado di cautela. E’ francamente sconcertante che i giornaloni e i media allineati all’establishment antigovernativo descrivano il NADEF come un documento azzardato, per non dire irresponsabile (giudizi che per la verità si leggevano prima ancora che fosse pubblicato…).

La previsione 2019 tendenziale, cioè in assenza di interventi (in altri termini, se non si intervenisse in alcun modo sulla legislazione in essere) è, rispettivamente, dello 0,9% per la crescita reale del PIL e dell’1,2% per il rapporto deficit / PIL.

La previsione programmatica, quella cioè che incorpora le proposte del governo (minori tasse, reddito di cittadinanza, revisione della legge Fornero sulle pensioni eccetera) è invece dell’1,5% per il PIL reale e del 2,4% per il deficit.

Questo equivale a dire che un 1,2% di deficit in più dovrebbe produrre un’accelerazione del PIL reale pari allo 0,6%, con un moltiplicatore quindi di 0,5x – estremamente cautelativo e con ogni probabilità sottostimato.

Inoltre, come si afferma a pagina 5 del documento “le stime di finanza pubblica non comprendono effetti di retroazione della maggiore crescita sul saldo di bilancio”. Il che è del tutto inverosimile: la maggiore crescita produrrà incassi più elevati (per il settore pubblico) pari a poco meno di metà del suo importo, essendo la pressione fiscale complessiva superiore al 40%. Almeno, quindi, uno 0,2% (approssimato per difetto) di minor deficit.

Il NADEF menziona anche, ma non incorpora in alcun modo nelle stime, un ulteriore potenziale beneficio sulla crescita dovuto (1) all’accelerazione di investimenti del settore pubblico (specialmente degli enti locali) già computati nei deficit passati ma mai avviati, nonché (2) all’incremento degli investimenti effettuati da società a partecipazione statale.

E rimane aperta la possibilità di introdurre, a legge di bilancio approvata, un primo assaggio di Moneta Fiscale / CCF, per esempio a beneficio dei lavoratori dipendenti e/o a riduzione del cuneo fiscale dal lato delle imprese.

Avendo spesso a che fare, nella mia attività professionale quotidiana, con manager di aziende, ho sempre apprezzato l’atteggiamento underpromising and overdelivering. In altri termini, promettere poco e realizzare di più. Sarà un caso, ma manager del genere si trovano regolarmente nelle aziende buone e ben gestite.

Spero, ma oltre a sperare credo, che questo sarà il caso anche per i risultati 2019 dell’economia italiana.

venerdì 5 ottobre 2018

Costo del lavoro: un equivoco da chiarire


Ogni tanto, discutendo dell’impatto dell’euro sulla competitività delle aziende italiane, mi imbatto in argomentazioni di questo tipo: se l’euro è sopravvalutato per i fondamentali dell’economia italiana, la conseguenza è che il costo del lavoro per unità di prodotto è più alto di quanto sarebbe se avessimo mantenuto la lira. Ma il lavoro, in realtà, per la maggior parte delle aziende è tutto sommato un costo di secondaria importanza.

Una lettura molto superficiale dei dati sembrerebbe avallare questa interpretazione.

Prendiamo ad esempio la struttura di conto economico di una tipica, discretamente florida piccola-medio azienda. Ad esempio, 50 milioni di fatturato e 5 di utile operativo, realizzati con 100 dipendenti a cui corrisponde un costo del lavoro totale di 4 milioni (40.000 euro procapite).

L’azienda ha un costo variabile del prodotto di 30 milioni (che corrisponde a un margine di contribuzione del 40%). Il conto economico sintetico è il seguente:

Fatturato                                           50
Costo variabile del prodotto             (30)
Costo del lavoro                               (4)
Altri costi operativi                          (11)
Utile operativo                                 5

Su costi operativi totali di 45 milioni (50 meno 5) i costi di lavoro sono soltanto 4, e una loro variazione del 10% vale 400.000 euro. Che rispetto all’utile operativo di 5 milioni è pari all’8%.

Non è pochissimo l’8%, ma tutto sommato non appare neanche un’incidenza drammaticamente elevata.

Ma questa argomentazione perde totalmente di vista il fatto che TUTTI gli acquisti incorporano, indirettamente, quote più o meno elevate di costo del lavoro, che non si legge nel conto economico dell’azienda perché è sostenuto dai fornitori.

Se ragioniamo sulla situazione effettiva, per l’azienda e a maggior ragione per il sistema paese, il dato rilevante non è “400.000 euro su 5 milioni”.

Il dato rilevante è l’incidenza dei redditi da lavoro sul PIL del paese. E stiamo parlando di circa i due terzi, non certo dell’8%...

Ne segue che il problema della perdita di competitività del lavoro dato dall’utilizzo di una moneta sopravvalutata (per l’Italia) non è “tutto sommato marginale”. E’ pesantissimo.

Questo è uno dei grandi problemi dell’euro. E’ risolvibile senza arrivare alla rottura del sistema ? sì, emettendo CCF / Moneta Fiscale (anche) per abbassare il cuneo fiscale: sia dal lato delle aziende, che dal lato dei lavoratori.

Si ottiene così, contemporaneamente, un effetto espansivo sulla domanda interna e un recupero di competitività del lavoro, ma senza ridurre (al contrario, anzi, incrementandoli) i salari netti.

E si massimizza anche l’effetto delle politiche di espansione della domanda, perché si evita l’effetto di peggioramento del saldo commerciale estero che la pura e semplice azione espansiva altrimenti implicherebbe.


mercoledì 3 ottobre 2018

A Parallel Currency for Italy is Possibile - il video

A nostra insaputa, da questo articolo è stato ricavato un video. Abbastanza spartano, non fa molto di più se non recitare il testo… ma comunque...

...ecco qui il video.

lunedì 1 ottobre 2018

La banale differenza tra recessione e depressione


In questi giorni si sprecano commenti e analisi sull’impatto della manovra economica che il governo andrà ad approvare. Si “sprecano” nel senso che rischiano di essere tempo perso, fino al momento in cui non saranno noti, oltre che l’obiettivo di deficit / PIL (l’ormai famoso 2,4%) il dettaglio degli interventi, le stime in merito all’andamento dell’economia in assenza di manovra, le ipotesi sugli impatti delle azioni da mettere in atto, eccetera.

Per questo motivo, non formulo giudizi fino al momento in cui sarà diffuso il documento analitico – 700 pagine che saranno da leggere con molta, molta attenzione – che costituisce la Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (per gli amici, il NADEF). Ed è questione di pochissimi giorni.

Nel frattempo, un caveat.

Uno dei commenti più fuorvianti, che si legge però con discreta frequenza, è che l’economia italiana sta crescendo, per cui sarebbe sbagliato impostare politiche espansive – che vanno messe in atto nei periodi di recessione, non di crescita.

L’equivoco, banale, sta nella differenza tra recessione e depressione.

Un’economia è in recessione quando il PIL reale – la quantità di beni e servizi che si producono, misurata a potere d’acquisto costante – scende.

Un’economia è in depressione quando il PIL reale è significativamente al di sotto del suo potenziale (il che implica alta disoccupazione e basso utilizzo della capacità produttiva delle aziende).

Un caso limite, utile come esempio: se un paese perde il 20% del PIL nel 2017 e recupera il 4% nel 2018, direste che la sua economia è “tonica” e che non servono politiche espansive perché il 4% è un ottimo tasso di crescita ?

In realtà è solo un modesto rimbalzo, se confrontato con il disastro avvenuto nell’anno precedente, ed è del tutto insufficiente a riportare l’economia in condizioni di normalità.

Nel 2017 il PIL reale italiano è cresciuto dell’1,6%, che non è un tasso sbalorditivo ma è quantomeno il migliore ottenuto da parecchi anni a questa parte.

Ma il PIL reale 2017 è stato ancora inferiore di 100 miliardi a quello dell’ultimo anno pre-crisi – il 2007, dieci anni prima !

Nel 2017 l’economia italiana ha quindi conseguito una (modesta) espansione, insufficiente però a risollevarla dal suo stato di (pesante) depressione.

In aggiunta a tutto ciò, il 2018 sta mostrando segni di rallentamento, non solo in Italia ma in tutti i paesi dell’Eurozona.

La mia preoccupazione, di conseguenza, è che la manovra economica non sia abbastanza espansiva, e che non riesca quindi a conseguire un tasso di crescita 2019 almeno pari al 2% reale – che è la linea di demarcazione tra il successo e un risultato deludente.

Sarebbe quindi stato estremamente opportuno aver predisposto strumenti quali la Moneta Fiscale, per dare un impulso all’economia molto maggiore, e senza aumentare la dipendenza dai mercati finanziari.

Ma rimediare è possibile. Quello che non si è fatto prima può essere fatto ora. Deve diventare una priorità del governo, però.