venerdì 27 ottobre 2017

La fine del QE prossima ventura ma non troppo

Ieri la BCE ha annunciato la riduzione del programma di Quantitative Easing, abbassando l’importo degli acquisti mensili di titoli da 60 a 30 miliardi, con decorrenza da gennaio 2018. Gli acquisti continueranno, comunque, fino a settembre 2018 “o oltre se necessario”.

L’abbassamento era previsto ma c’erano incertezze sull’entità. L’euro si è indebolito nei confronti del dollaro, il che significa che molti operatori ipotizzavano una riduzione degli acquisti di maggiore dimensione, e/o che emergessero indicazioni più chiare sui tempi di azzeramento totale del programma di QE.

La mia opinione è che l’azzeramento non avverrà prima degli ultimi mesi del 2019, in coincidenza con la scadenza del mandato di Mario Draghi alla presidenza della BCE.

Draghi, credo, vorrebbe lasciare l’incarico contestualmente con l’annuncio che il QE è finito, e magari nello stesso tempo effettuare il primo incremento dei tassi d’interesse. Un incremento di entità simbolica, un quarto di punto, ma che avrebbe il senso di affermare “missione compiuta, siamo tornati alla normalità, lascio da vincitore”.

In ogni caso, una domanda che mi viene posta molto di frequente è “non c’è da temere un’impennata dei tassi nel momento in cui il QE terminerà, o magari anche prima quando sarà chiara la data di conclusione ? e il costo del debito pubblico ? e non rischiamo una nuova crisi dello spread ?”

La mia risposta – che sorprende parecchi interlocutori – è che i timori per le conseguenze del “fine-QE” sono molto, ma molto sopravvalutati.

Sorprende parecchi interlocutori, certo, ma non dovrebbe sorprendere più di tanto chi segue questo blog. Se è vero – e l’ho detto, l’ho ripetuto, e l’ho confermato – che il QE di Draghi implica ben pochi effetti sull’inflazione (e sulla crescita economica), perché il suo venir meno dovrebbe generare chissà quali cataclismi ?

Il punto è sempre lo stesso: il QE è un meccanismo di emissione monetaria che non genera maggior potere d’acquisto per beni e servizi. Immette enormi masse di liquidità nel circuito finanziario: ma queste masse lì restano. Gli effetti su prezzi, produzione e occupazione sono quindi modestissimi rispetto ai volumi in gioco.

Un elemento a sostegno di questa opinione è quanto accaduto negli USA. Il QE della Federal Reserve è terminato ormai da più di tre anni. Attività economica e occupazione sono stati, in questo periodo, ben più tonici rispetto all’Eurozona. Nonostante queste tendenze, di quanto sono saliti i tassi d’interesse ?

Di un mirabolante punto percentuale. I titoli di Stato USA a brevi scadenze sono passati grossomodo da un rendimento zero all’1%. I decennali, da minimi intorno all’1,5% sono saliti al 2,5% scarso oggi.

Con un output gap molto superiore, e un’inflazione pressoché morta, i rialzi di tassi nell’Eurozona non saranno certo più rapidi – casomai il contrario.

E lo spread ? anche qui c’è un po’ di confusione. La differenza di rendimento tra i titoli di Stato italiani e tedeschi non è dovuta al QE che continua o non continua. E’ dovuta al rischio di rottura dell’Eurozona, e di conseguente svalutazione (o default) dei titoli italiani.

Lo spread a 500 punti e oltre, raggiunto a fine 2011 e ancora nell’estate del 2012, era dovuto a questo rischio, e si è rapidamente abbassato dal momento in cui – fine luglio 2012 – Draghi ha annunciato il whatever it takes, cioè la volontà da parte della BCE di fare “tutto quanto necessario” per preservare l’integrità dell’Eurozona

La conseguenza è stata il rapido abbassamento dello spread, che ormai da tempo viaggia in un canale compreso tra 100 e 200 punti base. A dimostrazione del fatto che il mercato crede all’impegno della BCE… entro certi limiti. Perché 100 o 200 punti base (oggi 160 circa) è comunque un po’ diverso da zero…

Il punto da aver chiaro in mente, comunque, è che per l’abbassamento dello spread l’elemento chiave è stato l’annuncio di Draghi, non la partenza del QE. Basta dare un’occhiata alle date per rendersene conto: rispettivamente luglio 2012 e marzo 2015.

Il QE non ha risolto l’Eurocrisi, e la sua conclusione di per sé non peggiorerà le cose. Rischi e opportunità esistono, certo: ma stanno altrove


sabato 21 ottobre 2017

Quelli che “ma i CCF vanno iscritti al passivo”

Obiezione che spesso e volentieri mi viene rivolta: come fai a dire che i CCF non sono debiti ? non vanno iscritti come passività nel bilancio pubblico ? ma Cattaneo, le conosci la contabilità e la partita doppia ???

Beh con la partita doppia, scusate l’immodestia, penso di cavarmela in modo passabile o anche qualcosa di più.

E approfondendo il tema, ci si imbatte ad esempio in questo articolo, che, alla luce dei principi contabili internazionali (IFRS 15 e IAS 18) dice tra le altre cose, nell’esempio 1, quanto segue:

“Buoni sconto: immaginate di gestire un e-shop che vende libri.
Per sostenere le vostre vendite, spedite un buono sconto di 5 euro che i vostri clienti possono utilizzare per ogni acquisto superiore a 100 euro.
Come dovreste contabilizzare il buono sconto ?
In questo particolare esempio, non dovete effettuare alcun accantonamento nei vostri libri contabili nel momento in cui il buono sconto viene distribuito.
Perché ?
Perché non c’è evento passato.
Ricordate, un cliente dovrà effettuare un acquisto superiore a 100 euro e solo in quel momento scatterà l’impegno a riconoscere uno sconto di 5 euro.
Dovrete, invece, semplicemente riconoscere un ricavo al netto dello sconto quando il buono sconto viene utilizzato”.

Si tratta esattamente della stessa logica che deve essere applicata ai non-payable tax credits (categoria che comprende i CCF) sulla base dei principi contabili Eurostat: i CCF non sono debiti, ma titoli che incorporano il diritto del titolare a vedersi riconoscere uno sconto fiscale, al verificarsi di condizioni predeterminate (decorrenza di un periodo di tempo prestabilito dall’emissione, e presentazione del titolo da parte di un soggetto d’imposta). In quel momento si misurerà l’effettivo gettito fiscale conseguito dalla pubblica amministrazione.

Questa è la situazione a stretto rigore di principi contabili. Bisogna comunque aggiungere che quand’anche i CCF fossero esposti come passività nel bilancio statale, esistono molte altre poste contabili che pur essendo inserite dal lato del passivo di uno stato patrimoniale (pubblico o privato) non sono debiti finanziari.

Due esempi particolarmente significativi:

Il capitale sociale di una società per azioni va al passivo dello stato patrimoniale. Perché mai è una passività ? perché a fronte dell’esistenza del capitale sociale, la società assume impegni nei confronti dei suoi azionisti: in particolare, l’impegno alla distribuzione dei dividendi secondo regole prestabilite, e al rimborso del capitale nell’evento di una liquidazione.

Questo rende il capitale sociale un debito ? evidentemente no, e tantomeno un debito finanziario.

Altro esempio: uno stato che emette la propria moneta nazionale (o la fa emettere a una banca centrale appartenente alla pubblica amministrazione statale).

La moneta in circolazione sarà registrata al passivo nello stato patrimoniale consolidato dello stato in questione. Va al passivo perché sussiste un impegno (liability): la moneta ha corso legale nello territorio dello stato, e tra le altre cose tutte le obbligazioni d’imposta, e anzi le obbligazioni finanziarie di qualsiasi natura nei confronti del settore pubblico, si estinguono utilizzando quella moneta. Il settore pubblico è obbligato ad accettarla.

Lo stato che emette moneta assume quindi un impegno, e lo registra contabilmente al passivo. Ma quell’impegno non è un debito, né tantomeno un debito finanziario. E’ un impegno di accettazione, non di rimborso / pagamento.

I CCF, quand’anche venissero esposti contabilmente come passività (cosa che – come ci fa sapere Eurostat - NON deve essere fatta) non sarebbero, e non sono, una componente del debito pubblico.


mercoledì 18 ottobre 2017

Perché l’espansione fiscale OGGI è indispensabile

Sento, di tanto in tanto, formulare affermazioni del tipo “la crisi c’è stata ed è stata pesante, ma la causa è lo scoppio della bolla finanziaria internazionale, culminata nel fallimento Lehman. Nove, dieci anni fa. Possibile che stiamo ancora a parlare della necessità di forti interventi anticiclici oggi ?”

Sì, non solo è possibile ma anche assolutamente necessario. Perché violente azioni di consolidamento fiscale sono state attuate nel 2011-2. In un momento completamente inopportuno, quando gli effetti della crisi Lehman erano ancora ben lontani dall’essere recuperati. E queste azioni sono state particolarmente intense in Italia, più che in qualsiasi altro paese dell’Eurozona (per non parlare di quelli fuori) con la sola eccezione della Grecia (che infatti è messa come sappiamo).

Anche rispetto al 2012, si dirà, è passato parecchio tempo – cinque anni. Certo. Ma se mentre guidi in autostrada freni violentemente e riduci la velocità dell’auto a 50 kmh, come ritorni alla tua velocità di crociera – diciamo 120 ?

La risposta è semplice: riaccelerando.

E dopo il 2012 si è riaccelerato ? No, il “consolidamento fiscale” è proseguito, semplicemente a un ritmo più lento. Il per la verità è stato sufficiente a invertire la tendenza delle variazioni del PIL reale: dai segni meno si è passati agli zero virgola e adesso agli uno virgola.

Ma recuperare lo spaventoso, inaccettabile output gap che si è prodotto tra il 2008 e il 2013 (output gap che significa disoccupazione e profondo disagio sociale) richiede alcuni anni di crescita a ritmi ben superiori: 3%, 4%.

Non perché il potenziale di crescita italiano sia, nel lungo termine, così elevato, ma perché c’è un buco di domanda da colmare. E proprio perché c’è un buco da colmare, 3-4% di crescita reale del PIL per 3-4 anni sono fattibilissimi: a condizione di introdurre nel sistema economico la domanda mancante.

Altrimenti, nella migliore delle ipotesi (cioè in assenza di shock esterni, che peraltro, prima o poi, arrivano) si va avanti con gli uno virgola. E non ci si può, assolutamente, accontentare, dire “meglio che niente, non è così male”. Perché con gli uno virgola disoccupazione, sottoccupazione e povertà NON si riducono. E i livelli – gli attuali – a cui rimangono non sono minimamente accettabili.

domenica 15 ottobre 2017

Ferruccio De Bortoli e la Moneta Fiscale

Ferruccio De Bortoli ha pubblicato su “Corriere Economia” un pezzo sulla Moneta Fiscale. Il Corriere ci ha dato disponibilità a pubblicare una replica, cosa che dovrebbe avvenire, credo, lunedì 23 prossimo. Vi anticipo intanto un mio primo draft; la versione finale della risposta dirà cose in parte simili ma anche (ovviamente…) in parte diverse nonché più estensive, grazie alle integrazioni di Biagio Bossone, Massimo Costa e Stefano Sylos Labini.

Ferruccio De Bortoli va ringraziato per l’attenzione dedicata, nell'articolo del 9 ottobre u.s., alla nostra proposta di rilanciare l’economia italiana introducendo uno strumento finanziario denominato Certificato di Credito Fiscale (CCF) o Titolo di Sconto Fiscale (TSF). E’ appropriato, d’altra parte, cogliere l’occasione per una serie di chiarimenti in merito ai dubbi che sono stati espressi.

Una prima osservazione: purtroppo, l’ottimismo sull’economia italiana manifestato da De Bortoli è – allo stato attuale – difficile da condividere. Le esportazioni crescono e i saldi commerciali esteri sono ampiamente positivi, certo. A riprova che dove c’è domanda, le nostre aziende continuano a essere competitive. Ma il problema è appunto la carenza di domanda interna – conseguenza dei vincoli imposti dal “sistema euro” nella sua conformazione attuale.

Il +1,5% previsto per il PIL reale 2017 implica che permane un delta negativo di circa 100 miliardi (un buco del 6% circa) rispetto ai livelli 2007 – dieci anni fa ! La disoccupazione è doppia, le persone in povertà assolute triple, la qualità dei posti di lavoro che si creano è scadente, con ampie e crescenti sacche di precariato e lavoro a tempo limitato.

Crescite dell’uno virgola non migliorano il profondo disagio sociale in cui è caduto il nostro paese. Sono a stento sufficienti a non peggiorare la situazione.

E questo quadro è in realtà fortemente a rischio di peggiorare. L’establishment politico tedesco (sia il ministro delle finanze uscente Schaeuble, che Lindner, il leader del partito liberale FDP, probabile componente della prossima coalizione di governo) preme per un meccanismo di ristrutturazione automatica dei debiti pubblici dei paesi in difficoltà. Il costituendo governo olandese è su posizioni simili. E la vigilanza BCE spinge per accelerare lo smaltimento dei non-performing loans detenuti dalle banche.

Il rischio è affossare la debole e insufficiente crescita che in questo momento l’Italia è faticosamente arrivata a conseguire. La ristrutturazione automatica dei debiti pubblici, poi, ha forti probabilità di innescare l’uscita dall’Eurozona dei paesi interessati.

Di fronte a questi problemi, i CCF sono una soluzione estremamente plausibile.

Il loro valore è agganciato all’euro, in quanto a partire da una data futura prestabilita sono utilizzabili illimitatamente per ottenere sconti fiscali. Non possono quindi verificarsi significative discordanze di valore tra euro e CCF, purché ovviamente non giungano a utilizzo CCF in quantità prossima alle entrate pubbliche lorde. In questo caso la perdita di valore sarebbe causata dalla difficoltà di utilizzare tutti i CCF nell’anno in cui scatta il diritto allo sconto: ma il problema non sussiste in quanto il progetto prevede un’amplissima copertura (minimo 5:1, più probabilmente 10:1).

L’innesco di un “moltiplicatore fiscale” elevato – crescita di PIL superiore ai CCF emessi – è giustificato dagli attuali livelli di domanda aggregata, fortemente inferiori alle capacità produttive dell’economia. Ne sono prova proprio l’altissimo livello di disoccupazione e sottoccupazione, e il PIL reale enormemente inferiore ai livelli raggiunti una decade (!) fa. Il moltiplicatore fiscale è alto in contesti del genere (mentre è vicino a zero se le condizioni dell’economia sono già toniche: in assenza di risorse produttive da mettere al lavoro, introdurre domanda innalza i prezzi, non le quantità prodotte).

Del resto, una prova chiarissima dell’alto moltiplicatore in condizioni di depressione economica l’abbiamo avuta, disgraziatamente, a causa delle azioni di segno opposto (“consolidamento fiscale”) attuate nel 2011-2012: tredici trimestri di caduta consecutiva e cinque punti di PIL lasciati sul terreno (nonché un rapporto debito pubblico lordo / PIL che è salito invece di scendere, a causa della flessione del denominatore).

Quanto al dubbio che i CCF in circolazione dovrebbero essere conteggiati come parte del debito pubblico, trattati e regolamenti UE ed Eurostat sono chiarissimi: debito è solo quello a fronte del quale lo Stato è impegnato a un pagamento. Il diritto a conseguire uno sconto d’imposta non lo è, altrimenti per assurdo dovrebbe essere “debito dello Stato” (un esempio tra molti) la minore imposta conseguente dal diritto ad ammortizzare un impianto industriale negli anni futuri di utilizzo.

De Bortoli commenta che sussiste il rischio di “caos che si scatenerebbe sui criteri di distribuzione”. Ma qualsiasi azione di politica fiscale (spesa e tassazione) comporta effetti distributivi: compito degli organi di governo è gestirli, ed è quanto avviene da sempre – non certo dal momento in cui si introducono i CCF.

Quanto all’osservazione (sempre di De Bortoli) che “non si riflette a sufficienza sugli effetti diseducativi di un reddito gratuito”: i CCF non nascono per questo. L’allocazione è per varie finalità – integrazione di reddito ai lavoratori, riduzione del cuneo fiscale a vantaggio delle imprese, finanziamento di investimenti pubblici, spesa sanitaria, pubblica istruzione. Potere d’acquisto in più, quindi, a chi lavora, o per generare più lavoro. La critica di De Bortoli ha senso se rivolta a proposte quali il reddito di cittadinanza del M5S: che è una, ma solo una, delle tante cose che i CCF possono contribuire a realizzare – e se non piace, va criticata quella proposta, non lo strumento.

De Bortoli teme poi che la manovra “sarebbe percepita come una scorciatoia, una furbizia, rivelatrice di difficoltà di bilancio ben superiori alla realtà”. Ma le difficoltà – si è detto sopra – esistono: l’errore imperdonabile è ignorarle. I paesi del Nord chiedono che venga rigorosamente imposto un tetto massimo ai debiti pubblici, quelli del Sud (Francia inclusa) hanno invece bisogno di rilanciare domanda, produzione e occupazione.

La soluzione CCF riconcilia le due posizioni. Nessuno potrà mai forzare uno Stato a non onorare l’impegno di accettare CCF. D’altra parte, lo Stato che attuasse il programma in modo indisciplinato sarebbe punito dallo svilimento di valore dei suoi CCF (se ne emettesse una quantità che allunga i tempi di utilizzo effettivi) senza ricadute o rischi sugli altri paesi.

In sintesi: tetto massimo ai debiti pubblici in misura pari ai livelli attuali, in tutti i paesi. Ognuno è libero di emettere CCF nazionali, perché non richiedono garanzie e non implicano rischi per i partner dell’Eurozona. Ogni paese ritrova le leve d’azione necessarie per riportare domanda, occupazione, attività economica a livelli tonici.

E l’Eurosistema ottiene finalmente condizioni di efficienza e di sostenibilità, che oggi non sussistono.


mercoledì 11 ottobre 2017

Colpe dei governi e colpe delle banche centrali


Qualche giorno fa, uno scambio di idee con Biagio Bossone e Stefano Sylos Labini mi ha suggerito alcune considerazioni in merito alle responsabilità della crisi economica, e della sua mancata soluzione.

Nell’Eurozona, i governi hanno le mani legate, si afferma spesso, in quanto non emettono la moneta che utilizzano, e quindi (1) non possono effettuare le necessarie politiche di sostegno della domanda e (2) non sono in grado di garantire illimitatamente la solvibilità dei debiti pubblici. In quest’ottica, lo spossessamento della facoltà di emissione monetaria da parte degli Stati è, evidentemente, una disfunzione gravissima.

Questo affermazioni sono corrette. Biagio mi ha portato però a riflettere sul fatto che le azioni espansive sono state interrotte prima di quando sarebbe stato opportuno – in altri termini, si è fatta austerità senza motivo, grosso modo a partire dal 2011 – anche negli USA e nel Regno Unito, e a causa di consapevoli decisioni dei governi, non delle banche centrali.

La riduzione degli stimoli fiscali non è stata così feroce e assurda come nell’Eurozona, ma è stata sufficiente a rallentare il ritmo della ripresa produttiva anche nei due principali paesi anglosassoni. E incolpare di questo la Federal Reserve e la Bank Of England sarebbe francamente ingiusto.

Nulla lascia pensare che Fed e BOE avrebbero fatto mancare il loro sostegno a politiche maggiormente espansive, nella misura opportuna (un paio di punto di deficit / PIL in più per un paio d’anni). Governi sostenuti da maggioranze parlamentari democraticamente elette hanno però deciso altrimenti, ritardando così immotivatamente la ripresa, senza che le banche centrali abbiano fatto pressioni in quel senso.

La Fed e la BOE, essendo dotate di un mandato duale (tutela dell’occupazione e non solo stabilità dei prezzi) hanno, in effetti, rapidamente attivato azioni di Quantitative Easing. Ma il QE ha limiti ben noti riguardo alla sua capacità di sostenere domanda e ripresa produttiva. D’altra parte, sia pure con anni di ritardo, il QE l’ha avviato anche la BCE (motivandolo con l’inflazione troppo bassa). Se la BCE fosse stata dotata di un mandato duale (com’è per altri versi auspicabile) sarebbe cambiato poco o nulla, nel senso che senza la possibilità di fare espansione fiscale la crisi dell’Eurozona non sarebbe stata significativamente meno grave, sia in ampiezza che in durata.

Certo, la BCE tecnicamente potrebbe attuare un’azione espansiva diretta facendo Helicopter Money. Ma ci sono due problemi seri.

Il primo è che l’HE implica di prendere decisioni non solo sulla creazione di potere d’acquisto supplementare, ma anche sulla sua allocazione. E quest’ultima decisione è compito di governi e parlamenti, non di una banca centrale.

Il secondo è che le azioni espansive non servono nella stessa misura in tutti i 19 paesi dell’Eurozona: molto al Sud, molto meno o per nulla nel Nord “teutonico”. Lo stimolo fiscale deve essere differenziato.

Soluzione ? i Certificati di Credito Fiscale nazionali. Ogni paese li introduce nella misura necessaria al ripristino di un sano e corretto livello di impiego delle sue risorse produttive. I CCF danno diritto a sconti fiscali futuri, ma non devono essere rimborsati in euro e quindi non richiedono garanzie supplementari da parte della BCE.

Ogni paese, a questo punto, s’impegna senza più eccezioni a non effettuare spese in euro superiori agli incassi in euro. I debiti pubblici veri, quelli cioè da rimborsare in euro, si stabilizzano quindi definitivamente in valore assoluto, e calano in rapporto al PIL (via via che le economie crescono). Sono perfettamente centrati, quindi, gli obiettivi per cui è stato introdotto il Fiscal Compact. Quei livelli di debito pubblico sono garantiti dalla BCE – ma non un centesimo in più.

I livelli di CCF in circolazione potranno fluttuare in funzione delle esigenze di stabilizzazione del ciclo economico: in altri termini le emissioni potranno essere aumentate o diminuite in funzione della necessità, rispettivamente, di accelerare la ripresa, oppure di evitare il surriscaldamento delle economie.

E se un paese è indisciplinato, cioè se ne emette troppi, accadrà che i CCF perderanno valore in quanto finiranno per arrivarne a scadenza una quantità eccessiva, che renderà necessario attendere più tempo per riuscire a utilizzarli (perché il rapporto tra CCF in scadenza e entrate fiscali lorde diventerà troppo alto). Ma la penalizzazione toccherà solo i CCF di quel paese, non degli altri. E non creerà rischi alla stabilità finanziaria dell’Eurosistema nel suo complesso.


lunedì 9 ottobre 2017

venerdì 6 ottobre 2017

Video Cattaneo - Boldrin

Trovate qui la registrazione di una videoconferenza tra me e Michele Boldrin, tenuta ieri pomeriggio.

Le “considerazioni” che ho sentito esporre dal mio interlocutore hanno raggiunto notevoli vertici di comicità, immagino del tutto involontaria. Tra le altre segnalo:

La caduta del PIL italiano nel 2009 (-5%) NON è stata la conseguenza della crisi finanziaria internazionale perché “le banche italiane erano ancora sane, avevano pochi crediti deteriorati e poca esposizione ai derivati, o perlomeno così diceva Tremonti”. Il fatto che sia andata in blocco la circolazione del credito tra tutte le principali istituzioni finanziarie mondiali e che si siano interrotti dappertutto i flussi di ordini e commesse non rileva, naturalmente…

Le Banche Centrali non sono garanti di ultima istanza dei debiti pubblici. Quindi esiste un rischio significativo che Federal Reserve, Bank of England, Bank of Japan, Banca Nazionale Svizzera lascino andare in default i rispettivi governi su debiti pubblici espressi in dollari, sterline, yen, franchi svizzeri…

L’euroausterità non è responsabile della crisi italiana perché “altri paesi dell’Eurozona si sono ripresi”. Certamente: quelli per cui l’euro è una moneta sottovalutata (Germania in primis) e non viceversa, e che quindi hanno beneficiato di enormi surplus commerciali. E quelli che hanno fatto molta meno austerità dell’Italia (Francia, Spagna…)

Con più potere d’acquisto in circolazione l’occupazione in Italia non riprenderebbe comunque perché “non si saprebbe come utilizzare i disoccupati”. Invertire la tendenza alla contrazione degli staff e delle risorse nella sanità, nella pubblica istruzione, negli interventi sul territorio a seguito di catastrofi naturali no ?...

Nei limiti del tempo a disposizione queste “argomentazioni” le ho confutate. Mi trovavo però nella posizione di Rommel durante il D-Day: la contraerea sparando colpiva sicuramente qualcosa, ma i mezzi da sbarco erano troppi per affondarli tutti.

Ma in effetti è uno sforzo degno di miglior causa. Boldrin, al contrario delle truppe anglo-americane, si affonda da solo, basta lasciarlo parlare…

mercoledì 4 ottobre 2017

Video incontro GECOFE

Con moltissimi ringraziamenti agli amici di GECOFE, in particolare Claudio Bertoni e Claudio Pisapia, che con grande tempestività hanno messo a disposizione il video dell'incontro del 29 settembre scorso a Ferrara.

Lo trovate qui. Io intervengo a partire dal minuto 32, circa.

lunedì 2 ottobre 2017

Mi dice un imprenditore


“Ho macchine e operai per produrre il 50% in più di quanto faccio attualmente. E poi parlano di inflazione.

E quanto alla produttività, l’incidenza dei costi fissi cala via via che aumentano le quantità prodotte e vendute. I prezzi, anche con quella crescita di domanda e di produzione, non li toccheremmo per cinque anni almeno”.

Questo è un imprenditore (mi scuso se non ne cito il nome, è un contatto twitter e mi sono segnato le sue affermazioni scordando però di prendere nota dell’autore)

questo è UN imprenditore, dicevo, ma la sua situazione è quella in cui si trovano UN NUMERO ENORME di imprenditori – e quindi di aziende - italiani.

In quattro righe, da quanto sopra, emerge che:

uno, ci troviamo in una crisi di DOMANDA

due, introdurre nell’economia italiana un maggior livello di domanda comporta automaticamente di recuperare produttività e competitività, senza bisogno di (vaghe e fumose, quando non controproducenti) “riforme strutturali

tre, non c’è da preoccuparsi dell’inflazione fino al momento in cui non si è rimessa al lavoro, quantomeno in larga parte, la capacità produttiva oggi inutilizzata.

“Capacità produttiva inutilizzata” che significa disoccupati e sottoccupati, impianti fermi o che lavorano a mezzo servizio, capannoni che ospitano quattro linee produttive dove si potrebbe tranquillamente farne lavorare sei.

Significa, soprattutto, disoccupazione doppia rispetto al 2007, persone in povertà assoluta triplicate (tre milioni in più), enorme, ingiustificato, inaccettabile disagio sociale.

Tutti problemi che possono essere avviati a soluzione SUBITO, e risolti in pochi anni.