Uno dei luoghi comuni in voga nell’ambiente finanziario italiano è che molti problemi verrebbero risolti grazie allo sviluppo del mercato azionario nazionale.
Lo sento dire da quarant’anni perché la mia carriera professionale è partita, appunto, quarant’anni fa. Ma senza dubbio lo si diceva anche prima. Con la ricchezza del tessuto imprenditoriale, con la vitalità delle PMI che caratterizza l’Italia, come può il listino di borsa essere composto da poche centinaia di titoli ?
Quarant’anni dopo i titoli sono sempre poche centinaia.
Il motivo per la verità è semplicissimo. Le floride PMI italiane sono aziende che fatturano, nella stragrandissima maggioranza dei casi, pochi milioni o poche decine di milioni.
E aziende di quelle dimensioni in borsa non ha senso che ci vadano. Se lo fanno, i valori scambiati sono risibili. L’interesse degli investitori istituzionali, che hanno grosse somme da muovere, è pressoché inesistente: non perché le aziende non vengano apprezzate, ma perché se hai una corazzata non ti muovi in uno stagno. I costi indotti, legali, di comunicazione, di produzione di dati, sono pesanti, a fronte di utilità scarsa o nulla per la gestione societaria.
Le PMI italiane semplicemente non sono oggetti adatti
al mercato azionario. Non è né un bene né un male. E’ un fatto.