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mercoledì 19 aprile 2023

Che succede ai tassi USA ?

 

I mercati finanziari continuano a ritenere che i tassi d’interesse sul dollaro saliranno ancora di poco (secondo le stime della maggior parte degli analisti, un solo altro incremento di un quarto di punto) e poi cominceranno a essere tagliati a partire dagli ultimi mesi del 2023.

Lo si comprende esaminando la curva dei tassi sui titoli di Stato USA. La scadenza che offre, mentre sto scrivendo, il maggior interesse annualizzato è quella a 4 mesi, con il 5,26%.

A un anno siamo al 4,84%, a due anni al 4,27%, a tre anni al 3,97%.

Sono poco convinto della previsione implicita in questi dati. La Fed ha lanciato una rapida manovra di lievitazione dei tassi per contrastare l’incremento dell’inflazione, dal 2021 in poi, ed è stata pesantemente criticata per non averlo fatto prima, con il rischio che le cose andassero fuori controllo.

L’inflazione adesso sta rientrando rispetto alle punte massime raggiunte, intorno al 10%. Siamo al 5%, che è una diminuzione sensibile ma vuol dire essere ancora distanti dal target del 2%.

La Fed vuole evitare ulteriori accuse di lassismo. Il che significa che effettivamente il ciclo di incrementi dei tassi è vicino alla sua conclusione, ma non lascerà il posto a riduzioni, bensì a una stabilizzazione ai livelli attuali.

Solo una pesante recessione potrebbe indurre la Fed a cambiare opinione. Ma i dati USA non danno evidenza dell’approssimarsi di nulla del genere. Una blanda recessione tecnica, un paio di trimestri con marginali riduzioni del PIL reale, è possibile, ma niente di più.

Personalmente sarei stupito di vedere riduzioni nei tassi d’intervento Fed prima del 2024, e anche per l’anno prossimo scommetterei molto più sul secondo semestre che sul primo.

Poi rimango scettico (a dir poco) sul fatto che il maggior costo del denaro sia la strada giusta per contrastare l’inflazione, specialmente se causata da fenomeni molto più legati all’offerta che alla domanda. Ma so bene che questa opinione non è (ancora) condivisa dalle banche centrali.

venerdì 17 febbraio 2023

Inflazione e tassi d’interesse

 

Parecchi economisti, soprattutto di scuola MMT, esprimono perplessità sul fatto che incrementare i tassi d’interesse produca il calo dell’inflazione. Cosa, questa, che sorprende molti commentatori. Il fatto che l’inflazione salga o scenda in funzione della disponibilità di credito a tassi, rispettivamente, più bassi o più alti, in genere è considerato un’ovvietà. Di sicuro, è quanto hanno in mente le principali banche centrali, Fed e BCE prime tra tutte.

Certo, tassi d’interesse più alti significa credito più caro, quindi rallentamento degli investimenti (soprattutto immobiliari, ma non solo) e dei consumi (in Italia il consumatore compra a credito meno che altrove, ma comunque molto più che in passato).

C’è anche un effetto ricchezza: maggiori tassi d’interesse deprimono il valore di mercato delle obbligazioni a tasso fisso e delle azioni. Il risparmiatore / investitore si sente quindi meno ricco e questo dovrebbe spingerlo a limitare le spese (anche se non è chiaro in che misura).

Tuttavia ci sono almeno due fenomeni rilevanti che puntano nella direzione opposta.

Il primo: la maggior parte dell’aziende hanno debiti finanziari e gli interessi che pagano su questi debiti sono un costo di gestione. Se il maggior costo del lavoro e delle materie prime le spinge a chiedere maggiori prezzi per i loro prodotti (quantomeno a provarci) non vale lo stesso per il costo del denaro ?

Il secondo: chi ha soldi da investire in titoli a reddito fisso ottiene una maggiore remunerazione. Più interessi attivi, in altri termini. Questo è a tutti gli effetti maggior reddito, e a parità di altre condizioni spinge consumi e prezzi al rialzo, non al ribasso.

Si può argomentare che il saldo netto di tutti questi effetti vada, in ogni caso, nella direzione di maggiori tassi => minore inflazione. Però non sono a conoscenza di nessuno studio che abbia cercato di quantificarli voce per voce, e di arrivare a una conclusione solida e ben fondata che ne dia evidenza. Magari esiste, e ringrazio chi nel caso me lo segnalerà.

Tuttavia tanto per cambiare il mantra delle banche centrali, alzare i tassi per ridurre l’inflazione, mi sembra alquanto dogmatico, e di efficacia quantomeno dubbia.

martedì 4 gennaio 2022

La riluttanza delle banche centrali

 

In molti ipotizzano che le banche centrali, e in particolare le due più importanti – Federal Reserve e BCE – dovranno presto rompere gli indugi e procedere non solo all’azzeramento dei programmi di Quantitative Easing, ma anche ad azioni di incremento dei tassi di interesse più rapide di quanto attualmente previsto.

Il problema si pone in termini diversi tra USA ed Eurozona, per due ragioni.

La prima è che l’inflazione USA è un paio di punti più alta di quella eurozonica – 6% abbondante là, 4% qui. Conseguenza di un rimbalzo dell’economia molto più vigoroso, e di un recupero dell’occupazione decisamente più rapido.

La seconda è che l’incremento di tassi eurozonici rischia di dissestare il rifinanziamento dei debiti pubblici di vari Stati, visto che la BCE non fa quello che dovrebbe fare qualsiasi banca centrale – garantirli incondizionatamente e illimitatamente dal rischio di default.

Risultato, negli USA attualmente si ipotizzano due o tre incrementi all’anno nei tassi d’intervento della Fed, al ritmo di un quarto di punto per ogni incremento. Con il che si arriverebbe al livello – non certo stellare, su base storica – del 2% circa nel 2024.

Nell’Eurozona, è tutto ancora sospeso in aria.

Tassi nominali prossimi a zero con un’inflazione del 4% o del 6%, quindi tassi reali profondamente negativi, hanno tutta l’aria di un’anomalia.

Per inciso, anomalia fino a un certo punto: abbiamo vissuto questa situazione – tassi reali sotto zero – negli anni Settanta. Con la differenza che allora sia l’inflazione che i tassi nominali erano a doppia cifra, tipo tassi nominali al 10%-15% e inflazione al 15%-20%.

Ma comunque anomalia, rispetto all’esperienza degli ultimi quarant’anni. Sottopongo però una riflessione a quanti ritengono che, di conseguenza, l’atteggiamento di Fed e BCE dovrà cambiare, prima del previsto.

Le tensioni sui prezzi nascono, in misura significativa, da un problema di offerta. Gli approvvigionamenti di componenti e materie prime soffrono di paurosi colli di bottiglia, di portata nettamente peggiore di quanto si pensasse anche solo pochi mesi fa.

Molte aziende hanno ordini ma non riescono a evaderli perché, semplicemente, non trovano materiali, o li trovano a prezzi impazziti, e comunque senza alcuna affidabilità sui tempi di consegna.

Come sintetizza qualcuno, “manca la roba”.

Un fenomeno che ha preso un po’ tutti di sorpresa. Certo, dopo aver chiuso buona parte del sistema produttivo mondiale per mesi, rimetterlo in modo non è semplice né immediato. Però le riaperture sono state sostanzialmente completate più di un anno fa, e la sorpresa è che i problemi di fornitura sono entrati in una fase critica, molto più pesante di prima, solo da pochi mesi.

Perché si sia sviluppata questa dinamica temporale non è chiaro. Forse perché la ripresa della domanda, per quanto rapida, è stata comunque graduale e quindi ha raggiunto solo di recente una soglia critica. Forse perché le aziende, a vari stadi delle catene produttive, avevano buffer di scorte, che hanno tamponato il problema per sei, nove mesi, ma poi si sono esaurite.

Poi c’è il problema dei wafer al silicio per produrre i semiconduttori. La domanda è esplosa per la crescita delle applicazioni digitali e di trasmissioni dati, anche in video, e per lo sviluppo dell’auto elettrica. La capacità produttiva deve essere incrementata – oggi la maggior parte della produzione mondiale arriva da due megaimpianti, uno in Corea e l’altro a Taiwan. Va creata nuova capacità. Il problema minore è che servono molti soldi. Il problema maggiore è che serve molto tempo (tre anni).

Soprattutto, non sono chiari i tempi di soluzione di queste strozzature. E quindi le banche centrali sono meno sicure di prima sulla transitorietà dell’inflazione.

Ma la conclusione è che l’inasprimento del credito sarà più rapido ?

Non è detto, per la semplice ragione che se “manca la roba”, alzare i tassi non la fa ricomparire. Anzi, disincentiva gli investimenti necessari per “sbottigliare” le catene produttive.

Quindi, la salita rapida dei tassi non è affatto un evento certo.

E se avviene, ancora meno certo è che non si tratterà / tratterebbe di un errore. Potenzialmente molto grave. Una mossa sbagliata potrebbe dissestare il sistema finanziario e bloccare la ripresa.

E sarebbe anche dubbio l’impatto sull’inflazione. Che potrebbe calare (un risultato ottenuto a carissimo prezzo) per effetto dei minori livelli di domanda, ma anche no perché si rallenterebbero le azioni di adeguamento dell’offerta.

Se le banche centrali sono molto guardinghe quando si parla di alzare i tassi, in definitiva hanno le loro ragioni.

martedì 23 febbraio 2021

Ancora sul tema delle aziende “da salvare – o meno”

 

Un’ulteriore riflessione su quanto già argomentato qui. Quale sarebbe il “costo” o lo “spreco” dei salvataggi, che dovrebbe spingere a “essere selettivi”, quindi a sostenere certe aziende, certi settori, ma non tutti ?

La moneta si emette a costo zero. Il “costo” implicito potrebbe essere dato dall’inflazione e dalle sue conseguenze in termini di maggiori futuri tassi d’interesse.

Ma le principali banche centrali del mondo, inclusa la BCE, non potranno che adeguarsi a quello che la Federal Reserve ha già affermato con totale chiarezza: assolutamente nessuna fretta di alzare i tassi d’interesse anche se l’inflazione arrivasse, nel giro di un anno o due, al 3% o al 4%.

La possibile ripartenza dell’inflazione, peraltro, si concretizzerà molto prima negli USA che nell’Eurozona (per tacere dell’Italia). E la ragione è semplicissima: gli USA hanno varato azioni di sostegno dell’economia a colpi di trilioni di dollari. Qui stiamo ancora ad aspettare i 750 miliardi finti del Recovery Fund, di cui si parla da un anno e dei quali non si è ancora visto un centesimo (e probabilmente sarebbe meglio così, visti i lacci e i vincoli con cui arriveranno, se arriveranno).

Ricordiamo poi un punto fondamentale: l’inflazione dipende dell’equilibrio tra offerta e domanda, dove l’offerta è la capacità produttiva del sistema economico. Se proprio vogliamo trovare un motivo per preoccuparci dell’inflazione futura, il meccanismo della sua ripartenza potrebbe quindi essere la contrazione dell’offerta potenziale. E che cosa potrebbe innescarla ? lasciar fallire e chiudere aziende, far decollare ancora di più le insolvenze bancarie, dare di conseguenza dare un’altra martellata all’erogazione di credito.

Il dibattito sulla “selettività dei salvataggi e dei ristori”, in altri termini, è lunare. Completamente insensato e fuori tempo. Proprio per questo, in linea con le abitudini dell’establishment eurozonico.

lunedì 19 agosto 2019

Non fidatevi della curva dei rendimenti


Molti commentatori economici si dicono, in questo periodo, preoccupati riguardo alla possibilità che l’economia USA entri in recessione. Il che potrebbe portare a conseguenze alquanto pesanti a livello mondiale, dato che gli scambi commerciali sono già in rallentamento, la Cina è meno dinamica che in passato, l’Eurozona continua a dibattersi nelle sue disfunzioni, all’orizzonte c’è una possibile hard Brexit, eccetera.

Tra le ragioni per cui si teme che possa partire una recessione USA, viene spesso citata l’inversione della curva dei rendimenti per scadenza. Normalmente i tassi d’interesse a lungo termine sono più alti di quelli a breve, perché un finanziamento è più rischioso – a parità di altre condizioni – quanto più è lunga la sua durata.

Quando storicamente si è verificato il contrario – i tassi “brevi” sono saliti a livelli più alti di quelli “lunghi” – molto spesso è seguita una recessione.

Oggi siamo appunto in quest’ultima situazione. I titoli di Stato USA a tre mesi rendono l’1,82% su base annualizzata. A cinque anni, l’1,45%.

Temere che questa inversione preannunci una recessione, tuttavia, trascura una fondamentale differenza tra la situazione odierna e quelle passate.

Il motivo per cui nei decenni scorsi ogni tanto la curva si invertiva era che la Federal Reserve stava restringendo il credito – e quindi alzando i tassi d’interesse – per raffreddare un’economia che si stava surriscaldando e un’inflazione che dava segni di salire a livelli indesiderati.

In questa situazione, i tassi a lungo salivano molto meno di quelli a breve, perché i mercati prevedevano che la stretta creditizia sarebbe durata alcuni trimestri – il tempo necessario per rallentare l’economia ed evitare il surriscaldamento – dopodiché la Fed avrebbe tolto il piede dal pedale del freno.

L’inversione preannunciava quindi un significativo (ma temporaneo) rallentamento dell’economia, che poteva arrivare a costituire una vera e propria recessione.

Oggi la situazione è molto diversa. La curva è invertita, ma non perché la Fed stia alzando i tassi. Sta anzi avvenendo l’esatto contrario.

La curva è invertita perché i mercati si stanno chiedendo che senso abbiano tassi di rifinanziamento Fed del 2,25% quando la BCE offre tassi sotto zero (-0,40%) e con ogni probabilità li renderà ancora più negativi a settembre.

Trump sta infatti chiedendo a gran voce che la Fed abbassi i suoi: che senso ha questa differenza dal momento che l’inflazione rimane bassa, il dollaro rischia di rafforzarsi troppo e la BCE sta non solo per procedere a ulteriori abbassamenti, ma anche per ripartire con il QE ?

Nel contesto attuale, il mercato sta prendendo atto che i tassi USA scenderanno non perché sia in corso una stretta creditizia, ma perché in tutto il mondo non sussistono condizioni per rendere il denaro più caro di quanto sia oggi: anzi, al contrario.

In passato, l’inversione della curva dei rendimenti spesso preannunciava una recessione perché si associava alla stretta del credito. Oggi, no.

Non escludo una recessione USA nel prossimo futuro. Non escludo nulla perché, per citare l'eminente economista Yogi Berra, “è molto difficile formulare previsioni, specialmente riguardo al futuro”.

Ma l’inclinazione della curva dei rendimenti non mi dice proprio niente. Il suo potere predittivo, nelle condizioni odierne, è scomparso.

venerdì 8 aprile 2016

Il debito degli stati USA

Non di rado, sento mettere a confronto la situazione dell’indebitamento degli stati USA e quella degli stati membri dell’Eurozona. USA ed Eurozona sono entrambi unioni monetarie: i primi usano il dollaro, la seconda l’euro. Entrambi hanno un unico istituto di emissione, rispettivamente la Federal Reserve e la BCE. La Fed non garantisce il debito degli stati USA: quindi perché mai la BCE dovrebbe garantire il debito degli stati eurozonici ? è giusto che non lo faccia, no ?

Suona quasi un’ovvietà, fino a quando non si riflette sul fatto che la grande maggioranza dell’indebitamento del settore pubblico USA è contratto dal governo federale, non dagli stati o da altri enti pubblici locali. E il governo federale gestisce e finanzia, peraltro, la grande maggioranza dei programmi di spesa.

Certamente, la Federal Reserve non garantisce il debito degli enti territoriali, che spesso in effetti non sono neanche autorizzati ad assumerne (hanno il vincolo del pareggio di bilancio e vivono di imposte locali e di trasferimenti da Washington). Per quelli non soggetti al vincolo, capita, e nemmeno infrequentemente, che si verifichi un default: è accaduto per la città di New York negli anni Settanta, per la California e per Detroit più di recente.

La differenza è che, se la California fallisce, non sono a rischio le attività pubbliche svolte nel territorio dello stato, ma sotto la responsabilità del governo federale (e finanziate da quest’ultimo). Non si minacciano tagli di dipendenti federali, non sono a rischio le pensioni o i sussidi di disoccupazione.

Inoltre il debito in circolazione emesso dal singolo stato, quando esiste, è una piccola quota del PIL locale, non certo percentuali vicine o superiori al 100%. E il debito non è prevalentemente posseduto da istituzioni finanziarie e investitori locali: in buona parte i creditori sono sì statunitensi, ma residenti in altri stati (non in quello che subisce il default).

Il default di uno stato USA è un problema, sicuramente, ma un problema confrontabile a quello del fallimento di una grossa azienda locale. Non crea un rischio di dissesto dell’intera economia e/o dell’intero sistema bancario e finanziario dello stato.

Nell’Eurozona, al contrario, la spesa pubblica è gestita solo per frazioni minime a livello UE, e non esiste un’”eurodebito pubblico”. Spesa e debito sono pressoché interamente problemi dei singoli stati membri.

Il che significa però che il default di uno stato membro dell’Eurozona crea danni ben più alti rispetto a una situazione analoga negli USA. E di conseguenza il debito contratto in una moneta (l’euro) che nessuno stato emette, senza che l’istituto di emissione lo garantisca, è un pericolo di un ordine di grandezza molto, ma molto superiore.


La maggiore disfunzione dell’Eurozona, più ancora della mancanza di un meccanismo di riequilibrio di competitività tra gli stati (la flessibilità dei cambi), è l’aver trasformato i debiti pubblici, da passività in moneta sovrana, a passività in moneta straniera.