sabato 28 gennaio 2017

Si sapeva tutto fin dall'inizio

e i tedeschi competenti e in buona fede lo sapevano e lo dicevano anche.

Il notissimo (ma non quanto meriterebbe) intervento di Gregor Gysi al Bundestag, 23 aprile 1998.





lunedì 23 gennaio 2017

Le svalutazioni competitive che l’Italia NON faceva


Per favore, basta ripetere che l’Italia con la lira “faceva le svalutazioni competitive” e che reintrodurre la moneta nazionale ci farebbe tornare a quello. Non si può più sentire, non è vero.

Una svalutazione competitiva si verifica quando un paese mantiene il cambio della sua moneta a livelli tali da produrre sistematicamente, in modo continuo, surplus commerciali abnormi. Oggi la Germania ha un cambio fortemente sottovalutato rispetto ai fondamentali della sua economia. La Germania ha attuato una svalutazione competitiva. Non ha svalutato la propria moneta ma è inserita in un sistema (l’euro) che impedisce di rivalutarla. Il che è equivalente.

L’Italia in passato aveva un'inflazione più alta di quella della Germania (e di altri paesi, ma le differenze con Francia, UK, Svezia, USA erano molto minori). Era quindi necessario che si verificasse uno slittamento del cambio della lira nei confronti del marco tedesco. Ma non erano svalutazioni competitive, erano fisiologici riallineamenti valutari.

Si può discutere e argomentare che l’Italia avrebbe potuto controllare meglio, tenere più bassa la propria inflazione. Ma non ha senso affermare che il cambio della lira è stato manovrato strumentalmente al ribasso. Al contrario: l’Italia ha, in situazioni molto rilevanti e significative, depauperato riserve valutarie per cercare di sostenere il cambio, quindi per mantenerlo a livelli insostenibili in quanto troppo alti. E’ avvenuto nel celebre caso degli anni che hanno preceduto la rottura dello SME nel 1992, ma anche nel meno noto episodio del 1976 (illustrato qui molto bene da Claudio Borghi).

Quindi: la Germania dall’introduzione dell’euro in poi ha attuato una svalutazione competitiva. L’Eurozona in corrispondenza dell'avvio del Quantitative Easing ha attuato una svalutazione competitiva. L’Italia in passato non ha attuato svalutazioni competitive: semplicemente, ha lasciato (spesso più tardi del necessario, dopo essersi dissanguata in azioni di sostegno destinate a fallire) che il cambio si riallineasse ai suoi fondamentali economici.

Lo stesso accadrà di nuovo in caso di rottura dell’euro: si verificherà un riallineamento (nei confronti della moneta tedesca, non necessariamente nei confronti del dollaro, tra l'altro). E senza dubbio qualcuno lo chiamerà “svalutazione competitiva” della Nuova Lira. Ma sbagliando.


sabato 21 gennaio 2017

Globalizzazione, dove sta il problema

La globalizzazione, nella sua dimensione economica, implica in buona sostanza che le imprese producono dove vogliono, vendono dove gli pare, e pagano le tasse dove preferiscono.

Evidentemente, questo produce (tra le altre cose) un incentivo a spostare le produzioni in paesi dove le retribuzioni e anche gli standard ambientali e le protezioni sociali sono più bassi.

Questo ha contribuito alla crescita di paesi che sono passati dal sottosviluppo a condizioni di reddito procapite decisamente più vicine a quelle dei paesi avanzati. Quindi maggiore eguaglianza a livello mondiale, di per sé una buona notizia.

Ma ha anche causato un rilevantissimo incremento del potere contrattuale delle aziende globalizzate nei confronti dei lavoratori residenti nei paesi avanzati, che sono stati posti in diretta concorrenza con la forza lavoro dei paesi emergenti.

La globalizzazione così condotta ha avuto due chiari vincitori – le aziende globalizzate e i paesi emergenti – e un chiaro perdente – i lavoratori e in generale i segmenti economici medi e bassi dei paesi sviluppati.

La globalizzazione deve necessariamente funzionare in questo modo ? no.

Un primo correttivo è evitare sbilanci commerciali: fare in modo che non ci siano paesi che accumulino sistematicamente surplus, e introdurre invece meccanismi che spingano al riequilibrio.

Un secondo correttivo è la riqualificazione e la riconversione della forza lavoro, nei paesi sviluppati, verso attività a maggior valore aggiunto e/o difficilmente trasferibili all’estero.

In parte questo avviene in modo spontaneo, perché i settori ad alto contenuto di tecnologia, di design, di progettazione beneficiano della crescita dei paesi emergenti, che diventano mercati di sbocco. Ma se non è adeguatamente incentivato, il processo rischia di essere di gran lunga troppo lento.

Professioni qualificate, di grande utilità sociale, e non trasferibili all’estero devono essere incentivate e ricevere più, non meno risorse. Queste professioni sono spesso collegate all’impiego pubblico: sanità e istruzione sono forse i due casi più significativi.

La globalizzazione in sé può essere non solo un beneficio netto per l’economia mondiale, ma anche funzionare senza creare danni o penalizzazioni a nessuno. Purtroppo, è stata invece attuata accettando, o addirittura pianificando, squilibri commerciali, nonché contrazioni della spesa rivolta a segmenti qualificati di pubblico impiego.

La crisi finanziaria del 2008 e l’Eurocrisi soprattutto dal 2011 in poi hanno ulteriormente, gravemente peggiorato la situazione. Ci si è rifiutati di monetizzare i deficit pubblici nella misura necessaria a ristabilire condizioni di pieno impiego, nonostante l’assenza di qualsiasi rischio di inflazione. Si è reso il lavoro ancora più svilito e precario. Si è ulteriormente peggiorata la forza contrattuale dei segmenti di popolazione deboli. Si continua, in particolare nell’Eurozona, a non adottare le politiche espansive necessarie a risolvere una crisi deflattivo-depressiva.

Ancora, si cerca di strumentalizzare l’immigrazione: un potenziale beneficio in condizioni di crescita economica e di pieno impiego, ma un’ulteriore pressione verso il basso delle condizioni socio-economiche delle classi disagiate in un contesto depresso come l’attuale.

La crescita degli schieramenti politici “populisti”, nel mondo economicamente sviluppato, è dovuto al modo in cui le élite hanno strumentalizzato la globalizzazione. In questo contesto, il populismo è una reazione fisiologica e perfettamente giustificata. E sarà altamente benefico se porterà a un profondo riorientamento delle politiche economiche, in tutto il mondo occidentale sviluppato.


mercoledì 18 gennaio 2017

Alcune (ulteriori) considerazioni sul progetto CCF


Clausole di salvaguardia: i CCF dovranno essere messi in circolazione mediante assegnazione gratuita a varie categorie (lavoratori a reddito basso e medio-basso, fasce sociali disagiate, aziende per riduzione impatto cuneo fiscale, sostegno a investimenti ecc.).

A fronte delle assegnazioni, è possibile prevedere – anche con interventi normativi già predisposti – azioni di segno opposto e pari importo (clausole di salvaguardia), con la stessa decorrenza temporale dei CCF assegnati.

In pratica, se nel 2017 vengono assegnati 30 miliardi di CCF, si prevede fin d’oggi di attuare azioni fiscali compensative di pari importo con effetto 2019, perché solo nel 2019 i CCF diventeranno utilizzabili per conseguire sconti fiscali.

Idem per gli anni successivi – le assegnazioni 2018 avranno copertura 2020, le assegnazioni 2019 avranno copertura 2021, eccetera.

I CCF hanno valore autonomo fin dal momento dell’emissione e potranno essere convertiti in euro cedendoli sul mercato finanziario, o alternativamente circolare come mezzo di pagamento nei confronti di esercizi commerciali e imprenditoriali che li accetteranno (vedi seguito). C’è quindi un immediato incremento del potere d’acquisto in circolazione, che stimola domanda, produzione e occupazione.

Gli obiettivi che l’Italia deve conseguire, alla luce del Fiscal Compact e dei trattati UE, in buona sostanza sono il pareggio di bilancio annuo – quindi l’equilibrio tra euro incassati ed euro pagati da parte della pubblica amministrazione – e la costante riduzione del rapporto tra debito pubblico e PIL.

L’equilibrio tra euro incassati ed euro pagati implica naturalmente che il debito non aumenti in valore assoluto.

Nel momento in cui i CCF cominceranno a essere utilizzati per conseguire gli sconti fiscali, quindi nell’ipotesi a partire dal 2019, si potrà verificare una delle seguenti ipotesi.

La ripresa ha prodotto un maggior livello di gettito fiscale lordo tale che, nonostante l’effetto dell’utilizzo dei CCF per conseguire sconti, l’equilibrio tra entrate e uscite in euro della pubblica amministrazione sarà raggiunto. In questo caso le clausole di salvaguardia verranno automaticamente disattivate, in quanto prive di necessità.

Oppure:

Il maggior gettito non ci sarà, o sarà insufficiente. In questo caso le clausole di salvaguardia resteranno in essere per l’importo necessario, totale o parziale.

In nessuna circostanza si potrà verificare una mancata copertura dell’emissione di CCF. La copertura sarà assicurata o dalla ripresa economica, o dalle clausole di salvaguardia (o da un misto delle due cose).

Conversione dei CCF e conseguenze sulla loro natura debitoria: i CCF non sono debito in quanto non sussiste alcun impegno, da parte della pubblica amministrazione, a rimborsarli in euro. Incidono sul gettito fiscale futuro, ma questo effetto è compensato, come visto sopra, o dalla ripresa o dalle clausole di salvaguardia.

Nel corso dei nostri contatti con la Ragioneria Generale dello Stato, ci è stato espresso il dubbio che, mentre è indubbio che i CCF all’atto dell’emissione non concorrono ad aumentare il deficit pubblico annuo, potrebbero dover essere ricompresi nello stock di debito pubblico, nella misura in cui siano detenuti da istituti di credito.

A quanto abbiamo compreso, il dubbio nasce dal fatto che gli istituti di credito devono dichiarare il possesso dei CCF all’attivo. L’Istat, ricevendo le relative comunicazioni, deve a questo punto prendere atto dell’esistenza di questi titoli e quindi registrare il corrispondente impegno del settore pubblico come componente del debito.

Questo tema non ci è risultato chiaro in quanto non ci sono stati forniti precisi riferimenti normativi o regolamentativi. Ci appare illogico che uno stesso titolo (i CCF) sia o non sia debito in funzione di chi lo detiene (una banca o un altro soggetto) nel momento in cui la natura del titolo medesimo è esattamente la stessa.

Ulteriori interazioni con la Ragioneria Generale dello Stato potranno fare chiarezza sull’argomento.

In ogni caso, una serie di altri soggetti diversi dagli istituti di credito – fondi d’investimento, compagnie assicurative, holding finanziarie, investitori privati eccetera – potrebbero essere compratori dei CCF senza incorrere nel problema sopra ipotizzato.

Inoltre, è comunque di grande utilità, per rendere più funzionale il progetto, sviluppare le possibilità di utilizzo dei CCF per effettuare transazioni e compravendite dirette, senza passare tramite una conversione mediante cessione sul mercato finanziario.

In particolare, le fasce sociali disagiate e i lavoratori a basso reddito potrebbero trovare poco pratico e/o poco conforme alle loro abitudini effettuare una vendita di CCF contro euro passando per meccanismi di mercato finanziario.

Si può quindi prevedere un sistema di accordi con una serie di operatori commerciali e imprenditoriali che svolgano attività di vendita di beni e servizi al pubblico su vasta scala.

Tra questi: operatori della grande distribuzione organizzata; società di erogazione di acqua, gas ed elettricità; catene di distribuzione di carburanti; compagnie assicurative attive (tra le altre cose) nella vendita di polizze RC auto obbligatorie; strutture pubbliche o convenzionate che forniscono servizi sanitari; ecc.

L’assegnatario di CCF potrebbe riceverli sotto forma di accredito su una carta elettronica. Tutti i soggetti sopraindicati hanno flussi rilevanti e costanti di pagamenti verso la pubblica amministrazione, non solo a titolo di imposte dirette ma anche e soprattutto di IVA, nonché di imposte e contributi versati in conseguenza dei rapporti di lavoro dipendente (anche come sostituto d’imposta per conto del loro personale.).

E’ quindi naturale che tali operatori accettino i CCF in quanto a loro volta hanno certezza dell’utilizzo per conseguire sconti fiscali futuri, anche senza passare tramite la loro conversione sul mercato finanziario.

Si potrebbe prevedere che i CCF utilizzati via carta elettronica maturino un tasso d’interesse, corrispondente al tasso di attualizzazione finanziaria in caso di cessione, per far sì che l’opzione “pagamento in euro” o “pagamento in CCF” sia neutrale e quindi indifferentemente accettata dall’operatore commerciale. Operatore commerciale che peraltro ha un forte incentivo all’accettazione, in quanto costituisce un veicolo di promozione delle proprie vendite.

domenica 15 gennaio 2017

Helicopter Money: quanta se ne spende ?

Su Voxeu.org, Ian Bright e Stenne Janssen commentano un sondaggio d’opinione relativo a quanta parte di un’azione di sostegno della domanda, effettuata mediante distribuzione diretta di denaro ai cittadini (“Helicopter Money”, appunto) verrebbe effettivamente spesa dai riceventi.

Il sondaggio indica che il 26% dei riceventi spenderebbe “la maggior parte” delle somme ricevute, mentre il 67% preferirebbe, in misura preponderante, risparmiarle o ripagare debiti (il residuo 7% degli intervistati non ha fornito indicazioni).

Sulla base delle percentuali sopra indicate, una stima della propensione al consumo derivante dall’erogazione di Helicopter Money può essere effettuata supponendo che il primo gruppo (gli “spenditori”) consumi il 75% (valore intermedio tra metà e tutto) dei soldi ricevuti. Per il secondo gruppo (i “risparmiatori”) si può ipotizzare il 25% (metà tra nulla e il 50%). E per il terzo gruppo, che sostanzialmente ha risposto “non so”, assumiamo il 50%.

La propensione al consumo risultante sarebbe:

26% x 75% + 67% x 25% + 7% x 50% = 40% circa.

La percentuale degli “spenditori” varia parecchio da paese a paese, e l’Italia mostra l’incidenza più elevata (38%), quasi il 50% più della media dei 12 paesi europei in cui è stato effettuato il sondaggio. La propensione al consumo nel caso italiano sarebbe quindi significativamente più elevata, vicina al 60%.

In ogni caso, le indicazioni del sondaggio lasciano pensare che lo stimolo alla spesa mediante erogazione di potere d’acquisto a privati potrebbe essere meno elevato del previsto, e questo naturalmente varrebbe anche nel caso del progetto Moneta Fiscale (che è anch’esso un’azione di Helicopter Money, anche se si distribuiscono CCF e non euro). Sarebbe quindi più efficace rivolgere l’azione espansiva alla spesa pubblica (investimenti o anche consumi della pubblica amministrazione o assunzioni di dipendenti) che alla spesa privata.

Credo tuttavia che sia opportuno riflettere sul modo in cui il sondaggio ha proposto la questione agli intervistati. La domanda è stata “immaginate di ricevere 200 euro in più sul vostro conto corrente bancario ogni mese per un anno. Siete liberi di utilizzarli come preferite, senza bisogno di rimborsarli o di pagare tasse in seguito all’accredito. Come utilizzereste questo denaro supplementare ?”.

La domanda indica chiaramente che l’erogazione avverrebbe per un periodo di tempo limitato – un anno. E’ naturale quindi che le risposte siano state improntate alla cautela.

Diversa sarebbe la situazione nel caso di un’azione espansiva della domanda impostata, e percepita dal pubblico, come permanente. Nel caso di un incremento di reddito disponibile non limitato a un anno ma esteso a un periodo di tempo indefinito, le risposte del sondaggio, ma soprattutto i comportamenti effettivi dei riceventi, mostrerebbero con ogni probabilità una propensione alla spesa significativamente più alta.

Un’azione di Helicopter Money rivolta agli individui e impostata in termini strutturali produrrebbe, plausibilmente, una propensione marginale alla spesa nell’intorno dell’80%, soprattutto se indirizzata alle fasce sociali più deboli e con maggiore necessità di incrementare i consumi. E specialmente nell’attuale situazione economica, fortemente depressa da una crisi che dura ormai da più di otto anni.


giovedì 12 gennaio 2017

La moneta legale è sempre moneta fiscale


Se verrà adottato il progetto Moneta Fiscale, in Italia – e probabilmente in altri paesi dell’Eurozona – circoleranno due forme di moneta: l’euro e il titolo fiscale – ovvero, un titolo utilizzabile per ridurre pagamenti altrimenti dovuti alla pubblica amministrazione, in particolare per tasse, imposte, contribuiti al sistema sanitario e pensionistico ecc.

Ho più volte affermato che la Moneta Fiscale nazionale non confligge con il monopolio di emissione della BCE. La BCE, infatti, rimarrebbe l’unico emittente di moneta ad accettazione obbligatoria in tutti i paesi dell’Eurozona, mentre la Moneta Fiscale nazionale sarà accettata su base VOLONTARIA. L’unico soggetto che si vincolerà ad accettarla sarà la pubblica amministrazione del paese emittente. Tutti gli altri ne riconosceranno il valore non perché obbligati a farlo, ma in quanto il valore stesso deriva dalla sua utilizzabilità a fini fiscali.

A ben vedere, da quando è venuta meno qualsiasi forma di convertibilità della moneta (in oro o altro), tutta la moneta legale, in qualsiasi paese, è moneta fiscale. Quando in Italia esisteva la lira, aveva valore perché in lire dovevano essere pagate le tasse.

Va notato che lo Stato tutela l’osservanza dei contratti, per cui se io vendo un bene o un servizio la legge deve garantire l’adempimento, quindi il pagamento. Ma in effetti non sempre, e non necessariamente, il contratto è stipulato nella moneta legale del paese.

Contratti e rapporti economici con contropartita in moneta diversa da quella legale del paese in cui si stipulano non sono frequentissimi, ma neanche particolarmente rari. La compravendita di azioni quotate USA è generalmente regolata in dollari, anche quando compratore e venditore sono entrambi residenti italiani. Lo stesso avviene spesso per acquisti e vendite di prodotti petroliferi, o di altre materie prime. Un cittadino svizzero o britannico che viene a lavorare in Italia per un periodo predefinito, prevedendo poi di tornare in patria, probabilmente stipula un contratto con pagamento in franchi o in sterline.

Si dice che la moneta legale in uso in Italia è l’euro, ma questo non significa che i contratti tra privati espressi in un'altra valuta non abbiano lo stesso livello di tutela giuridica.

La moneta legale in Italia è l’euro non perché i contratti in euro siano gli unici giuridicamente tutelati, ma perché le tasse devono essere pagate in euro. La moneta legale è quindi a tutti gli effetti moneta fiscale.

La Moneta Fiscale nazionale differisce dall’euro perché è riconosciuta, al fine di estinguere passività fiscali, solo nel paese di emissione, mentre l’euro lo è in tutti i 19 paesi dell’Eurozona. Quanto esisterà la Moneta Fiscale italiana potrò utilizzarla per ridurre un pagamento di imposte in Italia, ma non in Spagna, in Germania o in Slovacchia.

E’ poi concepibile l’esistenza di moneta anche in un ipotetico Stato dove non esistono le tasse. La moneta in questo caso sarebbe un’unità di conto e di compensazione degli scambi giuridicamente tutelata (in quanto lo Stato fa rispettare i contratti) anche se non utilizzabile a fini fiscali. Il WIR svizzero e il Sardex italiano (vedi anche qui)  già da alcuni anni (anzi nel caso del WIR da parecchi decenni) funzionano proprio in questo modo.

Ma questi ultimi esempi, per quanto significativi e interessanti, agiscono su scala limitata. In pratica, le tasse esistono, e la moneta fiat in qualsiasi paese del mondo è quella in cui lo Stato richiede che vengano pagate le tasse. E questa è l’origine del suo valore.


lunedì 9 gennaio 2017

Milano, sabato 14 gennaio 2017 ore 16

"Per sempre in crisi ? alternative e prospettive"

La mia risposta è no, ovviamente...

Sarò correlatore dell'evento presso La Fabbrica dell'Animazione, Milano - Via San Maurilio 8 - traversa di Via Torino a 300 metri da Piazza del Duomo.

Occasione per me di incontrare di persona Thomas Fazi, con cui ho da tempo interessanti scambi di opinioni ma, fino ad oggi, solo via social network.

domenica 8 gennaio 2017

Il randello dell’euro

L’euro implica necessariamente austerità e politiche antisociali ? e l’incremento delle diseguaglianze, da cui deriva il deterioramento delle condizioni di vita di ampi segmenti della popolazione, è stato sempre e completamente evitato da chi ha mantenuto la propria moneta ?

La risposta è no a tutte e due le domande. Ma rimane vero che nell’euro sarebbe stato di gran lunga meglio non esserci entrati. E che alle condizioni attuali nell’eurosistema è assurdo rimanere.

Per esempio, i salari reali medi nel Regno Unito sono calati del 10% circa rispetto all’ultimo anno (2007) prima dello scoppio della crisi Lehman. Esattamente come in Grecia.

Ma affermare che il Regno Unito (senza l’euro) ha subito la crisi in misura confrontabile alla Grecia (con l’euro) sarebbe, ovviamente, un’assurdità. Il calo dei salari reali medi è stato dello stesso ordine di grandezza, ma la disoccupazione UK è al 5%, contro il 25% in Grecia. E il PIL britannico ha recuperato e superato i livelli precrisi, mentre la Grecia ha perso un quarto del suo reddito nazionale e continua a non dare segnali di ripresa.

Le politiche intraprese dal governo Cameron soprattutto nel periodo 2010-2012 sono senz’altro ampiamente criticabili. La crisi è stata strumentalizzata per imporre livelli di austerità assolutamente non necessari.

Ma la ferocia con cui queste azioni sono state applicate non è minimamente confrontabile con quanto è accaduto in Grecia, e neanche, in realtà, nel complesso dell'Eurozona.

Ed è bastato in effetti a Cameron rendere più espansiva (anche se molto meno di quanto sarebbe stato possibile e opportuno) la sua politica di bilancio nel secondo periodo del mandato 2010-2015 per rivincere le elezioni. Anche perché, appunto, il suo elettorato aveva sotto gli occhi che la situazione economica britannica era, per quanto non brillante, molto meno deteriorata che nell’Eurozona; e, peraltro, i laburisti non proponevano un gran che di diverso, salvo (forse) qualche taglio di spesa in meno e (sicuramente) un po’ di tasse in più.

In altri termini, il Regno Unito – austero ma senza euro – era (ed è) comunque in una situazione decisamente migliore rispetto all’Eurozona – austera con l’euro.

Sono considerazioni che mi pare opportuno segnalare a chi sostiene che le politiche economiche non dipendono dall’assetto monetario, e che, di conseguenza, restare o no nell’euro, disporre o no di uno strumento monetario nazionale, è indifferente.

In astratto, certo, politiche espansive e orientate all’equità sociale potrebbero essere adottate anche con l’euro, e possono non essere adottate senza l’euro.

Ma in pratica, un’autorità intenzionata ad adottare politiche deflattive, depressive, antisociali è paragonabile a un losco individuo che si aggira, con intenti minacciosi, per il quartiere dove abitate. Vi fa piacere che questo tizio possieda un randello ? certo, anche senza vi può aggredire, per esempio prendendovi a schiaffi. Ma molto, molto meglio se il randello non ce l’ha. O se glielo togliete di mano.


giovedì 5 gennaio 2017

Il gap con la Germania (che non è il problema)


Riflessione a valle di una domanda posta da Giovanni Albin (ma altri mi esprimono spesso dubbi analoghi). Se l’Italia, adottando il progetto Moneta Fiscale, migliora la competitività delle sue aziende, che cosa impedisce alla Germania di mettere in atto azioni simili, mantenendo il gap invariato ?

Risposta: può essere, ma non è nulla di cui ci si debba preoccupare. L’equivoco da chiarire è che i problemi economici italiani, dall’aggancio all’eurosistema in poi, siano dovuti soprattutto all’impossibilità di riallineare il cambio per compensare il deficit di competitività rispetto, in particolare, alla Germania.

E’ accaduto anche questo, certamente, ma il maggiore problema dell’economia italiana non è la scarsa competitività nell’interscambio internazionale. E’ che il sistema attuale impedisce di attuare politiche espansive della domanda in presenza di un massiccio sottoutilizzo delle proprie risorse produttive (output gap) che implica inaccettabili livelli di disoccupazione e di sottooccupazione.

L’Italia nel 2016 ha generato un surplus di circa 60 miliardi nell’interscambio di beni e servizi con l'estero. E’ vero che il surplus è in larga misura dovuto al basso livello di spesa interna e quindi di importazioni. Ma l’export è, comunque, l’unica macrocomponente del PIL il cui livello è superiore a quello precrisi (2007).

Le importazioni sono pari a circa il 25-30% del PIL, il che implica che l’Italia potrebbe incrementare la propria domanda interna e recuperare tutto l’ammanco di PIL rispetto al 2007 (circa 140 miliardi) e rimanere comunque in posizione di surplus nell’interscambio estero.

Ma si può (e deve) fare ancora meglio: espandere domanda e PIL a saldi esteri invariati, dedicando una parte dell’azione espansiva alla riduzione del cuneo fiscale (vedi per esempio il punto 9., qui).

Tutto questo prescinde da quanto farà la Germania. I tedeschi potrebbero guadagnare ulteriore competitività, per esempio riducendo a loro volta la tassazione indiretta sul lavoro. Ma l’Italia commercia con tutto il mondo: l’interscambio con la Germania è rilevante ma è ben lontano dall’essere maggioritario. Peraltro, politiche tedesche rivolte all’ulteriore crescita del loro surplus commerciale li porterebbero in diretta collisione con gli USA, che stanno già alzando i toni e segnalando una sempre maggiore insofferenza nei confronti dell’attuale deficit bilaterale Germania – USA.

Il problema dell’Italia è il pesante vincolo finanziario dovuto a un debito pubblico espresso in una moneta emessa e gestita da terzi (l’euro). Questo vincolo rende l’Italia simile a un’automobile che può viaggiare a 120 km/h ma si autolimita a 60. L’Italia può e deve recuperare la propria velocità di crociera. Se poi la Germania viaggia a 140 e può salire a 150 buon per loro, la cosa non ci crea problemi.

E qual è il presupposto per il venir meno di questa autolimitazione ? la presa d’atto che non ci sono vincoli all’espansione economica, in un dato momento storico, se non quelli prodotti dalle risorse fisiche – umane, impiantistiche, tecnologiche, di know-how. Queste risorse oggi sono, in Italia, pesantemente sottoutilizzate e rappresentano quindi (questo è il rovescio della medaglia) un enorme potenziale inespresso.

Quando il ministro Padoan e altri, in sede di formulazione delle politiche economiche nazionali, affermano che “le risorse a disposizione sono poche”, dicono il falso o – più precisamente – formulano un’affermazione che si giustifica solo accettando come invalicabili e insopprimibili i vincoli dell’eurosistema.

Questi vincoli invece sono totalmente artificiali: il punto è identificare e percorrere la via più appropriata per superarli. Fatto questo, diventano evidenti due cose: che le risorse inutilizzate dall’economia italiana sono, al contrario, rilevantissime, e che quanto farà la Germania è per noi un tema secondario.


lunedì 2 gennaio 2017

Trump, la Germania e l’euro


Il presidente eletto degli USA, Donald Trump, non ha grande simpatia per la UE, e ancora meno per l’euro. Un recente documento pubblicato dal suo staff ne spiega le ragioni senza ambiguità.

“La debolezza delle economie del Sud Europa nell’ambito dell’Unione Monetaria Europa mantiene l’euro a un tasso di cambio inferiore rispetto a quello del marco tedesco, se fosse una moneta indipendente. Questa è la ragione principale per cui gli USA hanno un grande deficit commerciale nei confronti della Germania – 75 miliardi di dollari nel 2015 – nonostante le retribuzioni tedesche siano relativamente alte”.

E poco dopo si parla di “imporre” (da parte degli USA) “tariffe difensive e compensative se la manipolazione della valuta non viene meno”.

E’ evidente che l’attuale assetto dell’Eurosistema non viene ritenuto accettabile dalla nuova presidenza USA. Aumentano quindi le probabilità che si arrivi a uno scioglimento integrale dell’Eurozona. Alternativamente, è possibile che – sotto la minaccia di una guerra commerciale diretta a ridurre il surplus commerciale tedesco verso gli USA – la Germania accetti finalmente un ciclo di politiche fiscali espansive, esteso a tutti i paesi dell’Eurosistema, e con finanziamento dei maggiori deficit pubblici garantito dalla BCE (meglio ancora sarebbe se esplicitamente monetizzato).

In pratica la Germania e anche il resto dell’Eurozona rilancerebbero, in questa seconda ipotesi, la domanda interna e accetterebbero – anche per il tramite di un rafforzamento dell’euro – una significativa riduzione del proprio surplus commerciale.

Resterebbe il problema degli sbilanci all’interno dell’Eurozona, che però è gestibile se i paesi del Sud dedicano una parte dell’espansione fiscale a ridurre il proprio costo del lavoro lordo (non i salari netti !) tramite un consistente e permanente abbattimento del cuneo fiscale.

Se nessuna delle due ipotesi sopra descritte si verifica, per l’Italia l’adozione del progetto Moneta Fiscale rimane la strada più promettente – forse l’unica possibile. Il rilancio della domanda interna verrebbe effettuato emettendo CCF nazionali. Nella misura necessaria, i CCF verrebbero destinati anche a migliorare la competitività delle aziende italiane, per evitare di disperdere in maggiori importazioni nette una parte dell’azione espansiva.

Se un paese importante come l’Italia – la terza economia dell’Eurozona – esce dalla propria situazione economica depressa, la BCE ha meno ragioni per mantenere debole il cambio euro / dollaro. Anche in questo caso, il rafforzamento dell’euro agirebbe da riequilibrio, quantomeno parziale, degli sbilanci commerciali tra USA e Germania.

Tutto questo vale, a maggior ragione, se l’esempio dell’Italia venisse imitato da altri paesi dell’Eurozona – se, in altri termini, vari altri stati rilanciassero domanda e competitività introducendo la loro versione di Moneta Fiscale nazionale.

E’ quindi plausibile che un’azione espansiva mediante Moneta Fiscale, effettuata dall’Italia e magari da altri paesi, venga vista con favore dalla presidenza Trump. Quanto ai tedeschi, non mi aspetto che se ne mostrino entusiasti, ma non avranno mezzi per opporsi, e francamente nemmeno interesse. Si tratterebbe infatti di un’evoluzione di gran lunga preferibile rispetto a una guerra commerciale con gli USA o a una rottura deflagrante dell’Eurozona.


domenica 1 gennaio 2017

Quanti soldi servono per le banche ?

L’anno si è appena concluso con il tormentone MPS in pieno svolgimento, e la vicenda ci accompagnerà, sicuramente, per svariati mesi anche nel corso del 2017.

E’ un tema importante già di suo, ma diventa ancora più critico in quanto riflette una situazione problematica che coinvolge, a vari livelli d’intensità, molti altri istituti di credito italiani (e non solo, per la verità).

In questi giorni sto leggendo vari commenti che invocano soluzioni di ampia portata, per risolvere il problema “una volta per tutte”. L’idea sarebbe una forte azione di ricapitalizzazione e di pulizia dei crediti deteriorati, che metta in campo “quanto serve” perché il sistema bancario si lasci alle spalle la situazione attuale.

Ci sono un paio di problemi su cui riflettere, riguardo a questo approccio.

Il primo è che la stima delle esigenze di ricapitalizzazione è aleatoria, anche semplicemente riferendola, in modo statico, alla situazione attuale. Non esiste un mercato dei crediti deteriorati sufficientemente ampio e liquido da fornire indicazioni attendibili in merito ai valori di cessione delle posizioni in sofferenza.

In più, i “crediti deteriorati” lo sono in misura differente da caso a caso. Alcuni lo sono parecchio, e sono cedibili, o recuperabili, solo a una frazione minima del loro valore facciale. Altri sono meno problematici. Alcuni sono assistiti da garanzie reali o personali, altri no. Riguardo alle garanzie vanno stimati  - ed è molto difficile - tempi e valori di realizzo.

Sui fabbisogni di capitale delle aziende di credito italiane circolano quindi stime disomogenee e francamente ben poco affidabili. Il governo ha stanziato 20 miliardi. Altre fonti ne ritengono invece necessari 30, 40, 60. Il solo intervento su MPS è stato proposto per 5 miliardi, il giorno dopo la BCE è uscita con un’ipotesi di 8,8, per poi far sapere nei giorni successivi che era un valore riferito a “condizioni di particolare stress” e non necessariamente una richiesta di maggior intervento.

Ma a rendere ancora più confuso, e di parecchio, il quadro, la valutazione non può essere condotta in termini statici. Il sistema bancario italiano è paragonabile a un natante che ha imbarcato acqua. Abbiamo a disposizione un secchio per svuotarlo. Quando ci mettiamo ? due ore, quattro, sei ? stiamo a contare le secchiate necessarie ?

La risposta è che una stima si può effettuare se il natante smette di imbarcare acqua. E in quel caso stabilire in anticipo quanto tempo ci si mette a svuotare magari non è neanche così importante. Si dà dentro col secchio, e prima o poi si svuota.

Ma se non chiudo prima le falle ?

Le falle del sistema bancario italiano sono un'economia depressa da otto anni, che continua a non mostrare alcuna ripresa degna di questo nome perché ci si ostina a non immettere nel sistema il maggior livello di domanda che lo farebbe ripartire.

In queste condizioni, le secchiate d’acqua necessarie potrebbero benissimo essere infinite. La barca non si svuota mai. I crediti deteriorati vengono svalutati e ceduti, ma subito dopo si scopre che se ne sono formati altri.

L’intervento sulle banche può essere risolutivo se, e solo se, contemporaneamente si mette in atto un’azione di rilancio di domanda, PIL e occupazione. Di cui non si sta parlando. E il timore, anzi, è che invece, in ulteriore ossequio alle catastrofiche prescrizioni UE, il governo attui azioni “compensative” – tasse in più e tagli di spesa pubblica. Azioni che, se si effettuano, non compenseranno nulla: al contrario accelereranno la riformazione delle falle.

I problemi delle banche italiane sono un “di cui” del tema più generale: la diagnosi sbagliata della crisi economica italiana. Un problema di carenza di domanda, indotto dai difetti congeniti dell’eurosistema.

Le leve d'azione ci sono. Ma si continua a non prenderle in considerazione.