martedì 27 agosto 2019

La crisi di domanda dell’economia italiana – dati 2018


Un po’ in ritardo rispetto al solito, aggiorno qui il confronto tra i principali dati macroeconomici italiani dell’ultimo anno prima della crisi Lehman – il 2007 – e il consuntivo più recente – il 2018.


Euro costanti 2018 - dati 2007 inflazionati sulla base del deflatore PIL – fonte: ISTAT

2007
2018
Variazione
Variazione %
PIL
1.836
1.757
-79
-4,3%
Consumi
1.435
1.398
-37
-2,6%
Investimenti
396
316
-80
-20,3%
Export
503
558
+55
+10,8%
Import
510
514
+4
+0,8%


Undici anni dopo (praticamente un’era geologica) il PIL reale italiano è ancora inferiore di 79 miliardi rispetto al massimo storico raggiunto nel 2007. Il 4,3% in meno.

Questa caduta si accompagna a una flessione di 37 miliardi nei consumi e di 80 per quanto riguarda gli investimenti.

A fronte di questo, l’export è invece cresciuto di 55 miliardi, pari al +10,8%. Insieme alla stagnazione delle importazioni (generata dalla debolissima domanda interna) il saldo commerciale estero è di conseguenza passato da un leggero deficit (-7 miliardi nel 2007) a un forte attivo (+51).

Per la verità +10,8% in undici anni non è esattamente una prestazione eclatante. La media è un +0,94% annuo di crescita reale delle esportazioni. Però considerato che in mezzo ci sono state la crisi finanziaria mondiale del 2008, l’acme dell’eurocrisi nel 2011-2012, e tutti i problemi connessi all’impiego di una moneta sopravvalutata per l’Italia (l’euro), il risultato dimostra, banalmente, quanto segue.

In Italia non manca la capacità di fare impresa. Non è venuta meno l’attitudine delle aziende italiane a concepire prodotti innovativi e qualitativi, né a commercializzarli con successo sui mercati di tutto il mondo.

Non è venuta meno, a una semplice condizione. Che sui mercati ci sia capacità di spesa, quindi domanda potenziale. Senza, il prodotto più innovativo, bello e utile dell’universo non si vende.

Il 10,8% di crescita in undici anni, dicevo, non è chissà che. Ma se questa modesta crescita fosse stata conseguita non solo per l’export ma per il PIL nel suo complesso, il PIL italiano 2018 sarebbe stato pari a 2.034 miliardi. Un “piccolo” delta di 277, quasi il 16%, rispetto al dato effettivo.

Si tratta di 4.600 euro di reddito medio procapite, 18.400 per una famiglia di quattro persone. All’anno, per ogni anno. Semplicemente ripristinando all’interno dell’economia italiana il potere d’acquisto che è stato scelleratamente distrutto da chi pensava che quella fosse la via corretta per conseguire il risanamento finanziario dei conti pubblici e del paese.

Immettere domanda in un sistema economico le cui risorse produttive – persone e aziende – sono fortemente sottoutilizzate non è tecnicamente difficile. Perché non è indispensabile rompere l’unione monetaria, e neanche incrementare il debito (quello vero, da rimborsare in moneta straniera).

Il problema è sempre quello, e sempre quella è la soluzione. Comunque finisca lo psicodramma dell’attuale crisi di governo.


lunedì 19 agosto 2019

Non fidatevi della curva dei rendimenti


Molti commentatori economici si dicono, in questo periodo, preoccupati riguardo alla possibilità che l’economia USA entri in recessione. Il che potrebbe portare a conseguenze alquanto pesanti a livello mondiale, dato che gli scambi commerciali sono già in rallentamento, la Cina è meno dinamica che in passato, l’Eurozona continua a dibattersi nelle sue disfunzioni, all’orizzonte c’è una possibile hard Brexit, eccetera.

Tra le ragioni per cui si teme che possa partire una recessione USA, viene spesso citata l’inversione della curva dei rendimenti per scadenza. Normalmente i tassi d’interesse a lungo termine sono più alti di quelli a breve, perché un finanziamento è più rischioso – a parità di altre condizioni – quanto più è lunga la sua durata.

Quando storicamente si è verificato il contrario – i tassi “brevi” sono saliti a livelli più alti di quelli “lunghi” – molto spesso è seguita una recessione.

Oggi siamo appunto in quest’ultima situazione. I titoli di Stato USA a tre mesi rendono l’1,82% su base annualizzata. A cinque anni, l’1,45%.

Temere che questa inversione preannunci una recessione, tuttavia, trascura una fondamentale differenza tra la situazione odierna e quelle passate.

Il motivo per cui nei decenni scorsi ogni tanto la curva si invertiva era che la Federal Reserve stava restringendo il credito – e quindi alzando i tassi d’interesse – per raffreddare un’economia che si stava surriscaldando e un’inflazione che dava segni di salire a livelli indesiderati.

In questa situazione, i tassi a lungo salivano molto meno di quelli a breve, perché i mercati prevedevano che la stretta creditizia sarebbe durata alcuni trimestri – il tempo necessario per rallentare l’economia ed evitare il surriscaldamento – dopodiché la Fed avrebbe tolto il piede dal pedale del freno.

L’inversione preannunciava quindi un significativo (ma temporaneo) rallentamento dell’economia, che poteva arrivare a costituire una vera e propria recessione.

Oggi la situazione è molto diversa. La curva è invertita, ma non perché la Fed stia alzando i tassi. Sta anzi avvenendo l’esatto contrario.

La curva è invertita perché i mercati si stanno chiedendo che senso abbiano tassi di rifinanziamento Fed del 2,25% quando la BCE offre tassi sotto zero (-0,40%) e con ogni probabilità li renderà ancora più negativi a settembre.

Trump sta infatti chiedendo a gran voce che la Fed abbassi i suoi: che senso ha questa differenza dal momento che l’inflazione rimane bassa, il dollaro rischia di rafforzarsi troppo e la BCE sta non solo per procedere a ulteriori abbassamenti, ma anche per ripartire con il QE ?

Nel contesto attuale, il mercato sta prendendo atto che i tassi USA scenderanno non perché sia in corso una stretta creditizia, ma perché in tutto il mondo non sussistono condizioni per rendere il denaro più caro di quanto sia oggi: anzi, al contrario.

In passato, l’inversione della curva dei rendimenti spesso preannunciava una recessione perché si associava alla stretta del credito. Oggi, no.

Non escludo una recessione USA nel prossimo futuro. Non escludo nulla perché, per citare l'eminente economista Yogi Berra, “è molto difficile formulare previsioni, specialmente riguardo al futuro”.

Ma l’inclinazione della curva dei rendimenti non mi dice proprio niente. Il suo potere predittivo, nelle condizioni odierne, è scomparso.

mercoledì 14 agosto 2019

Certificati di Compensazione Fiscale

In attesa di scoprire se la "crisi di governo" diventerà una crisi di governo, abbiamo ragionato sulla denominazione del progetto - in particolare, noi del Gruppo Moneta Fiscale e Pino Cabras, su cui, qualunque cosa accada, faccio pieno affidamento per continuare a promuoverlo a livello politico.

Fermo restando che rimane in essere l'ormai "storica" sigla CCF, il significato di quest'ultima è stato modificato da Certificati di Credito Fiscale in

CERTIFICATI DI COMPENSAZIONE FISCALE

La nuova denominazione riflette molto meglio la natura del titolo. Non è legal tender money. Non è un credito destinato a essere rimborsato cash.

E' un titolo che dà diritto appunto a compensare, quindi a ridurre, pagamenti altrimenti da effettuare nei confronti della Pubblica Amministrazione.

mercoledì 7 agosto 2019

Limiti legali (da introdurre ?) all’emissione dei CCF


Devo riflettere ulteriormente su questo tema. Mi pare comunque che il Progetto Moneta Fiscale / CCF potrebbe essere corredato da un’impalcatura giuridica che dia le massime garanzie in merito a quanto segue.

PRIMO, la crescita del Maastricht Debt sarà limitata in maniera tale da ridurre costantemente nel tempo la sua incidenza rispetto al PIL. Per esempio, il deficit / PIL massimo potrebbe essere fissato nella misura del 2% annuo.

SECONDO, la quantità di CCF che diventeranno utilizzabili, in ogni singolo anno, come sconti fiscali, rimarrà al di sotto di una percentuale – sempre per esempio – del 20% rispetto agli incassi (al lordo degli sconti fiscali stessi) della Pubblica Amministrazione. Si assicurerà in tal modo un valore dei CCF in circolazione sempre molto prossimo a quello dell’euro.

TERZO, le percentuali sopra citate potranno essere superate solo in presenza di particolari e rare condizioni congiunturali, tali da produrre una forte contrazione del PIL e, nello stesso tempo, un’inflazione nettamente inferiore al 2% (le condizioni del 2009 post crisi Lehman, per intenderci).

QUARTO, l’assetto sopra descritto risolve le disfunzioni dell’eurosistema e rende non più necessaria, né utile, la rottura della moneta unica europea.

I temi principali su cui riflettere mi sembrano essere (1) il livello delle percentuali sopra citate da introdurre nel dettato normativo, e (2) se questa impalcatura giuridica debba essere incorporata in norme di rango costituzionale.

In ogni caso, va superato l’attuale dettato dell’articolo 81 della Costituzione.

giovedì 1 agosto 2019

Spesa pubblica e luoghi comuni


Il mio interlocutore twitter @eligio68 mi invita spesso a riflettere sulla necessità di razionalizzare, efficientizzare, rendere più trasparente la spesa pubblica italiana. Ovviamente sono obiettivi di per sé condivisibili: ma aiuterebbero molto, a suo giudizio, anche l’implementazione di progetti quali i CCF / Moneta Fiscale.

Perché, secondo @eligio68 ? perché le obiezioni all’utilizzo dei CCF per rivitalizzare l’economia italiana non saranno principalmente di natura tecnica, giuridica o macroeconomica. Verteranno sul fatto che lo Stato italiano “notoriamente” spende male. Da questo, nasce una buona parte dei dubbi sull’opportunità di politiche di rilancio della spesa pubblica.

Non sono certo in disaccordo con il concetto di “spendere meglio”. Chi potrebbe esserlo ? Ma invito a riflettere su quanto sia, o non sia, dimostrato che lo spesa pubblica italiana crei problemi in quanto qualitativamente scadente.

Io lo ritengo un luogo comune. La spesa pubblica si aggira intorno agli 800 miliardi annui, di cui però circa 300 sono trasferimenti (soprattutto pensioni e interessi sul debito pubblico), che non rappresentano quindi produzione di beni e servizi e non entrano direttamente nel calcolo del PIL.

Vogliamo esaminare un paio di voci importanti tra quante compongono gli altri 500 ?

Il sistema sanitario italiano assorbe circa 110 miliardi annui, ed è sistematicamente piazzato tra i primi cinque al mondo per efficienza, nelle classifiche prodotte annualmente dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ci giochiamo regolarmente le posizioni di vertice con Hong Kong, Singapore, Giappone, Israele e Spagna. Per intenderci, la Germania è oltre il quarantesimo posto, gli USA oltre il cinquantesimo.

La pubblica istruzione assorbe 50 miliardi all’anno. In percentuale sul PIL, spendiamo molto meno delle medie OCSE. Ma in termini qualitativi non siamo affatto sotto la media, come risulta dalle rilevazioni comparative elaborate dalle varie organizzazioni internazionali.

Gli aneddoti valgono per quello che valgono, ma a me è successo varie volte di parlare con persone residenti in Canton Ticino (inclusi cittadini elvetici) e di sentirmi dire “mio figlio / figlia l’anno prossimo va al liceo ma io l’ho iscritto /  iscritta alle scuole pubbliche in Italia. Molto meglio di quelle svizzere”.

Dov’è, insomma, tutta questa inefficienza del settore pubblico italiano ? a mio modesto avviso, appunto, è in larghissima misura un condensato di aneddoti e di luoghi comuni.

Qualcuno senz’altro obietterà che i luoghi comuni hanno comunque la loro importanza. Non ne dubito: il problema è però che non li schiodi in un paio d’anni, ma neanche in dieci o venti, per quante azioni di razionalizzazione tu intraprenda.

Ipotizziamo che l’Italia lanci un ampio programma di riqualificazione del settore pubblico. Ma senza metterci soldi in più, perché si rimane inchiodati ai vincoli dell’Eurosistema.

Quale sarà il risultato ? l’economia resterà al palo, il debito / PIL non scenderà, e la percezione generale rimarrà che il debito pubblico italiano è alto e l’economia non cresce “perché, evidentemente, si spende male”.

Partiamo invece con il progetto Moneta Fiscale / CCF, riportiamo l’economia italiana a crescere, e abbassiamo il Maastricht Debt in rapporto al PIL. Non dico che questo spazzerà via tutti i luoghi comuni. Ma probabilmente spingerà a pensare che forse in Italia non si spende poi così male. E comunque, se l’economia cresce e il debito scende, a chi importa più dei luoghi comuni ?